È da poco disponibile in libreria un libro di Alessandro Giammei, Professore di letteratura italiana all’Università di Yale, intitolato Cose da maschi (Einaudi). Chi si imbattesse nel capitolo intitolato Canottiera, scoprirebbe che in apertura viene tirato in ballo un quadro di Théodore Géricault, Ufficiale della guardia imperiale a cavallo, alla carica. Perché? Perché, insieme al Napoleone che attraversa le Alpi di David, rappresenterebbe per lo scrittore (o, se vogliamo, colui che scrive) il tipico quadro francese dell’Ottocento che viene «sempre fuori quando uno parla di carisma maschile, di solenne virilità da battaglia». È possibile che l’affermazione risulti volutamente paradossale? Di certo, colui che scrive deve essere in vena di battute, dal momento che si diverte a sfottere opera e artista: «A me però, col culone del cavallo e le più modeste terga del cavaliere illuminati da una luce caravaggesca – e persino echeggianti, formalmente, dalla curva della spada (ma che fa? taglia la coda al destriero? Va in retromarcia per parcheggiarlo?) – quel bellicoso Géricault fa sempre l’effetto che mi fanno anche le foto propagandistiche di Vladimir Putin a cavallo, un genere particolarissimo della ritrattistica postmoderna maschile esplorato analogamente da Kim Jong-un (ma anche da Zac Efron e Justin Bieber)». E via con allusioni a Mussolini, Boiardo e i cavalieri dello zodiaco. Non è che il cavalleresco non lo aggradi, tiene a segnalare l’autore, però, insomma, quest’io che scrive non sopporta «Quel baffuto francese col cappellone da scemo» dipinto da Géricault. Fermiamoci qui. Fine citazione. Quanto basta per chiudere il libro e riporlo nella pila in libreria.

Cosa fa Giammei? Snocciola con nonchalance cultura alta e bassa fingendo olimpica modestia. A Bologna diremmo: fa lo sborone. Casca male. Scrive un libro basato – citiamo – su «Un inventario di simboli, orpelli, strumenti che definiscono (o destabilizzano) la differenza tra maschile e femminile», ma, nella sua foga citazionista, che vorrebbe apparire assai ironica, annulla le differenze tra un dipinto e una foto. L’Ufficiale di Géricault e Putin a cavallo: se non è zuppa è pan bagnato. È molto probabile che abbia scelto l’esempio sbagliato.

Una serie di oggetti, un catalogo di cose maschili, costella il libro, dato che: «Per capire cosa siano l’identità di genere, il patriarcato, persino il femminismo oggi (e soprattutto, per capire cosa saranno domani) bisogna infatti interrogare la maschilità invece di darla per scontata». Sia. Eppure, è assai probabile che sia l’autore ad aver dato per scontato Géricault e il suo dipinto. Per questo, ci permettiamo una piccola annotazione alla seconda potenza: un commento al commento. Quanto al “destabilizzare” (termine che piace a Giammei), ora ci arriviamo.
Il primo titolo del quadro di Géricault, esposto al “Salon” nel 1812 (Géricault nel corso della sua breve esistenza esporrà ai “Salons” solo quattro tele, di cui una andata perduta), è: Portrait équestre de M. D*** (La D. sta per Dieudonné). Pur ricevendo moltissimi elogi e un successo importante, il quadro restò invenduto (Charles Clément, biografo di Géricault, ricorda: «Ottenne pure una medaglia d’oro, e Vivant Denon, direttore del museo, si complimentò con lui, ma il dipinto non venne acquistato. Ne fu amareggiato e scoraggiato; specificando che la colpa dell’insuccesso era dovuta all’opuscolo che indicava l’opera come un ritratto»).
Clément si era basato sui ricordi di Antoine Alphonse Montfort, un altro pittore, amico di Géricault: «(…) L’Ufficiale non trovò compratori, e forse la colpa fu di Monsieur Géricault. Stando a lui, la colpa si celava nell’opuscolo: annunciando il quadro come un ritratto, si aveva senza dubbio allontanato il pubblico dall’acquisirlo».
La colpa era di Géricault? Cosa intendeva Montfort? Henri Zerner, che ha scritto un magnifico libro sull’artista, sottolinea che non siamo neppure sicuri che il titolo l’abbia fornito lui. E com’è possibile che un titolo possa impedire una vendita? «Qual è quel “pubblico” – si chiede ancora Zerner – disposto a comprare una tela di più di tre metri di altezza il cui unico soggetto era un cavaliere nel fuoco del combattimento?». Passano due anni e il dipinto viene di nuovo esposto; stavolta insieme al Corazziere ferito. Il titolo però è cambiato: Un Ussaro alla carica. Solo una volta giunto nella collezione del duca di Orléans prenderà il titolo che possiede ancora oggi: Ufficiale della guardia imperiale a cavallo, alla carica.
Questo quadro, che ha cambiato tre volte titolo, è un “ritratto”? La risposta che si dà Zerner è: sì e no. Più o meno. Anzi, più e meno. Il suo punto di partenza è certamente il ritratto equestre (lo giustifica il grande formato della tela, senza dover però scomodare la “pittura storica”). Nello schizzo preparatorio che si trova al Louvre, il cavallo è esattamente parallelo al piano del dipinto: cioè nella posizione che il genere richiedeva. Il risultato finale, invece, si discosta a sufficienza dal modello usuale, a tal punto da far emergere una specie di incertezza (non è dunque in “fase di retromarcia”, come scrive Giammei: piuttosto, modificandone la posizione, Géricault sta facendo scivolare il genere di riferimento). Quanto ai lineamenti di Monsieur D***, sono rassomiglianti al modello (fa fede uno studio preparatorio depositato al museo di Bayonne). Ciò avvicina il dipinto al tipo del “ritratto”. Nondimeno, il nostro Dieudonné è un ufficiale subalterno – non è Napoleone e neppure Putin, o una figura di spicco come poteva esserlo Marat per David. Vogliamo dire: è un semplice sconosciuto. E, a causa del grado che lo rappresenta, non è davvero un soggetto che si presti a un ritratto così solenne. In poche parole: «Questo soldato fuori rango, che aveva fatto tutte le campagne fin dalla Rivoluzione e che del resto morì poco dopo, non avrebbe avuto né i mezzi né le ragioni per richiedere un grande ritratto equestre, anche perché, con imbarazzo, non avrebbe saputo dove appendere quella tela di nove metri quadrati». Questa osservazione serve a Zerner per introdurre un ulteriore chiarimento (il corsivo è nostro): «Senza essere di fatto un un ritratto equestre, L’Ufficiale non appartiene ad alcuna categoria stabilita in pittura. Géricault vi ha unito la soggettività del ritratto, l’anonimato e la spontaneità di una scena di genere, e il formato imponente del ritratto equestre d’apparato, che ha le dimensione della “pittura storica”. (…) Géricault adotta le convenzioni della pittura solo per sconvolgerle, distendendole fino al punto di rottura. Bisognava che ne pagasse le conseguenze».
Non male per «Quel baffuto francese col cappellone da scemo». E pure per quel cavallo col “culone” in retromarcia (bisognerebbe parlare delle teste di cavallo dipinte da Géricault… ma non divaghiamo). Questo esempio di quadro francese dell’Ottocento che viene sempre fuori «quando uno parla di carisma maschile, di solenne virilità da battaglia» ha in verità modificato (o destabilizzato) i generi della pittura, spostandoli verso terreni figurativi fino ad allora inesplorati, a tal punto da rendere il dipinto incompreso e invendibile, come se a dipingerlo fosse stato un alieno.
Torniamo perciò al titolo. E diamo ancora la parola a Henri Zerner: «Forse Montfort intendeva questo quando aveva dichiarato che la colpa fosse del pittore. Come ritratto equestre di uno sconosciuto, il dipinto era invendibile. Il nuovo titolo, “Un Ussaro alla carica”, scelto o meno da Géricault, rendeva la tela una scena di genere ma in un formato “storico”, rendendola di nuovo invendibile».
«Come tanti altri artisti del secolo, Géricault – scrivono in coppia Charles Rosen e Henri Zerner – può fregiarsi di essere all’origine della tradizione moderna; nella sua ricerca di un modo d’espressione personale, egli minerà in effetti le gerarchie dei generi, sconvolgerà le norme e le convenzioni pittoriche».

All’Ussaro di Géricault, Giammei preferisce «il rifacimento pittorico che ne ha tratto Kehinde Wiley nel 2007, sostituendogli un rilassato ma spavaldo ragazzo nero, il quale, a differenza di lui, guarda in alto, ed è più diffusamente illuminato – sebbene possa ben permettersi, lui sì, di essere dipinto da dietro». È il ragazzo nero a indossare la canottiera. Ma è la destabilizzazione del genere operata da Géricault, il suo spostamento (anche attraverso i titoli), quella zampa posteriore sinistra sproporzionata, che consente di mettere in mostra il “culone del cavallo” e le “modeste terga” dell’Ussaro.
Questa volontà destabilizzante è un aspetto del “romanticismo” di Géricault; di cui tutto si può dire, tranne che fosse “bellicoso”. Piuttosto, aveva un temperamento esplosivo: era un sovversivo.