A ripercorrere le numerose accezioni in cui viene inteso il rifugio si rischia di perdersi. Tuttavia mi sembra di rintracciare un doppio fondo comune, inesplicitato in quanto presupposto. Il primo è che il rifugio è pensato come una casa, il secondo è che questa casa è pensata come un interno, un focolare o un foyer, spazio chiuso tra quattro se non sei pareti. Per costituire un rifugio domestico ci vuole un enclos protetto dagli elementi naturali, che vengano dall’alto come il sole, il vento o la pioggia, dai lati come gli animali o dal basso come l’umidità. Una volta all’interno di un contenitore il cui contatto con l’esterno è per lo più visivo, filtrato dai ritagli delle finestre o di un lucernario, parleremo propriamente di casa. Si tratta senza dubbio del retaggio di una visione dualista del mondo che pone l’essere umano da una parte e tutto il resto dall’altra, di un’idea di spazio precedente quella di milieu di cui senza sosta si ridisegnano i confini, gli scambi e le partizioni tra il vivente e quanto lo circonda.
Come ripensare il rifugio al di là delle pareti in cui siamo abituati a vivere ma anche il nostro rapporto con l’esterno? Me lo chiedo leggendo quasi per caso, a distanza ravvicinata, due testi che, malgrado la loro diversità, insistono, per semplificare, sullo stesso punto: che è possibile entrare nel fuori. Un’ipotesi che ci permetterebbe di ripensare la natura interna e interiore dei rifugi.
Il primo passaggio che mi salta agli occhi appartiene al filosofo norvegese Arne Næss (1912-2009), padre dell’ecologia profonda, tratto dalla sua autobiografia e testamento spirituale, scritta a ottantasei anni e tradotta in inglese nel 2002 (Life’s Philosophy: Reason and Feeling in a Deeper World). È tratta dal capitolo “Un sentimento per tutti gli esseri viventi” dove Næss afferma, come se la cosa andasse da sé, che per lui e per la tradizione norvegese cui aderisce, e in cui è sostanzialmente nata e maturata l’ecologia profonda, non si tratta tanto di uscire o andare fuori quanto piuttosto di mettersi nella Natura (l’enne maiuscola è dell’autore): “I norvegesi sono soliti pensare che la Natura, lungi dall’essere fuori di noi, sia piuttosto ciò dentro cui entriamo”. Il sentimento per la Natura è descritto da Næss come “un affetto positivo per spazi che non recano tracce evidenti dell’attività umana”; in seguito insiste sull’“evidenti”.
Una sottolineatura non innocente, che permette di distinguere la nozione norvegese di friluftsliv, letteralmente vita all’aria aperta, dalla wilderness o dalla natura incontaminata secondo il pensiero statunitense. “La natura libera è diversa dalla wilderness nordamericana, in quanto vaste aree montuose in Norvegia si trovano nei pressi di vecchie fattorie, anche se i terreni sono aperti e non recintati. Si può camminare e campeggiare liberamente ovunque, tranne dove si trovano i poderi estivi (setters) […] Durante l’estate gli allevatori portano pecore, capre e mucche sugli altopiani montani. La tradizione norvegese delle baite deriva in parte da questa pratica rurale, così come il friluftsliv”[1].
Questo entrare dentro la natura, al suo interno o, se preferite, nel suo alveo, che il friluftsliv rende praticabile o meno paradossale di quanto sembri, è agli antipodi della vita sociale. Nella riflessione di Næss, la società, esercitando forti pressioni esteriori, c’induce a vivere senza prestare ascolto a noi stessi o, è lo stesso, a vivere proiettandoci all’esterno.
Næss, che è rimasto tutta la vita un alpinista provetto (ha scalato il Tirich Mir, 7708m, due volte, nel 1950 e nel 1963), pensa anzitutto alla montagna e probabilmente redige questo passaggio dell’autobiografia nella sua baita a Tvergastein, a quasi duemila metri. Qui ha trascorso oltre dieci anni in compagnia dei classici della filosofia, di alcuni romanzi e libri di scienza, di dizionari e vecchi dischi. Per Næss, Tvergastein non è un semplice rifugio ma la macchina generatrice dell’ecologia profonda o, meglio, dell’Ecosofia T, dove T sta per Tvergastein perché a questo luogo è consustanziale un modo di pensare. L’Ecosofia T è insomma una geo-filosofia se non una ecotopia. Di certo un pensiero in cui alla casa resta associata un’idea di interno, ma dove questo interno non è più perimetrato da una struttura architettonica, al punto che la Natura stessa, culturalmente associata all’esterno, può farsi rifugio.
Del resto se Tvergastein è una casa nel senso classico del termine, la sua esposizione agli elementi fa vacillare l’idea di foyer: il tetto vola via tre volte a causa di una tempesta, diventando carburante per la stufa; “Si dice che questa baita abbia avuto fino a sette tetti uno sopra all’altro, sorretti da cavi e che, durante una forte tempesta, diversi tetti possano volare via”[2].Tuttavia l’esperienza descritta da Næss è molto più ampia dal punto di vista storico e geografico: “la storia ci restituisce allo stesso tempo numerose testimonianze di persone che cercano rifugio ‘nella’ natura per ritrovare meglio se stesse”. Al riguardo si rifà a un passo che attribuisce alla Bhagavadgītā, dove Damayanti, donna del re Nala, sconsolata da quando il re si è ritirato dal mondo, lo cerca nel cuore delle foreste più profonde dell’Himalaya. A esser pignoli, la storia è raccontata nel terzo parvan del Mahābhārata, quello della Foresta (Vanaparva), e non nel sesto dove si trova la Bhagavadgītā, ma le intenzioni di Næss restano chiare: mostrare che questa Natura nella quale risiedere non è circoscritta al paesaggio norvegese o all’ecologia profonda, ma coglie un’esperienza antropologica storicamente e geograficamente estesa.
Il secondo passaggio in cui m’imbatto e che entra in corto-circuito col primo è del sociologo e antropologo della scienza Bruno Latour (1947-2022), tratto da quello che resta il suo ultimissimo libro pubblicato in vita, Trilogie terrestre. Nella prima sezione, “Inside”, Latour sostiene che abbiamo smarrito il senso dell’esteriorità: “quando ci muoviamo nello spazio, non siamo più ‘là fuori’. Ci sentiamo intrappolati”[3]. Lo pensa in occasione di una traversata atlantica in aereo, diretto a Calgary (Canada), quando osserva fuori dal finestrino la banchisa della baia di Baffin. Una volta osservava questa scena come fosse un quadro, ovvero uno spettacolo della natura in cui non era direttamente coinvolto. Se non fosse che questo paesaggio sta scomparendo e che, sciogliendosi, la banchisa assume sembianze sinistre se vista dall’alto, quelle di un volto concitato che gli ricorda L’urlo di Edvard Munch. Non si tratta di una suggestione, come i lettori possono verificare dalla foto presa da Latour e riprodotta in Trilogie terrestre. All’autore non sfuggono le ragioni per cui questa sua esperienza non sia sublime e anzi ne costituisca la sua sparizione: se il sublime presuppone una posizione esteriore rispetto alla scena, “il mio stesso viaggio”, ammette Latour, “era la causa dello scioglimento della banchisa”[4] – una variante aerea del terraqueo naufragio con spettatore.
Ora, in tale occasione, a interessarmi non è tanto la scomparsa dell’esperienza del sublime e lo scioglimento dei ghiacciai ma il fatto che la conclusione cui giunge Latour – “nous sommes à l’intérieur et il n’y a plus d’extérieur”[5] – è difficile da accettare, o può esserlo fatto a livello razionale, meno a livello esperenziale. La ragione sta nel modo in cui abbiamo appreso a rappresentare la nostra Terra, che vuol dire anche a viverla e ad orientarci sulla sua superficie. Facile indicare il momento emblematico in cui tale visione alienante si è cristallizzata: il 7 dicembre 1972, quando la NASA diffonde la foto di “Blue Marble”, la Terra vista dall’esterno, un globo blu perso nella nera immensità galattica. Ma questo è altrettanto vero, a livello generale, dell’immaginario cartografico, incapace di cogliere la Terra, “una cosa all’interno della quale ci troveremmo, ma che non siamo in grado di riconoscere”[6].

Certo, non mancano studi scientifici come quelli della geofisica che offrono una visione meno disincarnata e celeste della Terra, eppure questa resta inaccessibile e inappropriabile. Da qui il nostro disorientamento, causato da “non essere in grado di rappresentare il posto in cui ci si trova. Alla fine, non sappiamo dove siamo”. Per questo è necessario coltivare una “rappresentazione del ‘dentro’”[7]. Uno degli aspetti che rendono (e renderanno ancora a lungo) il pensiero di Latour così fertile è che non ha mai mancato d’indicare una rotta per navigare tra le questioni sollevate da quello che ha denominato “Nuovo regime climatico”. Trilogie terrestre ne è un ottimo esempio, frutto maturo di una dozzina d’anni di riflessioni che hanno convinto Latour, con la complicità della regista Frédérique Aït-Touati, a mettere in scena o a performare il suo pensiero. Gaia si fa personaggio principale sulla scena del teatro come sulla scena del mondo.
Per uscire dall’impasse del globo e “visualizzare le cose dall’interno e non dallo spazio”[8], Latour fa appello a scienziati e artisti affinché costituiscano un altro punto di vista, un’altra scenografia terrestre, un’altra mitografia e cosmologia. A tal fine riprende, ed espande, la nozione scientifica di zone critique: “non siamo su un pianeta, ma nella zona critica – in una pellicola vivente, un biofilm, una superficie molto più sottile, simile a una pelle”[9]. Viviamo all’interno di tale epidermide, che coincide con l’attività dei viventi e non ha nulla a che vedere col globo; “una forma che rappresenta le tracce visibili sulla superficie della Terra (segni, cicatrici, rilievi leggeri, buchi, pori), e non uno spazio isotropo come quello che usiamo oggi per raffigurare lo spazio terrestre con Google Earth”[10]. In questo modo possiamo aspirare a essere dei viventi – dei Terriens, degli Earthlings o Earthbound people, insomma dei Terreni direbbe Latour – che costituiscono la zona critica e non, secondo la vecchia visione dualista, degli Umani le cui forme sociali si affermano in opposizione alla Natura.
Entrare nel fuori: non ci sfuggiranno le differenze sostanziali tra Næss e Latour, tra l’ecologia profonda e la zona critica. L’esperienza proposta da Næss sembra andare da sé e resta virtualmente accessibile a chiunque – in Norvegia come in India, oggi come ai tempi dei poemi epici indiani – abbia una predisposizione d’animo, una capacità d’ascolto, una volontà di disfarsi del pensiero dualista diffuso nella cultura occidentale. Quella proposta da Latour è invece meno garantita, proiettata e affidata all’avvenire per quanto indifferibile: dobbiamo apprendere ad abitare il mondo altrimenti, per questo abbiamo bisogno di forgiare nuovi strumenti critici ed operativi. È chiaro che, tra i due pensatori, si è insidiato quel “regime di storicità” (François Hartog) che prende il nome di Antropocene.
Tuttavia, al di là delle differenze, il friluftsliv al cuore dell’ecologia profonda e l’invito a vivere nella zona critica dell’ultimo Latour presuppongono entrambi l’idea di un entrare nel fuori, di un esterno che si fa rifugio o spazio abitabile, hortus mai conclusus. Sviluppare assieme le loro riflessioni ci aiuta a ripensare la casa al di là dei suoi confini, a comprendere cosa vuol dire oggi abitare, cosa è – e cosa fa – habitat. Ma non solo, se è vero che l’Antropocene segna anche la fine dell’esteriorità. Al riguardo, Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro prendono come esempio Melancholia (2011) di Lars von Trier. L’impatto tra la Terra e Melancholia, sconosciuto quanto minaccioso pianeta blu, segna anche la collisione tra ordine antropologico e ordine cosmologico. Ha un effetto simile all’apocalisse nucleare di Günther Anders: “non resta nessuno, non c’è nessuna voce fuori campo per commentare la fine del mondo – il tempo reale scompare al punto da non poter immaginare nemmeno in che tempo verbale si possa narrare l’inenarrabile, se non in un ‘presente’ muto (non resta nessuno, non c’è nessuna voce)”[11]. There’s no way out of here. Che i refugia siano rifugi consapevoli della fine del Fuori?

[1] Alan Drengson, Communication Ecology of Arne Næss (1912-2009), in “The Trumpeter”, 26, 2, 2010, pp. 79-100, cit. p. 82 et p. 84.
[2] George Sessions, Arne Næss and the Union of Theory and Practice, in “The Trumpeter”, 9, 2, 1992.
[3] Frédérique Aït-Touati, Bruno Latour, Trilogie terrestre, Montreuil, Éditions B42, 2022, p. 17.
[4] Id., p. 17.
[5] Id., p. 23.
[6] Id., p. 37.
[7] Id., p. 43.
[8] Id., p. 29.
[9] Id., p. 33.
[10] Id., p. 37.
[11] Déborah Danowski, Eduardo Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggi sulle paure della fine, tr. it. Alessandro Lucera, Alessandro Palmieri, Milano, Nottetempo, 2017
In copertina: James Turrell, Light art installation, Shops at Crystals, Las Vegas, 2013