Hannah e Walter, un’amicizia

14/03/2023

“Ma gli amici, dove sono?”
FRIEDRICH HÖLDERLIN, Rimembranza

Ai funerali di Hannah Arendt, Hans Jonas con una piccola frase diede un’immagine precisa di questa vecchia esule ebrea: “Hannah aveva il genio dell’amicizia”. In effetti, molti degli scritti di Arendt vivono di amicizia, del ricordo di amicizie spezzate o impedite dall’avanzare della barbarie, dall’apparentemente inarrestabile rovina del tempo. Pare quasi che il suo pensiero, negli scritti più discreti, partecipi in modo essenziale del piccolo mondo degli affetti più intimi e tenda ad entrare in consonanza con l’esistenza irripetibile di un uomo o di una donna. Eppure, è proprio nella ricomposizione tra la Storia e l’esistenza singolare dell’“amico” che Arendt cerca di percepire una rinnovata unità di vita e mondo, nel loro indiscernibile compenetrarsi. In molti suoi scritti non si tratta di contrapporre l’esperienza individuale al fluire del mondo, ma di cogliere i punti di arresto o di tangenza in cui la vita si fa mondo e il mondo diviene immediatamente vita, in una fusione di piani: non c’è né sfondo né primo piano, né visione panoramica né dettaglio, ma solo il lento fluire dall’uno all’altro.

Senza dubbio, uno dei rapporti di amicizia intellettuale più profondi di Arendt fu quello che la legò negli anni Trenta a Walter Benjamin. Arendt aveva sposato in prime nozze un cugino di Benjamin, Günther Stern (anch’egli, come Hannah, allievo di Heidegger, e più noto col nome di Günhter Anders, autore di un fortunato libro sulla questione della tecnica dal titolo L’uomo è antiquato[1]). Ma è nel periodo dell’esilio francese, intorno alla metà degli anni Trenta, che il rapporto di amicizia tra i due esuli ebrei assume una rilevanza del tutto particolare. La più giovane Hannah frequenta le riunioni che si tengono a casa di Benjamin in rue Dombasle al 10. In quelle serate fitte di pensiero, Arendt fa la conoscenza, tra gli altri, di Fritz Fraenkel, di Karl Heindenreich, di Erich Cohn-Bendit e del suo futuro secondo marito Heinrich Blücher. Si tratta di uomini e donne che vivono in una condizione di sradicamento, un gruppo eterogeneo di esuli che discute di politica, di letteratura, della situazione tedesca, dei movimenti sionisti e delle prospettive future. Ormai fuori dai circuiti accademici tedeschi, gli “sradicati” non riescono ad integrarsi nel mondo culturale parigino. Hanno pochi interlocutori (Bataille, Klossowski), per lo più conducono una vita a parte, sorta di “pariah consapevoli” incapaci di inserirsi nella società mondana e di parvenus che caratterizzava la capitale francese di quegli anni.

Nel 1939, probabilmente anche su consiglio di Arendt, Benjamin comincia a prendere fortemente in considerazione la possibilità di emigrare negli Stati Uniti. I due studiano assieme, con una certa regolarità, l’inglese. Le occasioni di incontro, già molto frequenti negli anni passati, si moltiplicano. “Benji”, come Hannah lo aveva soprannominato, discute a lungo con Arendt delle sue Tesi di filosofia della storia.[2] Tra i due il confronto intellettuale è acceso e proficuo. Possiamo immaginare le discussioni tra Hannah, che veniva dall’interrogazione heideggeriana della metafisica, e Walter che trovava per molti versi inutilizzabile l’apparato concettuale dell’autore di Essere e tempo. Benjamin infatti cercava, cosa certamente sorprendente agli occhi di Hannah, una sorta di terreno comune tra la tradizione teologica ebraica e un marxismo rivoluzionario, “dialettico” ed eterodosso. I due si trovavano, per molti versi, sulle due grandi sponde dell’epoca. In mezzo scorreva il fiume in piena degli eventi in cui il destino della metafisica e di tutte le sue categorie era rimesso imprevedibilmente in gioco.

Nel 1940 la situazione internazionale precipita. Gli esuli tedeschi si spostano velocemente verso il sud della Francia, in cerca di una via di fuga verso gli Stati Uniti. Sarà a Marsiglia, in attesa di un visto di espatrio, che i due amici si vedranno per l’ultima volta.Benjamin affida ai coniugi Blücher una borsa di manoscritti, tra cui l’ultima versione delle Tesi. Come sappiamo, Arendt riuscirà a giungere a New York, mentre Benjamin, bloccato dalla polizia di frontiera, morirà suicida al confine con la Spagna.

Nel 1941, dopo essere approdata negli Stati Uniti, Arendt porta i manoscritti che le erano stati affidati da Benjamin all’Institute for Social Research in West 117th Street a New York. L’Istituto, diretto da Horkheimer e Adorno, che tanto, pur tra molte ambiguità, aveva cercato di aiutare e sostenere Benjamin, pare ad Arendt l’istituzione più appropriata a cui affidare gli ultimi scritti dell’amico scomparso. L’intera valigia di manoscritti viene dunque consegnata a Theodor W. Adorno. Gli scritti rimangono, però, inediti a lungo, fino al 1955. Questo inaspettato periodo di “immobile attesa” genera non pochi attriti e fraintendimenti tra Arendt e Adorno. Nel 1968, quasi a voler riparare quelle che ai suoi occhi dovevano configurarsi come le inadempienze dell’Istituto, Arendt cura e dà alle stampe negli Stati Uniti una raccolta di saggi benjaminiani dal titolo Illuminations. Più tardi, pochi mesi prima di morire, nel 1975, non paga del primo tomo di scritti, lavora a una nuova raccolta, questa volta dal titolo Reflections. Quella di Arendt, di cui queste due raccolte non erano che un ultimo estremo segno, era senza dubbio una fedeltà autentica verso un’amicizia che doveva averla segnata profondamente.

Arendt dedicò molti dei suoi scritti agli “amici” scomparsi. Il titolo era spesso, molto semplicemente, il nome dell’amico, quasi che il ritratto di un pensiero fosse indistinguibile dalla singolarità di un corpo e di un’esistenza. La biografia, infatti, in molti scritti di Arendt, sembra configurarsi come il punto di tangenza tra la vita e il pensiero. A proposito di una biografia di Rosa Luxemburg, Hannah scriverà: “La biografia […] è uno dei più notevoli generi di storiografia”.[3] Non è dunque un caso che la prima delle due raccolte dedicate a Benjamin, Illuminations, si apra con un lungo saggio di Arendt dal titolo “Walter Benjamin. 1892-1940”.[4] Titolo scarno, caratterizzato solamente da un nome e un arco temporale, quasi un’epigrafe da pietra tombale. Molto probabilmente si trattava di un omaggio o di una preghiera, una forma secolarizzata del kaddish ebraico (la preghiera dei morti). In un testo dedicato ad Isak Dinesen, compreso in Men in Dark Times, libro in cui confluirà anche il saggio su Benjamin, Arendt scrive, infatti: “Allo stesso modo, il kaddish ebraico, la preghiera dei morti recitata dai parenti più stretti, non dice nient’altro che ‘Benedetto sia il tuo nome’: essa sorge dalla storia perché, attraverso la ripetizione nell’immaginazione, gli eventi sono diventati ciò che si sarebbe chiamato un ‘destino’”.[5] Con questo atto di rammemorazione, in cui un’esistenza si fa destino, molto probabilmente agli occhi di Arendt si trattava di ridare un nome e un tempo agli “amici” scomparsi. Qui la nozione di “amico” assume una valenza filosofica e transtemporale, divenendo una sorta di philia che declina il problema del sapere in tutte le sue sfaccettature, anche le più intime. Il sapere diviene un’esperienza rammemorante di condivisione o di affinità elettiva oltre le contingenze e le presunte attualità del tempo. Se dunque, come è stato notato,[6] l’esercizio della memoria arendtiano è teso a creare una rete di exempla, capaci di un valore euristico, è certamente vero che questo testo dedicato a Benjamin è uno degli exempla più limpidi e più alti del pensiero maturo di Arendt. Un exemplum di filo-sofia, di amicizia e di sapere, capace di dare un’immagine precisa del modo di procedere arendtiano nel pensiero e nella storia.

Ma qual era l’importanza della categoria dell’amicizia nel pensiero arendtiano? E chi erano gli “amici” a cui Arendt si riavvicinava nel suo esercizio di pensiero? Gli amici di Arendt sono pariah della società, avulsi da ogni integrazione, da ogni senso di appartenenza forte, isolati, marginali, sradicati, sconfitti. Uomini-lume che si aggirano in tempi bui, tracciando, a propria insaputa, percorsi che non portano in alcun luogo o, che è poi lo stesso, lasciando tracce di utopia. In questo senso i ritratti di Arendt, in quanto ritratti “luminosi”, disegnano i lineamenti di un nuovo Illuminismo, ma di un Illuminismo avvolto nelle tenebre della storia e che con queste tenebre fa i conti fino in fondo. Non a caso, come abbiamo già ricordato, la prima raccolta di saggi benjaminiani curata da Arendt aveva per titolo Illuminations. Si trattava di piccoli lumi, illuminazioni, nella notte della storia. E il ritratto dell’amico scomparso è esattamente il tentativo di rendere luce alla figura della stella cadente della speranza con cui Benjamin chiudeva il suo saggio sulle Affinità elettive goethiane. Riattivare la luce di una stella, tornare a farla risplendere nella notte della storia è un compito quasi impossibile. Eppure, come scrisse anche Paul Celan, “…una / stella / ha forse ancora luce. / Niente, / niente è perduto”.[7] Si tratta, allora, di ridar luce, ricordando non solo la stella ma l’intera costellazione persa nella notte. Il lavoro del pensiero è anche questo ricordare il tempo, ricordarlo nella sua interezza, nella sua buia prospettiva. Dare al mondo una costellazione che impedisca il disastro. (Ancora Celan, “– Una stella, mettila, / metti una stella nella notte. // (– Nella mia, nella / mia.)”.[8]

Lumi per tempi bui: questo sono i ritratti di Arendt. E i tempi bui, come si sa, non si dissolvono facilmente. Non iniziano certo con i fenomeni totalitari del Novecento e non finiscono, purtroppo, dopo di loro. Non a caso Arendt vedeva già in Lessing – forse l’unico grande rappresentante dell’Illuminismo in Germania – una figura esemplare di questi piccoli lumi che fungono da stelle di riferimento nell’oscurità dei tempi. E proprio in questo senso, il discorso che Arendt pronunciò in occasione del conferimento del prestigioso premio Lessing – che compare, e proprio in apertura, in Men in Dark Times – è per molti versi esemplare di una metodologia che si riverbera in tutti gli altri scritti di questo genere. Il testo, che ha per titolo L’umanità nei tempi bui,[9] si presenta come un ricordo del pensatore tedesco. Nelle argomentazioni di Arendt, la sfera della biografia e quella dell’autobiografia si confondono. In un gioco di specchi e di riflessi, in cui l’omaggio si confonde con l’autobiografia, Arendt arriva a far propria, riconoscendola nell’altro, la categoria lessinghiana di Selbstdenken.[10] Quel che traspare, allora, è come la vera eredità che l’Illuminismo ha lasciato all’umanità sia esattamente la capacità di “pensare da sé”, di affrontare il mondo a partire da un pensiero autonomo, solitario e che non può più fruire delle grandi griglie interpretative della tradizione metafisica. Il pensiero diviene la liberazione da tutto ciò che è imposto, da tutto ciò che in nome di una tradizione impedisce di lasciar correre la ragione fino al fondo della banalità del reale. Per questo suo carattere “anarchico” il pensiero necessita di una dimensione solitaria, appartata, priva di appartenenze. Eppure – e qui si apre la dimensione del ricordo come comunità con il passato, con coloro che furono – questo pensare da sé assume la propria valenza più alta quando si incrocia con la figura dell’altro, quando diviene rammemorazione dell’incontro con l’altro. Nei tempi bui, il pensiero più solitario torna a dar luce alla ragione quando, rivolgendosi ad altri uomini, si scontra con il proprio limite e si dà quindi una misura nella dismisura dell’esistenza dell’altro. Il gioco di specchi capace di catturare il riflesso di una luce che rischia di perdersi dà vita ad una nuova costellazione; scaraventa l’interiorità dell’autoriflessione nell’esteriorità inappropriabile del mondo. In questo modo, per usare un’immagine kantiana, il pensiero opera il passaggio dalla interiorità della legge morale all’infinito del cielo stellato o, per usare una terminologia arendtiana, il soggetto del giudizio si percepisce come parte di un “essere-insieme”[11] che precede ogni finalità e risulta pertanto incoercibile ad un’unica misura. Ma perché ciò avvenga occorre che nulla vada dimenticato, che si serbi memoria di ciò che è stato e di chi è passato. Ed è qui, in questo cortocircuito tra passato e futuro, tra memoria e pensiero, che il rapporto tra Hannah Arendt e Walter Benjamin assume tutta la sua rilevanza.

Il vero punto di contatto tra il pensiero di Benjamin e quello di Arendt, infatti, molto probabilmente, va individuato proprio nel valore attribuito alla memoria, all’atto di rammemorazione. Per Arendt, infatti, nel tema della memoria confluiscono aspetti tanto dell’Andenken heideggeriano, cioè della “rammemorazione dell’essere” come il proprio del pensiero,[12] (ma per Arendt l’“essere” è al centro di un’ontologia plurale, di un “essere-insieme”) quanto, come vedremo, dell’Eingedenken delle Tesi di filosofia della storia. All’interno di questa prospettiva, è più semplice inquadrare quel modo di procedere arendtiano che giustamente è stato definito una “concezione politica della memoria”,[13] una concezione per la quale la memoria diviene un mezzo fondamentale tanto per comprendere ciò che la storia ha la tendenza a far cadere nell’oblio, quanto per inserire gli eventi storici in uno schema universale di giudizio valido anche per il futuro, cioè in un modello esemplare per l’azione. In altri termini, l’esercizio della memoria per Arendt è il primo passo affinché l’azione sia liberata dai “‘peccati’ che pendono come la spada di Damocle sul capo di ogni nuova generazione”[14]: il “perdono” redime i gesti del passato, mentre la “promessa” fa sì che il passato non sia accaduto invano. Per esserci perdono si deve ricordare senza risentimento e inserendo ciò che si ricorda in una storia più ampia, sottratta al solipsismo e aperta alla dimensione esemplare e unica dell’altro. La rammemorazione, l’Andenken, questo movimento del pensiero verso qualcosa o qualcuno che è assente, si coniuga nell’ontologia arendtiana come una rammemorazione dell’essere-insieme, della promessa ontologica fondante contratta con il Mit-sein, con la comunità di coloro che sono, che sono stati e che verranno.Ma per prestar fede alla promessa, secondo Arendt, occorre aprirsi alla sfera della “memoria della volontà”, come la chiamava Nietzsche, una memoria che si fa azione, atto vivente e che, a partire dal ricordo del passato, è capace di spingere l’Io verso il futuro, costringendolo a rispondere di “sé come avvenire”.[15] La memoria si configura quindi, in questo ripensamento dell’Andenken heideggeriano, come un esercizio politico, una forma di vita attiva, capace di riportare alla luce (alla luce della ragione) ciò che si vorrebbe, in modo troppo sbrigativo, far cadere nelle tenebre (dell’irrazionalità senza spiegazione). E questa forma di azione non è tesa a stabilire griglie interpretative e valoriali immutabili in cui far ricadere ciò che è stato, non è una nuova forma postmetafisica di oggettività storicista che pretenderebbe, secondo l’espressione di Leopold von Ranke riportata nella sesta Tesi, di descrivere il passato “proprio come è stato davvero”.[16] È anzi, piuttosto, completamente orientata a ridar vita al passato, a restituire il passato alla sua immediatezza, alla sua condizione di dato non mediato e non mediabile o, detto altrimenti, di evento, di apertura imprevista e imprevedibile. Come scrive Arendt, “il vantaggio virtuale della nostra situazione dopo il tramonto della metafisica e della filosofia potrebbe essere duplice. Essa ci consentirebbe di guardare al passato con occhi nuovi, liberi dal fardello della costrizione di qualsiasi tradizione, e di disporre perciò di un patrimonio enorme di esperienze immediate, senza essere vincolati da alcuna prescrizione sul modo di trattare simili tesori: ‘Notre héritage n’est précédé d’aucun testament’ (René Char)”.[17] In questo modo Arendt, rilanciando in modo inatteso il pensiero di Heidegger e seguendo in parte quello di Benjamin, rende l’eredità del passato al suo avvenire, disloca la temporalità, affidandola alla singolarità del ricordo e del giudizio, di un giudizio che si fa azione, esperienza diretta e non mediata. L’enormità di un tale gesto, le costellazioni della memoria che esso mette in atto e la forza distruttrice che ciò comporta, sono ancora ben lontane dall’essere comprese dall’odierna storiografia, come Arendt ben intuiva leggendo le Tesi di Benjamin, che la porteranno giustamente a dire che in questo urto mortale del pensiero rammemorante con la tradizione e l’autorità del passato, “l’erede e conservatore si trasforma, inaspettatamente, in un distruttore”.[18]

È infatti proprio nelle Tesi – in quelle Tesi che Walter aveva discusso in modo così approfondito con Hannah a Parigi, per poi affidargliele a Marsiglia durante il loro ultimo incontro – che appare come centrale la violenza rivoluzionaria, e dunque in parte distruttrice, contenuta nella nozione di Eingedenken (che forse più che con la parola “rammemorazione”, sarebbe meglio rendere con il leopardiano “ricordanza” e il conseguente “rimembrar de le passate cose”, che “istituisce un rapporto fra ricordo privato e memoria collettiva”[19]). L’Eingedenken si caratterizza come quella capacità della memoria di fissare in un’immagine l’istante in cui il passato si salda con il presente all’interno di una nuova costellazione. “Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’adesso in una costellazione”[20] e l’immagine è precisamente il luogo in cui la Eingedenken, nella Jetztzeit (l’attualità)del ricordo, manda in cortocircuito il rapporto presente/passato/futuro, come anche quello tra privato e pubblico. La ricordanza, in quanto fondamentalmente praxis immaginativa, oltre a permettere il riscatto del passato attraverso un’azione politicamente incisiva, come ben sottolinea anche Arendt, è frutto di un pensiero poetante, di un pensiero che pensa per immagini. Benjamin, infatti, secondo Arendt, nel suo complesso rapporto tra la tradizione e l’imperativo rivoluzionario di una sua sovversione, pensa poeticamente e, come i poeti di Hölderlin, cerca di “fonda[re] ciò che resta”,[21] ciò che resta tra l’ammasso di macerie a cui rivolge lo sguardo l’angelo della storia della IX Tesi. Ma ciò che resta nell’Eingedenken di Benjamin è qualcosa di diverso dall’Andenken inteso come il proprio del pensiero di cui parla Heidegger, benché, come scrive ancora Arendt, “Benjamin aveva molto più in comune, pur senza saperlo, con il sorprendente istinto heideggeriano per quegli occhi e quelle ossa viventi che il mare aveva trasformato per sortilegio in perle e corallo”[22] (egli aveva cioè in comune con Heidegger la capacità di andare alla scoperta di un passato aperto alla forza attualizzante della rammemorazione). Quel che resta in Benjamin è la nuda concretezza storica di “una connessione che appare immediatamente chiara in modo sensibile e non necessita di alcuna interpretazione”.[23] Restano, cioè, una pluralità di monadi, di pensieri, di esistenze e di rovine che entrano senza fine in nuove costellazioni di senso. Ciò che resta è l’atto rammemorante che colleziona frammenti di passato, citazioni del tempo, nella speranza di poterle salvare in una nuova dimensione totalmente altra rispetto ad ogni nostalgia dell’origine, poiché all’origine è già la rovina. Non resta che l’esile striscia di terra della memoria e della testimonianza.[24] In queste costellazioni di frammenti monadici, sottratti alla tradizione, come ad ogni storia della dimenticanza dell’essere, ciò che appare è l’evidenza di nuove ed eterne idee, di un nuovo pensiero con lo sguardo rivolto verso un’inafferrabile salvezza. “Le idee – infatti – sono costellazioni eterne, e in quanto gli elementi vengono concepiti come punti dentro simili costellazioni, i fenomeni vengono suddivisi e insieme salvati”.[25] La debole immagine della salvezza è, ancora una volta, in quest’atto rammemorante in cui il patto, l’alleanza tra le generazioni si rinnova e giunge a un proprio, sempre instabile, compimento.[26] La ricordanza, allora, conservando memoria di ciò che è stato e rischia di andare perduto per sempre, rinnova il patto e permette l’irruzione del momento rivoluzionario nel continuum della storia, cioè permette l’irruzione di quel momento in cui – come dirà Arendt – la libertà rispetto alla tradizione è massima e qualcosa di totalmente nuovo e inaspettato può avvenire. Nella ricordanza il passato accede di nuovo a “sé come avvenire”, assume la propria eredità diveniente al di là di ogni testamento. Percorrendo nella memoria il percorso di pensiero e l’esistenza dell’amico scomparso, Arendt attraverso Benjamin accede alla questione di un passato che pur essendo la nostra eredità non è preceduto da nessuna esecuzione testamentaria, da nessuna regola interpretativa, da nessun Testamento, nuovo o antico che sia. Si tratta davvero di un’eredità a venire, sempre nell’atto di venire. Ogni residuo teologico, ancora presente in Benjamin – pare essere eliminato. Resta il ricordo degli amici e di quell’infinito essere-insieme, fatto di volti e pensieri, che è la storia dell’ontologia plurale arendtiana.

In una breve poesia dal semplice titolo W.B. – poesia che sembra voler rispondere alla domanda “Ma dove sono, gli amici?”, posta da Hölderlin nel suo Andenken[27] – Arendt traccia forse il più intimo ritratto dell’amico scomparso. In un estremo atto di amicizia, la flebile voce della memoria ci guida verso un futuro, quando “la notte scenderà dalle stelle”, in cui nelle profondità degli abissi i ricordi, cristallizzati, torneranno a risplendere come riflessi di una danza di meteoriti luminosi sul calmo fondale di un mare eterno.

W. B.

Verrà di nuovo l’imbrunire,
e la notte scenderà dalle stelle.
Giaceremo con le membra distese
Nelle vicinanze, nelle lontananze.

Dall’oscurità risuonano
Piccole dolci melodie.
Ascoltandole ci svezziamo,
rompiamo finalmente i ranghi.

Voci lontane, vicini affanni:
queste le voci, questi i morti
che noi mandammo avanti come messaggeri
a farci da guida nel sonno.[28]

Una prima versione di questo saggio è apparsa con il titolo di “Costellazioni della memoria” in Hannah Arendt, Walter Benjamin, 1892-1940, a cura di F. Ferrari, trad. it. di M. De Franceschi, SE, Milano 2004. Ringraziamo autore ed editore per il permesso alla riproduzione.


[1] G. Anders, L’uomo è antiquato, voll. 1-2, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

[2] Si veda l’eccellente e preziosissima edizione a cura di G. Bonola e M. Ranchetti: W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997.

[3] H. Arendt, “Rosa Luxemburg: 1871-1919”, in Id. Men in Dark Times, Harcourt, Brace & World, New York 1968, p. 33 (tr. it., Elogio di Rosa Luxemburg, rivoluzionaria senza partito, in “MicroMega”, 3, 1989, p. 43).

[4] Il saggio su Benjamin, qui interamente ritradotto e riproposto con il titolo originale (Walter Benjamin. 1892-1940), era uscito una prima volta nel volume H. Arendt, Il futuro alle spalle, il Mulino, Bologna 1981 e, in seguito per Mondadori, nel 1993, con il titolo Il pescatore di perle.

[5] H. Arendt, “Isak Dinesen. 1885-1962”, in Id., Men in Dark Times, cit. Si noti che nello stesso libro confluirà anche il saggio su Benjamin, dando vita a una costellazione di ritratti e ricordi che ben delinea i “debiti” di pensiero di Arendt.

[6] Cfr. F. Fistetti, “Hannah Arendt: la memoria come spazio del pensiero”, in Aa. Vv., Razionalità critica nella filosofia moderna, Lacaita, Manduria 1989.

[7] P. Celan, Grata di parole, in Poesie, Mondadori, Milano 1998, p. 343 (traduzione leggermente modificata). Sul tema del ricordo e della testimonianza si veda anche M. Blanchot, L’ultimo a parlare, il melangolo, Genova 1990, ma anche, in diretto rapporto con i testi arendtiani, J.-F. Lyotard, “Sopravvissuto”, in Aa.Vv. Hannah Arendt, Bruno Mondadori, Milano 1999, pp. 66-93.

[8] P. Celan, Grata di parole, in Poesie, cit., p. 323. Su questi versi si chiude anche la seconda lezione francofortese di Ingeborg Bachmann (I. Bachmann, Letteratura come utopia, Adelphi, Milano 1993, p. 53), la quale a lungo cercò di pensare il rapporto di crisi feconda tra passato, presente e futuro.

[9] H. Arendt, Men in Dark Times, cit., pp. 3-31.

[10] La stessa categoria Arendt ritrovò come centrale anche nel pensiero di Rahel Varnhagen. Cfr. H. Arendt, Rahel Varnhagen. Storia di un’ebrea, Il Saggiatore, Milano 1988. Su questo tema, si veda anche L. Boella, Hannah Arendt, Feltrinelli, Milano 1995.

[11] H. Arendt, “Karl Marx e la tradizione del pensiero politico occidentale” (1953), in “MicroMega”, 5, 1995, p. 98. Sul tema della comunità in Arendt, si vedano anche le precise osservazioni di Simona Forti nel suo “Hannah Arendt: filosofia e politica”, in Aa.Vv. Hannah Arendt, cit., pp. I-XXXIII.

[12] Si veda M. Heidegger, “Rimembranza”, in Id., La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1994, pp. 95 sgg.

[13] F. Fistetti, “L’epoca dei totalitarismi è davvero finita? Una rilettura di Hannah Arendt”, in H. Arendt, L’immagine dell’inferno. Scritti sul totalitarismo, Editori Riuniti, Roma 2001, p. 23.

[14] H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1997, p. 175.

[15] Entrambe le citazioni – la prima ripresa anche da H. Arendt in Vita activa (cit., p. 181) – si trovano in F. Nietzsche, Genealogia della morale, in Id. Opere, vol. 6, tomo 2, Adelphi, Milano 1968, p. 256. In questo l’esercizio rammemorante arendtiano è assai prossimo a quello heideggeriano. Heidegger, infatti, scrive, “[…] allora possiamo esperire questo: ciò che è stato, nel suo ritorno nel pensiero rammemorante (Andenken), si spinge al di là del nostro presente e viene incontro a noi come qualcosa di venturoin M. Heidegger, “Rammemorazione”, in Id., La poesia di Hölderlin, cit., p. 121.

[16] W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 27.

[17] H. Arendt, La vita della mente, il Mulino, Bologna 1986, p. 94.

[18] H. Arendt, Walter Benjamin, 1892-1940, SE, Milano 2004, p. 70.

[19] Sul tema delle “ricordanze” di Leopardi si veda l’illuminante saggio di C. Galimberti, “Di un Leopardi patrocinatore del circolo” (1965), in “Chorus”, 1, 2003, da cui è tratta la citazione (p. 137). Va infine ricordato che Benjamin ben conosceva ed apprezzava l’opera di Leopardi, da lui definito “il pratico paradossale, l’angelo ironico” (in W. Benjamin, “Giacomo Leopardi: Gedanken”, in Id., Critiche e recensioni, Einaudi, Torino 1979, p. 68). Non c’è qui lo spazio di mostrare il rapporto tra l’“angelo ironico” e l’“angelo della storia” al centro delle Tesi, ma è evidente l’importanza e la non casualità di questo nesso.

[20] W. Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo, frammento N2a, 3, Einaudi, Torino 1986, p. 598 (trad. leggermente modificata).

[21] “Ma ciò che resta fondano i poeti (Was bleibet aber, stiften die Dichter)”, F. Hölderlin, “Rimembranza”, in Id. Tutte le liriche, cit., pp. 345 (traduzione modificata).

[22] H. Arendt, Walter Benjamin, 1892-1940, cit., p. 72.

[23] H. Arendt, Walter Benjamin, 1892-1940, cit., p. 27.

[24] Sul tema del testimone e della testimonianza ha scritto G. Agamben in Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino 1998.

[25] W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1980, p. 11.

[26] È appena il caso di ricordare quanto il pensiero benjaminiano sia imbevuto di categorie telogiche e come anche nell’Eingedenken risuoni un’eco religiosa in cui l’alleanza, il patto, è riverbero dell’alleanza del popolo ebraico con l’Irrappresentabile. Anche se bisogna sempre riflettere su quanto in Benjamin la dimensione teologico-metafisica sembri indicare verso un oltrepassamento di ogni dimensione teologica, lasciando aperta la questione di un’irrapresentabilità o di un’indimenticabilità al di là di ogni tradizione e, nel senso etimologico del termine, di ogni teodicea.

[27] F. Hölderlin, “Rimembranza” inId., Tutte le liriche, cit., pp. 341 sgg.; per un’analisi storico-filologica del vocabolo Andenken in Hölderlin, si veda anche ciò che scrive L. Reitani nell’opera sopra citata alle pp. 1537-8.

[28] Poesia di Hannah Arendt contenuta in E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. 1906-1975, Bollati Boringhieri, Torino 1990, p. 198.

 

Immagine di copertina: © Private Hannah Arendt Archive

Federico Ferrari

(Milano, 1969). Insegna Filosofia dell’arte all’Accademia di Belle Arti di Brera. Tra i suoi ultimi libri: “L’insieme vuoto. Per una pragmatica dell’immagine” (Johan & Levi, 2013), “L’anarca” (Mimesis, 2014; 2a ed. Sossella, 2023), “Oscillazioni” (SE, 2016), “Il silenzio dell’arte” (Sossella, 2021), “L’antinomia critica” (Sossella, 2023) e, con Jean-Luc Nancy, “Estasi” (Sossella, 2022).

English
Go toTop