L’articolo di Karen Pinkus che pubblichiamo di seguito è estratto dal volume collettivo pubblicato da Mimesis per i Quaderni della ricerca dell’Università Iuav di Venezia, Pensiero in immagine. Forme, metodi, oggetti teorici per un Italian Visual Thought, a cura di Angela Mengoni e Francesco Zucconi, che qui ringraziamo assieme all’autrice.
L’Italian Thought, per quanto eterogeneo, può dirsi caratterizzato da un profondo intreccio tra lingua e legge, o lex. Per fare un esempio, Roberto Esposito ha intrapreso una serie di indagini etimologiche per definire un termine chiave come communitas[i]. Certo, non si tratta qui di una feticizzazione delle origini, ma di concepire tali indagini come punto di partenza per arrivare a relazioni concrete e potenzialmente radicali. Non si tratta neppure di giocare con le parole o di permettere il gioco dei significanti, ma di fondare l’argomentazione sulle loro radici (latine e greche).
Ciò significa che il “visuale” occupa uno statuto ancillare o secondario nel pensiero italiano? Dobbiamo forse considerare il “visuale” come separato dalle molte “immagini” dell’Italia che contribuiscono a sostenere il turismo globale e il consumo di beni “Made in Italy” come fattori significativi dell’economia? Che cosa succede al pensiero (italiano) quando lo abbigliamo nella cultura visuale (italiana)? Mantiene un po’ del suo potere, quantomeno in forma mascherata? Questo saggio fa provvisoriamente appello all’arte povera, la più “filosofica” tra le sperimentazioni artistiche italiane, profondamente intrecciata con l’alchimia. Così come il “pensiero italiano”, anche l’arte povera è stata (o è, per coloro che si rifiutano di confinarla al decennio 1962-1972) un movimento fluido, composto dai creatori e critici che si sono più o meno identificati con tale etichetta, mantenendo affiliazioni e impegni diversi, con sentimenti contrastanti rispetto all’idea di far parte di un “pacchetto esportabile”[ii]. L’arte povera potrebbe essere considerata come la prima forma di arte concettuale: impegnativa dal punto di vista intellettuale, anti-pittorica, anti-conformista e, in un certo senso, anti-capitalista. Che cosa potrebbe offrire dunque l’arte povera a una riflessione sull’Italian Thought o su una qualsiasi delle sue preoccupazioni primarie (le forme di vita o, meglio, la vita stessa, il controllo biopolitico, gli stati di emergenza, la potenza, l’inoperosità e così via)?
Nella misura in cui l’Italian Thought si definisce in qualche modo in relazione alla French Theory, dobbiamo notare che quest’ultima ha apparentemente fatto benissimo a meno del “visuale”, almeno secondo Martin Jay. Nel libro intitolato Downcast Eyes. The Denigration of Vision in French Culture (inedito in italiano) ha tracciato una storia francese del visuale (che si interseca in vari punti con le opere d’arte), dall’antichità fino all’“apice” della prima età moderna, seguita dalla “crisi” e dall’ostilità al “primato visuale” in una serie di pensatori tra cui Althusser, Barthes, Bataille, Breton, Debord (non a caso), Derrida, Foucault, Irigaray, Lacan, Lévinas, Lyotard, Merleau-Ponty, Metz e Sartre. Se la Francia e i francesi si sono ovviamente “interessati” alla sfera visuale, Jay individua una “dimensione oculofobica” nel pensiero francese. Tali affermazioni assertive esulano dagli obiettivi di questo saggio e della sua autrice.
Tuttavia, se dovessimo pensare alle origini e alle traiettorie del contesto italiano, potremmo tornare all’“apice” – cioè alla pittura italiana dell’Alto Rinascimento –, quando si invocava l’ut pictura poesis oraziano per legittimare la visibilia; quando l’Idea platonica o l’istoria albertiana elevavano una data immagine al di sopra della sua mera forma o materia (con il “maschile” e il “femminile” a volte esplicitamente applicati alla prima e alla seconda di queste categorie negli scritti critici); quando i critici e gli artisti sostenevano il paragone che collocava la pittura al di sopra della scultura e poi, secoli dopo, quando un certo tipo di storici dell’arte, armati di formazione umanistica, effettuavano letture iconografiche per esaltare l’artista-pensatore rispetto all’artigiano [iii].
Ricordiamo quindi la distinzione disciplinare tra leggere l’arte italiana (narrativa) e sentire l’arte del Nord Europa (descrittiva)[iv]. In breve, nella tradizione italiana la poesia e la filosofia mantengono un posto privilegiato rispetto ai gesti, ai corpi, ai paesaggi o alle superfici. “La parola governava l’immagine visiva”, come osserva un critico a proposito della ricezione degli epigrammi antichi in Italia nella prima età moderna; e “Vitruvio era importante quanto le rovine romane visibili e tangibili”[v].
A questa matrice si aggiungono gli scritti della Controriforma contro i pericoli delle immagini in relazione alla pura dottrina, penetrati nel vocabolario e nella sintassi della scrittura o del pensiero artistico, anche in modo indiretto. Infine, si noti la femminilizzazione della storia dell’arte e dell’arte nei programmi universitari fino ai giorni nostri. Tutti questi fattori potrebbero indurci a considerare il “visuale” come debole, se non denigrato, rispetto al “pensiero”, con tutta la generalità che tali termini comportano.
Essendosi sviluppata di pari passo con la filosofia, l’arte povera è stata influenzata principalmente dall’estetica esperienziale dell’americano John Dewey e dalla fenomenologia francese, filtrata dall’influente Opera aperta di Umberto Eco del 1962[vi]. Come ci si può aspettare, il linguaggio della critica che si sviluppa parallelamente al movimento è piuttosto vago. Per esempio, Germano Celant, il “padre/Papa” dell’arte povera, inizia un saggio del 1969 con una proclamazione deweyana:
Animali, vegetali e minerali sono insorti nel mondo dell’arte. L’artista si sente attratto dalle loro possibilità fisiche, chimiche e biologiche, e riinizia a sentire il volgersi delle cose del mondo, non solo come essere animato, ma come produttore di fatti magici e meraviglianti.[vii]
Continua poi invocando la figura di un “artista-alchimista” che distilli essenze e lavori “alla scoperta del nocciolo delle cose, per ritrovarle ed esaltarle”[viii]. E precisa:
Il suo lavoro non mira però a servirsi dei più semplici materiali ed elementi naturali (rame, zinco, terra, acqua, fiumi, piombo, neve, fuoco, erba, aria, pietra, elettricità, uranio, cielo, peso, gravità, calore, crescita, ecc.) per una descrizione o rappresentazione della natura; quello che lo interessa è invece la scoperta, la presentazione, l’insurrezione del valore magico e meravigliante degli elementi naturali. Come un organismo a struttura semplice, l’artista si confonde con l’ambiente, si mimetizza con esso, allarga la sua soglia di percezione; apre un rapporto nuovo con il mondo delle cose[ix].
Le parole di Celant suggeriscono una figura eroica (maschile) che lotta con i materiali nel processo di realizzazione del proprio lavoro. A dire il vero, negli scritti di storia e critica dell’arte troviamo spesso l’alchimia (ab)usata o ridotta a qualcosa di simile a una “trasformazione magica”. Ad esempio, l’alchimia compare nei resoconti sulla pittura del Nord Europa. Lo storico Simon Schama osserva che
Usando un pennello di pelo di scoiattolo a setole morbide e a punta sottile, il tipo di pennello preferito dai miniaturisti del XVII secolo, Rembrandt ha preso un insieme di materiali terrestri (quello del costruttore) e lo ha tradotto in un altro (quello del pittore). Sembra un’alchimia”.[x]
Oppure, al contrario, Tzvetan Todorov, in un saggio sulla pittura olandese, eleva il potere trasformativo dell’artista al di sopra della rozza maestria dell’alchimista come mero souffleur:
Quando Steen e Ter Borch, De Hooch e Vermeer, Rembrandt e Hals ci aiutano a scoprire la bellezza delle cose nelle cose, non si comportano affatto come alchimisti intenti a trasformare in oro non importa quale porzione di fango. Questi artisti hanno compreso, tuttavia, che una donna che attraversa il cortile o una madre che spella una patata possono essere belle quanto le divinità dell’Olimpo.[xi]
Gli esempi di questo tipo potrebbero essere molti. L’analogia alchemica è abitualmente evocata anche nel modernismo, da Duchamp a Pollock, da Delaunay a Matta-Clark. Tuttavia, anche gli artisti e i critici che lavorano contro la pittura attingono termini e stati d’animo dall’alchimia. Anche la fotografia – la trasformazione di un materiale semiprezioso, collocato in un bagno nocivo, in un’immagine nobile – è stata descritta in termini di Grande Opera, per non parlare dell’oro del cinema hollywoodiano.

Alla fine degli anni Sessanta, Maurizio Calvesi ha contribuito all’organizzazione di una mostra alla Galleria Attico di Roma, dall’emblematico titolo (alchemico) Fuoco Immagine Acqua Terra[xii]. Jannis Kounellis realizzò una fiamma a gas che si sprigiona da un fiore. Pino Pascali montò dei blocchi di terra sulle pareti. Piero Gilardi espose alcuni dei suoi “tappeti naturali”, tappetini rettangolari che rappresentano frutti caduti, in realtà fatti di poliuretano. Michelangelo Pistoletto contribuì con una delle sue costruzioni di specchi.
Calvesi aveva certamente compreso la corrispondenza tra i quattro elementi e le quattro fasi progressive della trasformazione alchemica. Tuttavia, come ha specificato altrove, trovò l’ispirazione principale per questa mostra nella polimatericità di Giacomo Balla. Firmatario, insieme a Fortunato Depero, della Ricostruzione futurista dell’universo del 1915 – il manifesto che più esplicitamente esplora il potenziale di commercializzazione dell’identità del marchio futurista –, Balla lavorava con cartone, carta velina, filo di ferro, specchi e altri materiali poi riciclati dall’arte povera. Lo faceva – questa la mia impressione – non per dissuadere i potenziali acquirenti, ma per aumentare il potenziale di movimento della singola opera d’arte. I “materiali poveri” erano un mezzo per prendere le distanze dalla superficie statica e piatta della tela che non era riuscita a riprodurre il volume dinamico della velocità. Era la loro capacità di trasparenza – essere illuminati dall’interno con lampadine, essere trasformabili e forse anche rumorosi – a rendere attraenti per Balla materiali come la carta velina, piuttosto che, ad esempio, il loro potenziale di smaterializzazione o di cambiamento nel tempo. Dopo aver scolpito Linee di forza del pugno di Boccioni in cartone, nello stesso anno del manifesto appena citato, Balla fuse la stessa identica forma in bronzo. Forse sentiva di poterlo fare proprio avendo già stabilito il dinamismo dell’opera nella sua precedente incarnazione. La “ricostruzione futurista” è rivoluzionaria per la sua insistenza retorica sul suono, forse la più smaterializzata di tutte le forme d’arte, come elemento chiave della scultura e dell’architettura.
Se la materialità futurista è la principale preoccupazione di Calvesi per la mostra all’Attico, il suo impegno con l’alchimia permane sotto altri aspetti. Alcuni anni dopo tale mostra, pubblicò un saggio intitolato A Noir (Melancolia I) (1969) e poi, nel 1975, un lungo libro, Duchamp l’invisibile. Entrambe le opere sostengono un’idea di alchimia come pratica analoga al fare arte. Calvesi polemizza con Erwin Panofsky e altri autori sull’interpretazione dell’incisione di Dürer, Melancolia I. In breve, Calvesi sostiene che il numero romano I indichi la prima fase di una scala ascendente: “L’uomo stesso diventa l’oggetto dell’opus della trasformazione”[xiii]. Se l’alchimia è sia il processo artistico che la realizzazione spirituale, l’io rappresenta solo uno stadio da superare, una necessaria dissoluzione a cui deve seguire la reintegrazione della forma, un’unificazione olistica e irenica.
Ma l’arte povera, soprattutto nella sua versione più materialista, quella di Gilberto Zorio, va oltre il mero tematismo e la mera metafora, per impegnarsi profondamente con l’alchimia, intesa non come qualcosa di univoco ma come una protochimica, come un insieme di miscele farmaceutiche o come un rinnovamento puramente filosofico/spirituale. Quando le si permette di andare oltre il suo senso quotidiano, l’alchimia si riafferma come una modalità profonda di pensare l’ambivalente relazione tra teoria e pratica. È qualcosa di cruciale anche per la questione del valore dell’opera, al centro dell’arte povera nelle sue prime fasi.
Per sviluppare questa intuizione, è necessario aprire una riflessione sull’ambivalenza[xiv]. Il termine valenza – la cui ambivalenza non è una semplice variante ma un concetto decisamente nuovo e distinto – deriva dalla chimica e dalla fisica atomica. La valenza può riferirsi a un estratto o a una tintura, solitamente di un’erba. In questa connotazione, ha evidenti legami con il campo dell’“alchimia medica” o iatrochimica, ma anche con la pittura. A metà dell’Ottocento, la teoria della valenza iniziò a essere utilizzata per indicare il numero di legami che un dato atomo può formare con altri atomi; si tratta di un registro che collega la valenza al materialismo filosofico, alla materia e all’epicureismo. Nel recente lavoro scientifico, la valenza si riferisce specificamente al numero di elettroni nel guscio più esterno degli atomi. La valenza non è provvisoria o occasionale nella sua relazione con l’atomo. La valenza è atomicità. Definisce un dato elemento chimico, non tanto nella sua essenza quanto nella sua capacità di combinarsi con altri elementi, è il suo potenziale.
Come nella parola “ambidestro”, il prefisso “ambi” potrebbe implicare un elemento la cui capacità combinatoria è equivalente non al numero due, ma piuttosto a “entrambi”, riferito a qualcosa in una classe di due e solo due elementi possibili. “Entrambi di cosa?”, potremmo chiedere, poiché “entrambi” richiede un referente, un predicato o un oggetto genitivo, e non può stare in piedi da solo. È possibile immaginare uno scenario nel campo della chimica in cui un elemento è posto accanto a, o ha la capacità di combinarsi con “entrambi” gli elementi in un determinato campo e, solo, con “entrambi” gli elementi. Si potrebbe quindi sostenere che il prefisso “ambi” preclude di fatto la possibilità di molteplicità o differenze oltre il due.
Quando cerchiamo questa parola in un dizionario generale, il registro fisico-chimico caratteristico della “valenza” scompare. Non troviamo una definizione in cui esistono due cariche (o “entrambe”) che circondano un atomo. Quindi, mentre la “valenza” è necessariamente o originariamente univalente – in quanto significa forza prima di qualsiasi nozione di equivalenza o contingenza – dobbiamo tenere presente che l’ambivalenza non è semplicemente la versione raddoppiata o bipolare della valenza. Si riferisce invece all’affetto, alla fluttuazione generale o al caos.
In ambito linguistico, l’aggiunta del prefisso ambi- non sembra quindi aumentare la produzione di valenza. Concretamente, l’ambivalenza non raddoppia la forza di (una data) valenza. Al contrario, laddove la valenza rappresenta una potenzialità, una volta espansa con un prefisso, l’ambi-valenza appare piuttosto degradata o, meglio, abrasa, per richiamare un termine della chimica, a significare qualcosa come indecisione o ambiguità (parola che viene spesso scambiata con ambivalenza).

L’ambivalenza, quindi, ci permette di decostruire l’idea di alchimia come pura redenzione spirituale e realizzazione di sé attraverso una coniunctio oppositorum. A questo punto potremmo fare una breve considerazione su Julius Evola. Pittore dadaista, spiritualista, nonché filosofo di estrema destra, autore della prefazione all’edizione italiana dei Protocolli dei Savi di Sion, Evola riteneva che l’alchimia fosse l’ars regia, non solo sacerdotale o sentimentale, ma anche metafisica:
Se dunque, in questo speciale settore, si può aver effettivamente perseguito – e anche realizzato – lo scopo della produzione dell’oro metallico, non si trattava né di un fenomeno sensazionale, né di una acquisizione scientifica. Si trattava invece della produzione di un “segno”. È ciò che il cattolicesimo chiamerebbe propriamente un miracolo, in opposizione al semplice fenomeno […] La produzione dell’oro metallico era cioè una testimonianza trasfigurante data da un potere: testimonianza, dell’avere realizzato in sé l’Oro[xv].
Ma, col tempo, continua Evola, l’alchimia si è deteriorata nell’avidità, in una ricerca puramente materiale dell’oro, senza alcuna dimensione spirituale: “bisogna dunque formare delle ‘sostanze medie’ o ‘androgine’, ‘spirituali e corporali’ (percezione della sostanza e percezione della sua ‘psichicità’, l’una in funzione dell’altra”[xvi]). L’alchimia ha costituito un punto centrale per questa figura, perennemente equivoco, e di numerose opere ristampate da editori spiritualisti fino ai giorni nostri. Non si tratta certo di individuare un’alchimia “fascista” per assistere a un rovesciamento redentivo da sinistra. Evola è un pensatore complesso per il quale l’alchimia è tanto un ripiegamento negativo dal materialismo moderno quanto una tradizione spirituale positiva, elitaria. Tuttavia, egli esemplifica una concezione dell’alchimia che, ai nostri fini, possiamo definire univoca:
L’alchimia fornisce a Evola un tesoro di segni segreti e una fonte di ispirazione dottrinale per quello che in seguito definirà “idealismo magico”. Come l’alchimia du verbe di Rimbaud, rappresenta un metodo compositivo che si concentra sul valore evocativo, cioè irrazionale e non oggettivo, delle parole, dei suoni e delle forme a scapito delle loro proprietà semantiche o mimetiche convenzionali.[xvii]
In una serie di opere pittoriche che Jeffrey Schnapp ha definito, non senza un certo spirito, “Bad Dada”, Evola ha dipinto arcani e simboli alchemici come appliques sulle sue composizioni geometriche e tendenzialmente monoplanari. I colori caratterizzanti fanno parte della gamma del verde, del nero, del cinabro, del bianco e del giallo, che evocano i cicli alchemici di nigredo, albedo, citrinitas, rubedo e gli agenti a essi associati: azoto, sale, zolfo e mercurio. Nel suo Paesaggio interiore, illuminazione (1918-1920, esposto a Milano a metà degli anni Sessanta), Evola dipinse le lettere Hg, simbolo del Mercurio, uno degli elementi più importanti della tradizione alchemica. In realtà, abbiamo qui una sorta di pura rappresentazione dell’alchimia come segno linguistico.
A differenza di Evola, e in modi diversi, gli artisti poveristi hanno prodotto opere che non sono apologeticamente e temporaneamente “androgine”, ma smaccatamente corporee. Come molti artisti della loro generazione, i poveristi ebbero la tendenza a credere di essere estranei ai loro prodotti, come lo sono i lavoratori di qualsiasi “sistema”, per usare una parola spesso ripetuta da Celant. Come scrive Thierry De Duve in un saggio su Joseph Beuys: “si suppone che l’artista attinga al pozzo della sua forza lavoro, ma l’alchimia che la trasforma in oro per il mercante non gli lascia altro che scorie (“tempo di lavoro coagulato”, direbbe Marx)”[xviii]. L’alchimia serve qui come metafora della trasformazione della forza lavoro dell’artista (il materiale di base, il piombo, forse anche la merda: si pensi ai barattoli di Merda d’artista di Piero Manzoni) nel prodotto nobile, il capitale realizzato dal mercato dell’arte[xix]. L’alchimia, quindi, è un elemento profondamente strutturante e impregnato nel capitale stesso, così come l’oro, il prodotto dell’alchimia, non è una semplice figura che sta per qualsiasi cosa abbia un valore.
Celant, Eugenio Battisti, Maurizio Calvesi e altri critici italiani attivi nell’ambito dell’arte povera si sono occupati di alchimia con diversi gradi di specificità storica e iconografica. Battisti, ad esempio, è stato uno dei fondatori della rivista Marcatré, nata nel 1963, che ha contribuito a promuovere gli artisti associati al movimento. Ha scritto numerose monografie, tra cui L’antirinascimento (1962), dove l’alchimia occupa un posto di rilievo come contro-tradizione all’estetica rinascimentale e classicista.
Come molti suoi contemporanei, Gilberto Zorio ha lavorato con materiali come piombo, mercurio, neon, oro e reagenti. Zorio era molto preso dai significati dell’alchimia nei titoli e nei materiali a stampa che circondava il suo lavoro. Ha riciclato forme del laboratorio alchemico della prima età moderna come gli alambicchi, il vaso trasparente e le miscele di sostanze nobili che cambiano nel tempo. Ha fatto riferimento a processi come la distillazione, la sublimazione, la dissoluzione, la solidificazione, l’evaporazione, l’ossidazione dei metalli e la fusione, solo per citarne alcuni.
Diversi modernisti si sono alleati con l’alchimia, ma non necessariamente realizzando la relazione ambivalente tra processo (spirituale) e prodotto (materiale), intrinseca al loro lavoro. Che cosa significherebbe etichettare un modernista come autentico alchimista? André Breton e Michel Butor possono essere definiti alchimisti, dal momento che avevano una profonda conoscenza delle tradizioni e le incorporavano in opere di finzione come Arcano 17 e Ritratto dell’artista come una giovane scimmia? Oppure dovremmo dimostrare che si sono effettivamente cimentati in esperimenti? In che senso la tela di Jackson Pollock del 1947, intitolata appunto Alchemy, dovrebbe essere letta come un’accumulazione di strati storico-mitici, oltre che di strati di pittura[xx]?
Tali questioni sono molto spinose. In molti si sono espressi a favore oppure contro l’idea di un Duchamp alchimista. Di certo, già nel 1911, Duchamp faceva riferimento alla storia o all’iconografia della tradizione alchemica[xxi]. Egli ha negato di aver tentato la Grande Opera, ma può veramente essere preso in parola? E questa stessa negazione, cioè la sua stessa parola, non è forse una prova della presenza ossessiva dell’alchimia? In una discussione con un giovane artista, fu chiesto a Duchamp se il suo approccio potesse essere definito alchemico. Egli rispose:
Si può. È una comprensione alchemica. Ma non fermiamoci qui! Se lo facciamo, qualcuno penserà che sto cercando di trasformare il piombo in oro all’interno di una cucina. L’alchimia è un tipo di filosofia, un tipo di pensiero che porta a una forma di conoscenza. Possiamo anche chiamare questa prospettiva ‘tantrica’ (come direbbe Brancusi), o (come ti piace dire) “perenne”.[xxii]
Non è quindi una questione di pratica. In questa fase, per Duchamp l’alchimia coincideva con il puro pensiero o inclinazione. Ciò implica che l’arte moderna, soprattutto nelle sue forme più concettuali o smaterializzate, è riuscita in qualche modo a trascendere l’ambigua pratica a lungo associata al basso lavoro dei souffleurs?
L’evocazione dell’alchimia da parte di Zorio trascende l’idea di auto-redenzione. Le sue opere si liberano nel mondo come prodotti autoprodotti. I vasi in pirex coinvolgono lo spettatore in una dialettica tra pesantezza e leggerezza, trasparenza e liquidità del vetro, e dunque l’alcool che, prima o poi, evaporerà. Per Zorio, il vetro, sebbene possa apparire puro, era in definitiva soltanto silice, materia bruta. La sua trasparenza permette di vedere ciò che sta dentro e, visto che i piani sono aperti, anche gli odori fuoriescono. In alcune opere, ha utilizzato il solfato di rame, di colore blu turchese. Con il tempo, il reagente chimico evapora, lasciando cristalli o sedimenti. Zorio era fortemente interessato all’evaporazione perché l’alcool, evaporando, si diffonde nello spazio intorno al crogiolo, trasformandolo. Ma il processo può essere notato solo in un lasso di tempo lungo: settimane, mesi, anni, ben al di là della portata di una distratta visita in galleria.

Un’osservazione simile potrebbe essere fatta per un’opera di Zorio del 1967, intitolata Tenda, ora al Castello di Rivoli. Nel corso del tempo, i depositi di sale si accumulano sulla tela di un ombrellone che l’artista ha collocato sulla spiaggia. A ogni esposizione, i cristalli di sale crescono o diventano più incrostati. Naturalmente, uno spettatore occasionale vede l’opera solo una volta e non può quindi fare esperienza della trasformazione, ma potremmo dire che i cambiamenti nella materialità di una scultura avvengono sempre: anche quando l’opera è in deposito tra una mostra e l’altra e secondo ritmi che non sono così rilevabili o evidenti come l’accumulo di cristalli di sale. Come il primo alchimista moderno, le opere di Zorio accelerano i cambiamenti della materialità e li rendono espliciti come rappresentazione. I materiali non raggiungono mai una forma stabile in cui “muoiono” (pietrificati nel mercato dell’arte), ma continuano a cambiare dopo che l’artista li ha rilasciati, anche se con riluttanza, come prodotti. Tra le altre opere da prendere in considerazione, ricordiamo Rosa Blu Rosa. Il cloruro di cobalto contenuto nel tubo smezzato cambia colore a seconda dell’umidità e del numero di persone presenti nella stanza. Per la sua opera del 1968, Piombi, Zorio ha dunque riempito una vasca di piombo con solfato di rame e acido cloridrico. Una barra di rame viene immersa in ogni bacino e reagisce con gli elementi chimici in modi diversi. L’interesse di Zorio per l’alchimia è dunque continuato anche in seguito. Nel 2006, l’artista ha creato un’opera su carta intitolata E poi l’alambicco fa speranza. Inchiostro, fosforo e vernice sono mobilitati in un’immagine bidimensionale di un vaso alchemico. A prima vista, potrebbe sembrare un’opera piuttosto convenzionale che rappresenta un momento di trasformazione alchemica, come il paesaggio interiore di Evola. Tuttavia, mescolando l’elemento del fosforo, si può dire che Zorio non si limiti a rappresentare l’alchimia in due dimensioni. La sperimentazione è fondamentale: come altri movimenti artistici moderni, l’arte povera ha talvolta invocato l’alchimia in modo esplicito, ma trascendendo la semplice “rielaborazione” di temi, testi e tradizioni alchemiche per incarnarne, piuttosto, l’ambivalenza:
La terra, l’aria, la trasformazione del fuoco: non era sufficiente [per Matta-Clark] rappresentare questi elementi come segni o simboli; ognuno di essi doveva essere portato avanti corporalmente nell’opera. Né i […] confini ordinati forniti dalle gallerie più illuminate sarebbero stati lontanamente adeguati al ritmo e alla scala dell’esperimento che aveva in mente[xxiii].
Se, come altri suoi contemporanei, Zorio ha lottato costantemente contro la tendenza alla stabilità, tale lotta non può e non deve giustificare un’etichettatura dell’arte povera come antifascista o post-fascista. Rilasciando le sue opere nel mondo in modo che continuino a cambiare, Zorio ha messo in crisi l’idea dell’opera d’arte come progetto finito, con confini definiti nello spazio e nel tempo. Questo va oltre un giocoso détournement del valore. Non è chiaro se l’opera si muova verso un telos, così come viene problematizzata l’idea stessa di un’origine fissa. Zorio ci porta oltre l’idea della trasformazione dell’artista e del temperamento malinconico che potrebbe emergere da uno studio erudito delle tradizioni dell’alchimia. Ci costringe ad ammettere che l’opera non è una cosa sola ma qualcosa di ambivalente, nel senso complesso che ho cercato di evocare nella mia riflessione filologica sul termine.
Il suo lavoro ci porta al di là del supporto bidimensionale per riflettere sull’antico tropo della scultura come materiale vivente. Ad esempio, nella Vita, Benvenuto Cellini ha descritto con vanto la fusione del suo Perseo. Quando i suoi assistenti non riescono a mantenere vivo il metallo fuso, racconta,
io feci pigliare un mezzo pane di stagnio, il quale pesava in circa a 60 libbre, e lo gittai in sul migliaccio dentro alla fornacie, il quale cone gli altri aiuti e di legnie e di stuzzicare or co’ ferri e or cone stanghe, in poco spazio di tempo e’ divenne liquido. Or veduto di avere risuscitato un morto, contro al credere di tutti quegli ignioranti, e’ mi tornò tanto vigore che io non mi avvedevo se io avevo più febbre o più paura di morte[xxiv].
Cellini riflette qui sull’idea, comune nel XVI secolo, che i metalli allo stato naturale siano acquosi, non solidi. E, come credeva Aristotele, lo pneuma è presente nell’acqua, quindi tutti i liquidi hanno un’anima. I metalli, in altre parole, sono vivi. Quando Cellini versa il bronzo liquido nella statua, questa prende vita e contemporaneamente cura lo scultore dalla sua stessa malattia mortale. Rappresenta il compimento di un’impossibile trasformazione alchemica.
L’arte povera è nata da una generazione di artisti che ritenevano che nessun oggetto – per quanto opportunamente concepito, anticonvenzionale o idiosincratico – potesse evitare di diventare merce. Il mercato è una macchina mostruosa che incorpora tutto, anche la sua opposizione. Da cui l’impossibilità di immaginare una gerarchia di oggetti, dove alcuni sarebbero più commerciali di altri. Da cui l’appello alla smaterializzazione.
Nello stesso momento in cui la “smaterializzazione” è stata utilizzata per riferirsi alla sottrazione o all’auto-rimozione dell’artista dal “sistema”, in solidarietà con gli studenti e i lavoratori, molti degli artisti hanno anche utilizzato termini come “materia”, “materiali” e “materialità” in modi che erano tanto positivi quanto indispensabili. Data l’eterogeneità dei materiali utilizzati dagli artepoveristi, sarebbe stato impossibile per Celant definire il movimento unicamente in questi termini, identificanolo ad esempio nell’uso di pietre, bastoni o altri oggetti naturali. Ciò che è stato invece valorizzato è la nozione di contingenza, l’uso di materiali disponibili in forma spontanea. Insieme alla smaterializzazione, quindi, è nato un rinnovato interesse o, meglio, un’ossessione per i materiali. Materialità, per l’arte povera, può significare liberazione da vincoli eccessivi.
Come scrive Celant,
L’idea, l’evento, il fatto e l’azione visualizzati e materializzati sono infatti le focalizzazioni del rapporto di simultaneità tra idea e immagine, conducono solamente a un allargamento di esperienza circa quell’idea, quell’evento, quel fatto e quell’azione […] L’idea visualizzata e materializzata non contiene un programma […] non rappresenta, ma presenta[xxv].
Eppure, in qualche modo, per un breve periodo, Celant ha creato un’identità di gruppo tra quelli che Franceso Bonami, senza peli sulla lingua, definisce
artisti altrimenti invischiati nelle contraddizioni di una vita borghese plasmata dal boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta. […] i vitelloni del mondo dell’arte, che si sforzano senza sosta di sfuggire al provincialismo delle loro origini, ma che sono ancora attratti dagli agi della loro storica identità nazionale[xxvi].
Tutto questo, prima della diaspora degli artisti italiani a Berlino, Parigi, New York, Bruxelles, ecc. E prima delle molteplici crisi di governance, ambientali e sanitarie che hanno dato risalto al pensiero italiano nell’ultimo decennio. Le opere dell’arte povera sono oggi esposte nei musei e nelle gallerie più prestigiose, con lo scopo di suscitare una sorta di piacere estetico, e magari un mercato, in quanto opere singole, soggette a critica in quanto opere singole e, necessariamente, non generalizzabili. Forse, all’interno di tale scenario, finiscono per apparire anche meno “radicali”, rispetto al “pensiero italiano” (basato sul linguaggio). Una domanda assilla quindi questo saggio: possiamo guardare all’arte povera in modo diverso rispetto a un nostalgico escapismo?
Traduzione dall’inglese di Francesco Zucconi
[i] Si rimanda almeno a R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 2006, e Id., Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2012.
[ii] L’arte povera ha attraversato diverse fasi, dal momento “originario” alle ripetute mostre “storiche” (per non dire personali). In una delle più importanti, tenutasi nel 2021, Zero to Infinity 1962-1972, co-curata da Richard Flood del Walker Art Center di Minneapolis (sede anche della prima mostra americana dell’arte povera, negli anni Sessanta) e da Frances Morris della Tate Modern, alcuni artisti si sono detti insoddisfatti dell’inquadramento del loro lavoro in un momento circoscritto del passato.
[iii] Per Francesco Bonami, la filosofia umanista fa parte del DNA dell’artista italiano: “Per gli artisti italiani la ricerca della forma all’interno della materia è sempre stata l’impulso inconscio dietro ogni possibile produzione artistica”, cfr. F. Bonami, Now We Begin, in R. Flood, F. Morris (a cura di), Zero to Infinity: Arte Povera 1962-1972, catalogo della mostra presso Tate Modern, 31 maggio-19 agosto 2001, Londra, e Walker Art Center, 13 ottobre 2001-13 gennaio 2002, Minneapolis, Walker Art Center, Minneapolis 2001, p. 109. A dire il vero, Bonami non amplia il ragionamento né la apre alla questione del genere come parte integrante della riflessione.
[iv] Questa distinzione è stata esemplificata in S. Alpers, The Art of Describing. Dutch Art in the 17th Century, University of Chicago Press, Chicago 1983,tr. it.Arte del descrivere: scienza e pittura nel Seicento olandese, Bollati Boringhieri, Torino 1984. Naturalmente, il dualismo deriva dal saggio di Lukàcs del 1936, Narrare o descrivere, incentrato sui testi letterari piuttosto che sulla pittura.
[v] R. Colie, The Resources of Kind: Genre Theory in the Renaissance, University of California Press, Berkeley 1973, p. 3.
[vi] U. Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Bompiani, Milano 1962.
[vii] G. Celant, Arte povera, Mazzotta, Milano 1969, ora in Arte povera. Storia e storie, Electa, Milano 2011, p. 118.
[viii] Ibid.
[ix] Ibid. È interessante notare che Celant aveva studiato con Eugenio Battisti, filosofo e critico che ha scritto sull’alchimia e l’ermetismo nella prima età moderna. Nei seminari di Battisti, già nel 1963, Celant incontrò Umberto Eco, Pier Paolo Pasolini e i critici d’arte Maurizio Calvesi e Giulio Carlo Argan.
[x] S. Schama, Rembrandt’s Eyes, Knopf, New York 1999, p. 13.
[xi] T. Todorov, Eloge du quotidien: essai sur la peinture hollandaise du XVIIe siècle, Adam Biro, Paris 1993, tr. it. Elogio del quotidiano. Saggio sulla pittura olandese del Seicento, Apeiron, Roma 2000, p. 180.
[xii] Il saggio di Calvesi per il catalogo Lo spazio degli elementi è apparso nel giugno 1967.
[xiii] M. Calvesi, La melanconia di Albrecht Dürer, Einaudi, Torino 1993, p. XXVI.
[xiv] Il dizionario Treccani online offre le seguenti definizioni: “1. In senso ampio, carattere o proprietà di ciò che si presenta sotto due aspetti diversi (non necessariamente in opposizione), o con due diversi valori o funzioni, che ha duplice effetto o serve duplice scopo; 2. In psicopatologia, comportamento di chi rivolge verso una stessa persona o oggetto, contemporaneamente o alternativamente, due sentimenti o due impulsi antitetici”. La terza definizione riguarda il termine nel contesto teologico e non c’è nessun riferimento alla chimica.
[xv] J. Evola, La tradizione ermetica. Nei suoi simboli, nella sua dottrina e nella sua “Arte Regia”, Edizioni Mediterranee, Roma 1991, p. 187. Nell’estate 2022, per esempio, una mostra dedicata a Evola pittore al Mart di Rovereto ha suscitato varie polemiche. Vittorio Sgarbi, tra gli altri, ha difeso la concezione della mostra, ricordando che Evola smise di dipingere nel 1921.
[xvi] Ivi, p. 192.
[xvii] J. Schnapp, Bad Dada (Evola), in The Dada Seminars, L. Dickerman, M. S. Witkovsky (a cura di), CASVA seminar papers 1, National Gallery of Art, in association with Distributed Art Publishers, Inc., Washington 2005, p. 41.
[xviii] T. De Duve, Joseph Beuys, or Last of the Proletarians, in “October”, vol. 45 (Summer 1988), p. 57.
[xix] Nel 2019, la potente Hauser & Wirth ha dedicato all’artista due interi piani della sua galleria di Chelsea, includendo molti barattoli di feci (esposti in modo evidente anche nel “museo di destinazione”, Magazzino Italian Art, nella trendy Hudson Valley di New York). Hauser & Wirth ha scelto di classificare le opere di Manzoni attraverso categorie formaliste: “Linee” e “Materiali”. Anche in questo modo, i gesti di Manzoni hanno perso la loro forza “scandalosa” e sono ora molto ambite dai collezionisti, così come altri artisti italiani sperimentali di quella generazione. In parte questo fenomeno si spiega così: i modernisti statunitensi e britannici hanno dei prezzi inconcepibili e quindi, alcuni artisti italiani attivi negli anni Sessanta – a prescindere da forme o contenuto delle opere – sono emersi sul mercato negli ultimi dieci anni in quanto relativamente accessibili; e i collezionisti (soprattutto altri, Europei, Americani e Asiatici, dato che l’Italia non offre riduzioni sulle tasse per donazioni a musei) hanno cominciato a divorarli con maggior vigore.
[xx] Forse il titolo di Pollock è arbitrario e non può insegnarci nulla di nuovo sull’alchimia nel mondo moderno: “almeno fin dalla sua prima mostra personale, Pollock aveva spesso incoraggiato le persone a lui vicine, quelle di cui si fidava, a fare libere associazioni verbali intorno al lavoro completato. Dalle loro risposte, da parole e frasi chiave, spesso, anche se non sempre, sceglieva i titoli, tipicamente vaghi, metaforici o ‘poetici’. Considerava ogni titolo come un modo per etichettare il suo lavoro, piuttosto che come un equivalente verbale del suo soggetto”. Cfr. B. H. Friedman, Jackson Pollock: Energy Made Visible, Da Capo Press, New York 1995.
[xxi] La bibliografia su Duchamp è vastissima e si compone anche di lavori specifici che trattano il suo rapporto con l’alchimia o la smaterializzazione (cioè, Duchamp come primo artista concettuale).
[xxii] L. Henderson, Duchamp in Context: Science and Technology in the Large Glass and Related Works, Princeton University Press, Princeton 1998, p. 9.
[xxiii] T. Crow, Gordon Matta-Clark, in C. Disserens (a cura di), Gordon Matta-Clark, Phaidon, London-New York 2003, p. 31.
[xxiv] B. Cellini, Vita, BUR, Milano 2013, pp. 34-35.
[xxv] G. Celant, Arte Povera, Galleria de’ Foscherari, Bologna, 1968.
[xxvi] F. Bonami, Now We Begin, in R. Flood, F. Morris (a cura di), Zero to Infinity: Arte Povera 1962-1972, catalogo della mostra presso Tate Modern, 31 maggio-19 agosto 2001, Londra, e Walker Art Center, 13 ottobre 2001-13 gennaio 2002, Minneapolis, Walker Art Center, Minneapolis 2001, p. 111.
In copertina: particolare dell’opera di Jannis Kounellis in Fuoco Immagine Acqua Terra, la mostra che si tenne nel giugno 1967 nel primo spazio de L’Attico, di Fabio Sargentini © galleria L’Attico Fabio Sargentini