Rilettura, opera estendibile e nuovo senso

27/03/2023

Se uno spettatore mi dice:
“Il film che ho visto non è granché”,
io gli rispondo che è colpa sua,
perché cos’ha fatto lui per migliorare i dialoghi?

Jean-Luc Godard

Una persona mortale cosa fa per migliorare i dialoghi dell’esistenza che vede scorrere davanti a sé? Cerca di agire creativamente, per contrastare la presenza ingombrante della noia o per altri fini?

L’opera estendibile comincia ad aprirsi e muovere i suoi significati quando è dinamizzata da fruitori sensibili o emancipati, che la rimettono in azione riattivandola. Si tratta di andare oltre l’emittenza – intesa non più come protagonista autoreferenziale, ma come figura che agisce a favore della cultura e a scapito del culto dell’autrice / autore [1] – e i ricettori passivi, dunque, per innescare un rapporto interattivo e partecipativo, dove partecipare significa completare o estendere lo schema proposto dai trasmettitori. Intendo, però, un’opera che non sia prigioniera totalmente del “paradigma ermeneutico”. E i riceventi non devono solo “riempire gli spazi bianchi e scegliere tra i significati possibili”, perché “l’ambiente tecno-culturale emergente sviluppa nuovi tipi di arte che ignorano la separazione tra trasmissione e ricezione, composizione e interpretazione”[2]. Lo sguardo fluttuante che è richiesto ora è un esercizio di deviazione, al centro di un’immensa zona-immagine, dove innumerevoli informazioni cambiano in continuazione. In queste continue metamorfosi come possiamo relazionarci dentro il flusso divenente? Come possiamo abitare le narrative che ci precedono? Le immagini devono essere vissute, possedute, riattivate in nuovi insiemi, poiché piccoli cambiamenti potrebbero creare grandi movimenti? Nell’ultimo decennio del XX secolo molti artisti montarono e rimontarono immagini dell’universo visivo, per produrre uno spazio-tempo alternativo e nuovi modi per comprendere la realtà, sia decontestualizzando i significati sia riattivando prodotti “attivi”. La postproduzione cercò di inventare nuovi protocolli di rappresentazione di tutte le strutture formali già esistenti: “Bisogna apprendere tutti i codici culturali, tutte le forme della vita quotidiana, le opere del patrimonio universale, e cercare di farle funzionare. Imparare a servirsi delle forme, così come ci invitano a fare gli artisti, significa innanzitutto sapere come abitarle e farle proprie”[3].

Pier Paolo Pasolini, Uccellacci uccellini, 1966

Quando Pierre Huyghe rilegge e riproduce a suo modo Uccellacci uccellini di Pasolini, la sua video-opera intende negoziare i punti di vista nella riproposizione di scenari e nel riutilizzo del mondo. Come spettatore, Huyghe giudica il film di Pasolini in funzione dei rapporti che l’opera ha prodotto all’interno del suo specifico contesto, mette in evidenza le relazioni che ha colto nel film, produce rapporti con il mondo, relazionandosi con lo spazio e il tempo. Tra cinema e arte è in corso da tempo un rapporto di postproduzione in continuo divenire. Che rapporto si attua invece ora tra poesia e cinema? C’è un travaso di immagini, un download di riferimenti evocativi, uno spazio narrativo aperto fra il campo semantico della poesia e quello del portato filmico? Nell’epoca della postproduzione anni Novanta l’arte era considerata un contro-potere, dove nessuna immagine era ritenuta intoccabile e dove nessun segno doveva rimanere inerte. Gli artisti si appropriavano di opere altrui e le riscrivevano, ritenendosi responsabili delle forme e della loro funzione sociale, per mettere in moto un “consumo civico”. Anche i poeti attuali riattivano le forme e i versi della tradizione, abitandoli, reinterpretandoli, citandoli, rinnovandoli? Ora che il flusso delle immagini e delle parole scorre inesorabile nell’iconosfera e nell’infosfera, con miliardi di figure e slogan che ogni giorno inondano la Rete, come si rapporta un poeta con tutto questo processo in continua metamorfosi? Guardando attentamente ciò che sta accadendo nel mondo globalizzato, sembra di cogliere che sia in atto una ulteriore riscrittura della modernità – non ripartendo da zero, ma entro un’opera di invenzione e di rimontaggio continuo – tra esperienza diretta della vita quotidiana e una selezione di dati scaricabili da memorie portatili, da smartphone o da computer. Vi sono vite “informate” da altre vite, opere “informate” da altre opere, inserimenti di frammenti altrui nella propria memoria o ricerca, per contribuire allo sradicamento della distinzione fra creazione e copia, readymade e opera originale, tra produzione e consumo. Ma ha senso che anche questo ricada o si riversi nella scrittura della poesia? Inoltre, le attuali creazioni riprogrammano le opere esistenti della poesia scritta come accade tra la video-arte e il cinema? La poesia italiana non ha mai fatto tabula rasa dei versi del passato, e ora, ancor di più, cerca il modo per inserirsi nei flussi della produzione contemporanea.

Tacita Dean, Disappearance at Sea, 1996 ©Tate

La questione artistica di questo momento storico, erede di questioni già presenti negli anni Settanta, ragiona su cosa fare con il vastissimo patrimonio che abbiamo avuto in eredità dalla tradizione, come produrre significato a cominciare dalla massa caotica di tutto ciò che costituisce il quotidiano:  “Le cose e i pensieri crescono o s’ingrandiscono dal centro, è lì che bisogna essere, dove tutto questo succede. […] Tutti i contenuti vanno bene, a condizione che non forniscano un’interpretazione del libro, ma riguardino l’uso e che lo moltiplichino, che creino un altro linguaggio all’interno del suo linguaggio” (Gilles Deleuze). Che cosa si può aggiungere rispetto a tutto ciò che è già stato espresso ad alti livelli nel corso di vari millenni?  In un mondo in crisi, ancora assillato da numerosi conflitti bellici in corso e da sempre crescenti problemi causati dall’inquinamento, oberato da merci invendute e dal sovraffollamento di cose non indispensabili, pare che la risposta sia relegata alla programmazione delle forme e alla ricombinazione di cose già disponibili, utilizzandone le informazioni. Il rimontaggio è veicolato alla produzione di nuovo senso, tra attualizzazione di modelli già utilizzati e capacità di cogliere lo spirito del tempo.

Ancor più che negli anni Sessanta e Settanta, i poeti e gli artisti crescono ancora in un universo di prodotti in vendita, di significati già emessi, di opere preesistenti (tra arte, cinema, televisione e letteratura), oltre gli innumerevoli magazzini riempiti di mezzi da utilizzare, da manipolare. Non cercano il significato, ma ne cercano l’uso? Lavorano sul senso etico delle cose, ragionando se sia giusto continuare a mettere sul mercato merci perlopiù superflue e cose in sovrappiù?

Il riuso di opere già realizzate, la rilettura e la reinterpretazione attuali sono ancora sinonimo di scambio interumano, che genera relazioni tra opere e fruitori, tra poesia e lettori di poesia, tra merce e compratori, tra bisogno e utilizzo, mettendo in moto la complessa macchina dell’arte combinatoria: “Ogni elemento, non importa la provenienza, può servire a creare nuove combinazioni. […] Tutto può servire. Non c’è bisogno di dire che si può non soltanto correggere un’opera o integrare frammenti diversi di vecchie opere in una nuova; si può anche alterare il senso di questi frammenti e modificare a piacimento ciò che gli imbecilli si ostinano a definire citazioni” (Guy Debord, Mode d’emploi du détournement, 1956). Il più grande desiderio di Borges era quello di pubblicare un libro costituito solamente da brani altrui, un “libro dei libri”, strutturato da frammenti montati secondo una linea logica e secondo un nuovo senso dato dall’autore. Il termine “semionauta” designa colui che produce percorsi originali tra i segni o tra i versi, colui che inserisce forme su linee già esistenti.

L’utilizzo in modo creativo e con nuovo senso di una citazione crea uno scarto artistico, come fosse un uso politico del readymade duchampiano o di elementi artistici preesistenti per una nuova unità, per avvicinare l’arte separata – ovvero quella creata da produttori specializzati – a quella desiderata e attesa dai fruitori, un avvicinamento come tra attori e spettatori dell’esistenza.

Eija-Liisa Ahtila, The House, 2002, 3-channel projected installation, 14’

Nel complesso rapporto produzione/consumo, i poeti possono tener conto che i consumatori di versi non siano solo un elemento passivo, ma compartecipi attraverso una produzione silenziosa e clandestina dell’opera aperta? Servirsi di alcuni versi, di un’opera d’arte o di un film significa tradirne il concetto, operare uno scarto, fare qualcos’altro con gli elementi a disposizione? Tutti gli artisti sono affittuari della cultura e del mondo, e ogni opera d’arte può essere abitata in affitto? La persona che reinterpreta è qualificata ad agire con cognizione di causa nella riappropriazione culturale, è autrice di una definizione attuale, che va a sostituire temporaneamente l’oggetto che ha scelto di appropriarsi? La transazione tra un linguaggio e un altro produce una relazione. Tra opera e opera postprodotta avviene una transazione, come un incontro riuscito tra storie, affinità e tensioni, per dare forma ai processi meno visibili dell’esistenza, cercando di restituire il mondo come esperienza da vivere. Ed è proprio con questa visione che si possono inquadrare i lavori di Tacita Dean, dove il suo “cinema altro” cerca di riflettere il modo in cui agiscono la percezione e la memoria, prova a inserire dei modelli spaziali dentro la dimensione temporale o a “installare il tempo nello spazio[4]”. Tacita Dean, Eija-Liisa Athila, Stan Douglas, Doug Aitken e Pierre Huyghe rendono visibile tutto ciò che è stato là (nel cinema) da lungo tempo, estraggono dalle fessure dei film altri punti di vista e altre relazioni, portano in superficie profonde ferite tenute nascoste.

La coscienza – non è una borsa di concetti presenti che dovrebbero compensare ciò che è assente (Husserl) – ha possibilità anche di saltare verso un’altra zona temporale, ad esempio nel passato e nel già prodotto, a cercare immagini che attivano qualcosa nel presente. La soggettività, intesa come una struttura labirintica di flussi tenuti uno dentro l’altro, abita simultaneamente differenti zone temporali: “Noi viviamo in tempi diversi. La soggettività in sé non può essere vista in nessun luogo. Questo in perfetto accordo con la nozione fenomenologica di un flusso di coscienza del tempo che appare a se stesso solo indirettamente e mai in modo chiaro. Il flusso, che è assoluta soggettività, secondo Husserl, non può mai essere afferrato attraverso il riflesso oggettivante, poiché nel momento in cui il flusso è oggettivato per mezzo di azioni riflessive è già sparito. Sembra che il più profondo livello di temporalità appaia solo indirettamente mediante forme varie di spazializzazione. Può mai un’opera d’arte visualizzare una struttura così complessa?”[5].

Vedere da un inedito punto di vista prevede un atto di estremo coraggio o la necessità di fuggire da qualcosa. Prevede anche il rischio di dare corpo ad appropriazioni indebite.

Andrej Tarkovskij, Andrej Rublëv, 1966: Boriska, il fonditore della campana

Il pioniere[6], che nelle immagini iniziali di Andrej Rublev si innalza nel cielo con una mongolfiera rudimentale, dona visioni – qui paradigma autentico della visione poetica – agli spettatori (intesi come postproduttori di senso) seduti al cinema, immagini colte a volo d’uccello[7], sguardi a perdita d’occhio. Tarkovskij dipana la sequenza filmica per mezzo di una frizione geniale: il volo raccoglie visioni estatiche, ma intanto una musica drammatica preannuncia una fine sacrificale. Anche la trepidante scena in cui il giovane fonditore Boriska attende il responso della campana – se non suonasse, il principe farebbe tagliare la testa a lui e a tutti i suoi collaboratori – è un capolavoro assoluto: la smorfia della tensione espressa sul viso, l’esito che prevede il mettersi in gioco completamente, nel totale rischio di perdere la vita, rendono più di inutili parole il senso su cui voglio chiudere le mie riflessioni. Utilizzo le due immagini di Andrej Rublev con la poetica di una rinnovata postproduzione, per affidare al lettore la costruzione di un nuovo senso, all’insegna dell’opera sempre più estendibile. Ora non basta più interpretare il mondo, bisogna trasformarlo, attraverso opere o critiche del reale da parte dello stesso reale, perché non si trasforma nulla dall’esterno, ma bisogna prima abitare la forma che si desidera comprendere o criticare. E che i lettori, allora, abitino la forma e la estendano con audacia secondo le proprie possibilità immaginative.


[1] Paul Valery era convinto che si potesse mettere in atto “una storia della mente che produce e consuma letteratura senza neanche enunciare il nome di uno scrittore”.

[2] Pierre Lévy, L’intelligence collective. Pour une antropologie du cyber-espace, Paris, 1997.

[3] Nicolas Bourriaud, Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo, 2004, p.14.

[4] I modi di installare il tempo sono legati a cicli di rotazione e di circolarità (collegando il movimento rotatorio e il tempo), per mettere in movimento immagini nel passaggio temporale. Opere di Tacita Dean che mostrano questa ricerca sono Disappearance at Sea (1996) e Fernsehturm (2000).

[5] Daniel Birnbaum, Cronologia, Milano, 2007, p. 49.

[6] “Come le è venuta l’idea di cominciare il suo film con la sequenza dell’uomo che vola?” Per noi era il simbolo dell’audacia nel senso che la creazione esige da un uomo il dono integrale del suo essere. Che voglia volare prima che la cosa sia diventata possibile o fondere una campana senza aver imparato a farlo o dipingere un’icona – tutti questi atti esigono che come premio l’uomo muoia, si dissolva nella sua opera, si dia tutto intero. È questo il senso del prologo, l’uomo ha volato e per questo ha fatto sacrificio della propria vita (dall’intervista concessa da A. Tarkovskij a Michel Ciment, Luda e Jean Schnitzer, Il dramma, n.1, 1970).

[7] Inedite per gli inizi del 1400,  quando vive Andrej Rublev. 

In copertina: Andrej Tarkovskij, Andrej Rublëv, 1966 (scena iniziale)

Mauro Zanchi

è critico d’arte, curatore e saggista. Dirige il museo temporaneo BACO (Base Arte Contemporanea Odierna), a Bergamo, dal 2011. Suoi saggi e testi critici sono apparsi in varie pubblicazioni edite, tra le altre, da Giunti, Silvana Editoriale, Electa, Mousse, CURA, Skinnerboox, Moretti & Vitali e Corriere della Sera. Scrive per Art e Dossier, Doppiozero e Atpdiary.

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