È uscito presso l’editore Morlacchi il volume Prospettiva Pasolini, a cura di Simone Casini, Carlo Pulsoni, Roberto Rettori e Francesca Tuscano, che riproduce gli interventi al ciclo di incontri omonimo, tenutosi alla Biblioteca Augusta e alla Biblioteca San Matteo degli Armeni fra il 5 marzo e il 30 giugno dell’anno scorso. Per la cortesia dei curatori, dell’autore e dell’editore proponiamo il contributo di Tommaso Mozzati.
“L’abbraccio con tutto il dolore di chi ha avuto Longhi come padre di elezione”. Con queste parole Pier Paolo Pasolini si dava a consolare il lutto di Anna Banti alla scomparsa del marito con un messaggio sollecito, datato 7 giugno 1970; un’occorrenza, spesso sfuggita alla letteratura, che arricchisce il lungo elenco di ricordi dedicati allo storico dell’arte, rintracciabili nell’oeuvre del poeta bolognese, dalle lettere ai contributi giornalistici, per arrivare alle sceneggiature di film con l’epigrafe anteposta al copione di Mamma Roma nel 1962: “A Roberto Longhi, cui sono debitore della mia fulgurazione figurativa”.
Il messaggio indirizzato alla scrittrice aggiunge infatti una qualità tutta emotiva al ritratto dell’intellettuale che Pasolini era andato costruendosi in anni di affratellamenti partigiani e di colloqui a distanza, seguiti al periodo in cui – ancora ventenne – aveva frequentato uno dei corsi tenuti dal professore alla Facoltà di Lettere di Bologna nei semestri di poco seguenti all’entrata in guerra dell’Italia. Le lezioni cui Pasolini prestò, da studente, una curiosità ricettiva furono quelle dell’anno accademico 1941-1942 consacrate ai “fatti di Masolino e di Masaccio”, tema di grande rilievo per le vicende della pittura europea secondo l’efficace scandaglio longhiano; ed è noto quanto un’esperienza siffatta poté pesare sulla maturazione del giovane universitario, presentandosi nelle forme di un’epifania, a tutti gli effetti, di più profonde, intime vocazioni.
Nel continuo tornare a quel periodo, il profilo del docente si sarebbe pertanto caricato, nella memoria dello scrittore, del ruolo indiscutibile, proverbiale di “maestro” (così Longhi è raccontato in un dattiloscritto autografo, edito nel 1997 per cura di Hervé Joubert-Laurencin), tramutandosi da semplice insegnante in figura esemplare, in un modello di umanità libera e anticonformista. Solo nelle parole di conforto spedite alla Banti – e certo sulla scia emozionale legata alla perdita recente – Longhi viene però pianto “sub specie patris”. La svolta non è di poco conto, poiché cementa l’impressione di una fedeltà affettuosa, imperitura all’autorevolezza del professore d’un tempo, come se il dialogo intrattenuto da Pasolini con quell’immagine avesse continuato a nutrirsi della riverenza devota che aveva caratterizzato i primi scambi, sin dalla richiesta di tesi avanzata nell’estate ’42. D’altronde già Renzo Renzi suggeriva quanto, per la biografia e per l’ispirazione dello scrittore, la vita universitaria bolognese potesse identificarsi con il riconoscimento di una ‘patria’, contrapposta alla ‘matria’ rappresentata invece da Casarsa, dai suoi fiumi e dai suoi campi: rispetto a un’esegesi tanto evocativa, formulata da un coetaneo (iscritto similmente al curriculum di Lettere e di poco in anticipo sul corso di studi), il telegramma di condoglianze costituisce allora verifica di non poco conto, da inquadrarsi – quasi in forma ricapitolativa – al termine ultimo di un rapporto.
Una simile interlocuzione disegna, in sostanza, la dedizione dell’allievo “ad aeternum”, secondo una formula che consuona con un’altra menzione di Longhi desumibile dal corpus pasoliniano, non meno sottovalutata del messaggio spedito alla Banti, quella cioè inclusa nell’articolo La pittura dialettale, apparso su “La Fiera letteraria” il 6 giugno 1954 (il corsivo è di chi scrive).
La coincidenza – ed è naturale – continua a verificarsi nel Novecento: in cui si dà un numero assai notevole di pittori, anche non cattivi, che operano ai margini della pittura centrale Milano-Firenze-Roma: appunto, nella ‘regione’; […] a prender atto di un dato (dei cui prodotti estetici, in un giudizio di valore, si può dubitare: e noi, allievi di Longhi, siamo tra quelli che ne dubitano), che costituisce uno dei momenti oggettivamente e quantitativamente più importanti della nostra cultura.
È dunque sotto una luce siffatta – così calorosa e, a un tempo, difficile da dirigere sull’icona oracolare adattata al poeta da certa agiografia recente – che è d’obbligo leggere un contributo, meno conciso, consacrato da Pasolini al magistero longhiano, rimasto analogamente escluso dagli approfondimenti rivolti a un tema tanto articolato, foriero di conseguenze sintomatiche (se non addirittura determinanti) per la produzione dello scrittore. Alludiamo cioè all’omaggio inserito in prefazione al catalogo della personale di Anna Salvatore, tenutasi a Roma nel maggio del ’57 presso la Galleria Il Pincio [fig. 1]: una breve nota che, nel citare lo storico dell’arte, rinvia alla materia di un suo lavoro programmatico, ritenuto manifesto condiviso, vademecum metodologico inarrivabile.

La postilla, così come appare composta da Pasolini per accompagnare i versi dal titolo Domenica all’Acqua Acetosa (lo stesso di un quadro di grande formato della pittrice), recita:
Cara Anna, ti mando una poesia invece che una nota critica. Mi è riuscita meglio. Occorre che te ne spieghi le ragioni? Certo, così ho dovuto escludere dal discorso molte cose: per esempio il tuo raccontare caravaggesco dentro una luce stilizzata di procedenza cezanniana, ecc. Ma ricordati quello che diceva Longhi a proposito della critica, richiamando la famosa citazione dantesca, come esempio di perfetta comprensione e definizione razionale di un oggetto artistico. Quanto poi a Domenica all’Acqua Acetosa è vero che mi sembra il quadro tuo più bello; ma è chiaro che parlando di esso ho voluto parlare di tutti gli altri tuoi quadri che vi sono compendiati.
Il riferimento è, secondo ogni evidenza, alle Proposte per una critica d’arte, nate nel 1949 in vista di un incontro al Pen Club veneziano e poi ospitate, in forma scritta e – per così dire – definitiva, nel primo numero della rivista “Paragone”, uscito l’anno seguente: si tratta di un saggio di grande impegno intellettuale nel quale Longhi, valutando in un’ottica storica i risultati più ficcanti in ambito di letteratura d’arte, si peritava di associare alla storiografia specialistica le prove di poeti d’eccezione, dall’Alighieri a Valéry, passando per Baudelaire.
Il brano richiamato è senz’altro questo:
Qui la prima, e come alta, ‘equivalenza verbale’ di un’opera d’arte; […] Di queste stupende trasposizioni fu pieno il Medioevo e basterà citarne un esempio anche più decisivo […]. Sui primi del Trecento un uomo che guarda certi fogli di un libro di diritto, miniati da un pittor bolognese del tempo, si avvede che quelle carte ridono. Dante, perché si tratta di lui, fonda con quella frase, e proprio nel cuore del suo poema, la nostra critica d’arte.
Già in altra sede abbiamo sottolineato quanto un simile clin d’oeil – nel sottolineare prevedibili affezioni di lettore – serva in primis a chiarire una démarche cara alla scrittura pasoliniana, quella cioè che lo ha spinto a confrontarsi (in un arco temporale dilatato) con testi pittorici differenti, traducendo poeticamente l’esperienza estetica da questi di volta in volta suscitata; elaborando cioè ‘in rima’, secondo metri diversi, il discorso critico gemmato da opere e da parabole creative eterogenee, come ad esempio in Quadri friulani o Picasso (entrambi capitoli de Le ceneri di Gramsci, raccolta messa insieme per l’appunto nel ’57).
Tuttavia un altro dato riveste qualche importanza rispetto alla produzione di Pasolini. Nell’elogiare il linguaggio della Salvatore – figura, in quegli anni, vicina alla vulgata guttusiana, seppure in una declinazione assai personale, e al centro di una fama consolidata grazie alla vittoria nel ’56 di un premio per la grafica alla Biennale – lo scrittore unisce due ben note passioni del maestro, quelle per la stilizzata aneddotica caravaggesca e per il nitore costruttivo di Cézanne. Oltre a un tanto conciso résumé di preferenze, è però l’idea stessa di riagganciare, in un’unica tradizione, il contemporaneo all’epoca moderna che risponde a ben precise sollecitazioni longhiane: Pasolini in persona, nell’aula di via Zamboni, doveva avere ascoltato il professore riepilogare un’intera vicenda figurativa, dal Trecento al Novecento, inanellando, sullo sfondo della pianura padana, le esperienze di Vitale e quelle dei Carracci, per arrivare all’eremitaggio di Morandi in via Fondazza.
Lo storico dell’arte, nell’immediato dopoguerra, aveva d’altronde giocato un ruolo di primissimo piano nel dibattito sull’attualità artistica continentale, in particolare grazie al coinvolgimento nella Commissione delle arti figurative e nel Comitato internazionale di esperti in senso alla Biennale a partire dal 1948 (e fin dentro agli anni Cinquanta). Proprio un’esperienza tanto prestigiosa, in rapporto con una fra le occasioni espositive più rispettate sullo scenario europeo, aveva anzi ristretto i legami di Longhi con la Salvatore, inauguratosi qualche anno prima secondo dinamiche singolari.
I due avevano infatti avuto modo di familiarizzare sul set dei documentari – il Caravaggio e il Carpaccio – cui il professore aveva messo mano, a guerra ormai conclusa, in collaborazione con Umberto Barbaro, dedicandosi all’impresa fra il 1947 e l’anno seguente. Nella troupe esigua impegnata nella loro lavorazione la Salvatore poté rivestire un ruolo di qualche rilievo, se i titoli di testa del corto veneziano la menzionano come “aiuto-regista” (del resto era collega di Barbaro presso il Centro sperimentale di cinematografia).
Il rapporto, secondo quanto testimoniato da alcune lettere inedite dell’artista, sarebbe poi continuato nel decennio seguente, con una regolarità legata soprattutto alle visite romane di Longhi. Il critico la menziona comunque fra i disegnatori di pregio esposti in laguna nel 1954 in un articolo di commento alla kermesse apparso sull’ “Europeo” nell’agosto di quell’anno. Lo stile della Salvatore, nel suo giudizio, andava accostato alle prove della scuola di Portonaccio: il pezzo, in questo senso, l’avvicina a personalità strettamente integrate in quell’ambiente, in primis a Renzo Vespignani.
Anche la predilezione dimostrata da Pasolini (non sono in fondo numerose le occasioni in cui lo scrittore si prestò a prefare mostre di pittura) potrebbe allora identificarsi come un tic longhiano, tanto più che la pittrice aveva goduto, sin dagli esordi, del sostegno di Anna Banti, prescelta, assieme a Guttuso, per introdurne la prima esposizione di dipinti, tenutasi al Pincio nel ’52.
Tuttavia non si deve neppure dimenticare quanto, attorno al catalogo dell’artista, fossero andati coagulandosi consensi disparati, coerentemente prossimi alla fazione più vicina ai linguaggi del realismo postbellico. Così, Carlo Levi aveva elogiato l’opera della collega per un’ennesima esposizione romana organizzata nel 1954, mentre Alberto Moravia si sarebbe reso disponibile a sponsorizzarne la trasferta londinese, quella favorita nel 1955 da una mostra alla Trafford Gallery. La Salvatore avrebbe pure fornito la copertina per il breve romanzo moraviano La disubbidienza, uscito nello stesso anno da Bompiani [fig. 2].

Se un simile network promozionale giustifica, ben al di là del placet longhiano, la decisione di Pasolini di offrire la propria firma al servizio della causa, è tuttavia nella costruzione di un dialogo più articolato che potrebbe riverberare la lezione del comune maestro.
Non è stato infatti sin qui sottolineato quanto i rapporti fra i due – il romanziere scandaloso e la pittrice socialite – fosse andato consolidandosi nella seconda metà degli anni Cinquanta; e tale trascuratezza va certo in buona parte attribuita alla distrazione critica che – dopo un debutto folgorante – è toccata in sorte alla Salvatore, in anticipo perfino sulla sua scomparsa (verificatasi, improvvisa, nel 1978). Attesta di contatti frequenti e familiari una serie cospicua di scatti, inediti o consegnati a riviste e rotocalchi: ad esempio, il dittico fotografico che cattura la coppia all’uscita da un dancing di periferia, realizzata da Licio D’Aloisio nel settembre 1959, immagini in cui un Pasolini divertito fiancheggia l’amica, intenta a disegnare, di fronte ai balli improvvisati sulla pista [fig. 3].

Alla luce di questi rapporti – nutritisi pure di una certa vicinanza della Salvatore col clan felliniano, comprovata da una presenza in veste d’attrice nella Dolce vita – meglio si legge l’inclusione del suo nome nel gruppo chiamato a eseguire i manifesti pubblicitari per la prima prova registica di Pasolini, e cioè per Accattone, secondo un’audace strategia promozionale del produttore Alfredo Bini. Assieme a Levi, a Mino Maccari e a Corrado Cagli, l’artista avrebbe offerto un’immagine di grande forza espressiva, associando il volto disperato di una sua tipica ragazza scapigliata ai tratti somatici, inconfondibili, di Franco Citti; coppia che adatta insomma all’universo iconografico del poeta un tema caro all’ispirazione della pittrice, quello cioè degli amanti proiettati in paesaggi di suburra [fig. 4].
Non è un caso, al proposito, che già nel 1955, Moravia avesse fornito il testo per il commento sonoro di un documentario a colori incentrato proprio sulle opere della Salvatore, prodotto dalla A.P.I. col titolo eloquente di Amore in periferia. E non meno significativo risulta che perfino una premessa dello scrittore, utilizzata nel ’56 per un’esposizione alla galleria milanese del Naviglio (e poi riproposta, assieme a quella di Pasolini, nel catalogo del ’57), si focalizzasse sui soggetti erotici caratteristici di molti suoi dipinti:
Con femminile intuito ella ha saputo perlustrare il suburbio romano, così diverso, tanto più moderno e casuale di quello, per esempio, di un Utrillo, ha saputo scovare i prati rognosi, i terreni vaghi, i campi circondati di case in cui la domenica, le giovani operaie amano distendersi coi loro fidanzati, per discorrere del loro avvenire, oppure dormire insieme, oppure contemplare attonite gli orizzonti cittadini gremiti di fabbricati proletari.
Lo stesso componimento in versi scritto da Pasolini nell’aprile del ’57, il già citato Domenica all’Acqua Acetosa, si sofferma su una delle prove più monumentali e complesse dedicate dalla Salvatore a questa stessa iconografia; e nel segnalarne il dualismo uomo/donna, ne traduce così la tessitura compositiva:
Che vita è entrata in voi
a mutare le vostre povere vite
di svegli giovincelli eroi
e di ragazze assopite?
C’era un modo diverso di capirvi
se, maschi, vi scoprite
senza pudore, tranquilli
dal ciuffo al cavallo dei calzoni,
e, femmine, ristampate i sigilli
sulle gote baciate, sulle chiome
scomposte, tornando alla pace
del vostro mistero senza nome?
Se dunque il dialogo fra il poeta e la pittrice si sostanzia dell’attenzione condivisa da un comune milieu di riferimento (al proposito è opportuno ricordare il matrimonio della Salvatore con Pasquale Festa Campanile, allora nella redazione de “La Fiera letteraria”), è un’altra linea che – in rapporto serrato con quanto fin qui detto – riconduce ancora una volta alla matrice longhiana gli scambi d’ispirazione intercorsi fra la coppia di amici.
Negli anni appena precedenti al momento in cui Pasolini avrebbe riconosciuto allo storico dell’arte il merito della propria “fulgurazione figurativa”, pubblicamente interpellandolo per dissipare i dubbi sui presunti prestiti mantegneschi di Mamma Roma, è assai significativo che lo scrittore potesse richiamare il catalogo della pittrice in rapporto a un altro, diverso film di cui aveva fornito la sceneggiatura, e cioè La giornata balorda.
La pellicola, prodotta da Paul Graetz per l’Euro International Films e per la Transcontinental Films, venne scritta dal romanziere all’inizio del 1960, a partire da un soggetto di Moravia (a sua volta desunto da alcuni sketchs dei Racconti romani e dei Nuovi racconti romani). Travagliato da una tormentosa vicenda produttiva e distributiva, il lungometraggio arrivò in sala solo nella tarda primavera del ’61 (dopo un’uscita nell’autunno precedente, bloccata da una serie di azioni giudiziarie): accolto con freddezza, si sarebbe costituito come l’ultima collaborazione del duo Pasolini-Bolognini antecedente all’approdo dello scrittore dietro la macchina da presa.
La sceneggiatura originale fu sottoposta a una serie interminabile di tagli e censure (tradottasi in un totale di tre versioni successive): il dattiloscritto della stesura di partenza – conservato presso l’Archivio centrale dello Stato a Roma – ci consegna però un passaggio, inserito fra le indicazioni di regia che risulta significativo per il nostro discorso, nel segnalarsi come un unicum per gli esordi della scrittura cinematografica pasoliniana.
All’inizio della scena in cui il protagonista del film, il borgataro Davide, si apparta su un prato con Freja – l’amante tedesca dell’altolocato trafficchino, responsabile delle sofisticazioni alimentari attorno a cui ruota il plot – il copione consiglia, esplicitamente, di girare la sequenza come “in un quadro di Anna Salvatore, sull’erba secca e tiepida”.
Nessuna istruzione analoga è contenuta nelle altre sceneggiature pasoliniane consegnate a Bolognini a partire dalla metà degli anni Cinquanta (spesso in collaborazione con professionisti diversi), da Marisa la civetta a Giovani mariti, da La notte brava a Il Bell’Antonio; ma pure gli script delle sue prime prove autonome per il grande schermo – il rimando è, ovviamente, ad Accattone e a Mamma Roma – non si servono di formule altrettanto evocative, per così dire ecfrastiche, intese per legare inquadrature a ben precise fonti iconografiche.
La menzione riservata alla Salvatore, in rapporto a una tipologia figurativa che – come abbiamo avuto modo di dimostrare – ne sintetizzava l’ispirazione in modo proverbiale, offre allora un’eccezione, facile tuttavia da connettere alla di poco precedente prefazione scritta per l’amica.
Considerato anche il dibattito specialistico degli anni Cinquanta, l’idea che un’immagine in celluloide potesse duplicare la forza compositiva di un dipinto, s’accoda infatti con agio al principio di “equivalenza verbale” considerato da Longhi fra le forme basilari di critica, un indispensabile strumento ermeneutico utile al poeta tanto quanto alla letteratura artistica. Se dunque, alla luce di un simile assioma, Pasolini aveva potuto “interpretare” le opere della pittrice ricorrendo a catene d’endecasillabi e ottonari, non doveva apparirgli meno viabile un percorso che spostasse il ‘paragone’ all’interno dell’obiettivo cinematografico (grazie a uno slittamento di fatto minimale dell’armamentario interpretativo alluso nelle Proposte del ’50).
Il cortocircuito era del resto incoraggiato dallo stesso catalogo della Salvatore, nutritosi abbondantemente di stilemi e tic cari alle pellicole neorealiste, sia in termini di ambienti che in fatto di ‘inquadrature’ (si pensi, fra l’altro, ai close-up vertiginosi sui suoi protagonisti). Il passaggio a un nuovo meticciato di pittura e grande schermo – quello che segna la prima, esplicita citazione figurativa nel cinema dello scrittore, pure affidata all’occhio complice di Bolognini – è tuttavia difficile da intendersi al di fuori d’un orizzonte longhiano. Più che un’immagine calligrafica, il suggerimento inserito nello script de La giornata balorda favorisce infatti un arricchimento vicendevole fra registri linguistici disparati, all’interno di un quadro d’ispirazione sintonico e di un sofisticato gioco di rispecchiamenti. Siamo insomma confrontati con la medesima, stratificata operazione che Pasolini avrebbe condotto attraverso le sue riuscite da regista nel dialogo costante con i Maestri Antichi, da Piero della Francesca a Caravaggio, da Accattone, a La ricotta, dal Vangelo secondo Matteo al Decameron.

L’attenzione rivolta alla Salvatore invita semmai ad ampliare il canone di riferimenti fin qui costituito dalla bibliografia critica, a partire dagli studi seminali di Francesco Galluzzi (Pasolini e la pittura) e Alberto Marchesini (Citazioni pittoriche nel cinema di Pasolini), editi entrambi del 1994. Ancora una volta in ottica longhiana, lo sguardo coltivato del poeta – pittore in proprio, è bene non dimenticarlo – sembra cioè indirizzare la camera, sin dagli esordi nell’industria cinematografica, tanto sul contemporaneo, quanto sul moderno (il masaccismo scabro dei primi film, il loro chiaroscuro risentito…), intendendo cucire, di fotogramma in fotogramma, una storia coerente della figurazione, quella legata alle istanze del realismo. Il ricorso diretto a opere di Renato Guttuso o Ben Shan – altri capisaldi della scuderia riunita sulle pagine di “Paragone” – in un prodotto successivo come La ricotta (si potrebbe citare però anche il Bacon di Teorema, spingendosi dal 1963 fino al ’68), si affianca pertanto a un colloquio articolato con l’attualità pittorica, accolta dal cinema di Pasolini attraverso una solida idea di “tradizione”, insieme sorretta da preferenze “di scuola” e dal saldo incardinamento del fatto artistico a principi storicisti nutriti d’ideologia.

La nota a margine, contenuta nella sceneggiatura del 1959, rende infine incontrovertibile l’individuazione di veri e propri prestiti dall’oeuvre della pittrice nelle pellicole girate da Pasolini come regista. Si è infatti già avuto modo di sottolineare (prima ancora che tale occorrenza venisse individuata) quanto le sequenze ‘sentimentali’ contenute in Mamma Roma – quelle in cui Ettore si ritrova innamorato di Bruna, conosciuta sui pratoni affianco alla casa popolare comprata dalla madre – risentissero, oltre che del modello testuale offerto dal Romeo e Giulietta shakespeariano, dei celebri Amori in periferia dipinti dall’artista, sia nell’iconografia della ragazza di borgata (lunghi capelli neri, pattern grafici sui vestiti), sia nelle pose dei personaggi, sia nella più generale natura delle scene, chiuse in un idillio urbanizzato di pace e squallore [figg. 5-6].

Tuttavia, in accordo con quanto dichiarato dal copione de La giornata balorda, non sembrerà neppure eccessivo l’aver rapportato il finale icastico di quel lungometraggio a un altro dipinto dell’artista, una Crocifissione datata al 1958 e quindi precedente alla stessa concezione dello script da affidare ad Anna Magnani [figg. 7-8]: se la morte di Ettore, garante proprio Longhi, andava riconnessa al tenebrismo materico del Merisi più disperato, anche i quadri della Salvatore si immergevano nella stessa luminosità densa, un “raccontare caravaggesco dentro una luce stilizzata di procedenza cezanniana”.
