Carceri dell’invenzione

13/03/2023

È uscito A testimoni il cielo e la terra. Arte, nazione e memoria in Polonia e in Germania (2002-2020) di Laura Quercioli Mincer (Genova University Press, 264 pp., € 25). Lo presentano oggi, 13 marzo, alle 18.30, all’Istituto Polacco di Roma in via Vittoria Colonna 1, Roberta Ascarelli, Fiorella Bassan, Stefano Chiodi e Anna Jagiełło. Per la cortesia di autrice ed editore proponiamo qui l’introduzione di Andrea Cortellessa al volume.

«È facile parlare della Polonia, più difficile lavorare per essa, più difficile ancora morire, ma la cosa più difficile è soffrire». Così si legge, ci racconta Laura Quercioli, su un muro del carcere di Via Szuch, sede della Gestapo durante l’occupazione nazista di Varsavia. Quello delle scritte sui muri delle carceri è un tòpos almeno dall’età romantica (noi italiani pensiamo a quelle delle vittime della Santa Inquisizione sulle pareti dello Steri di Palermo, o a quelle riprodotte da Gastone Novelli nel suo libro d’artista Scritto sul muro, dedicato alla Regina Cœli in cui per un soffio, alla fine del ’43, si salvò dall’essere messo a morte dalle SS), ma per l’autrice corrisponde anche a un’ossessione personale (il suo libro precedente, che tratta di «carcere e istituzioni totali nella letteratura polacca», ha per titolo La prigione era la mia casa).

Non dev’essere così facile, in realtà, parlare della Polonia. Ma forse può servire allo scopo un’altra citazione di questo libro, di Józef Piłsudski (La psicologia del detenuto, 1925): «in Polonia la prigione è il compagno costante e quotidiano del pensiero umano». Il padre della patria alludeva alle rivolte del suo popolo, represse brutalmente a più riprese fra l’Ottocento e il primo Novecento, ma non è un caso che all’indomani della Seconda guerra mondiale si sia potuto affermare, con iperbole eloquente, che nei sei anni di occupazione l’intero paese era divenuto un «enorme carcere tedesco, un solo campo di concentramento».

Che a questo libro metta capo un excursus su una serie di carceri famigerate – a ritroso sino al Mamertino, che a Roma si trova dai tempi mitici dei Sette Re ed è probabilmente il «più antico edificio carcerario esistente» – non si deve tanto a un morboso frisson postmodernista (al quale personalmente confesso, peraltro, di indulgere da decenni), quello che è stato definito dark tourism, quanto all’intuizione di una simmetria strutturale fra l’eterotopia per antonomasia, che è appunto il carcere, e il paesaggio simbolico cui il libro è dedicato. Tutti i saggi qui raccolti da Laura Quercioli sono infatti viaggi personali (volendo dar loro un’etichetta convenzionale dovremmo ascriverli – a dispetto delle puntuali bibliografie delle quali si presentano corazzati – alla tipologia del personal essay) in una terra devastata (non solo desolata, cioè). Questa terra è contaminata – così suona un titolo paradigmatico, in queste pagine spesso evocato, di Martin Pollack – dalla memoria del Trauma storico per eccellenza: quello che nel tempo che ce ne separa è stato designato con metafore quali Olocausto e Shoah, l’una come l’altra variamente avvertite come inadeguate (non è un caso che Paul Celan, invece, preferisse non dargli un nome se non alludendovi con la perifrasi «ciò che è stato» – in ciò concorde con Primo Levi: «meditate che questo è stato»).

Se risulta così arduo, al di là del famigerato caveat di Adorno, trovare le parole per dirlo, ciò che è stato, forse un altro tentativo si potrà fare ricorrendo alle immagini: dev’essere stato questo il cortocircuito che ha indotto una letterata come Laura Quercioli a dedicarsi con tanta continuità, negli ultimi anni, a ricerche trans-disciplinari come quelle di cui ora ci dà conto. Anche se naturalmente, mossi i primi passi in questa direzione, ci si rende subito conto che i dilemmi – etici, prima che specificamente linguistici – sono, anche in questo caso, pressoché paralizzanti.

Se quella della Shoah è la drammaturgia psico-sociale per antonomasia del nostro tempo, si deve al doppio legame al quale ci consegna: parlarne è impossibile, come lo è non parlarne. Scrivere poesie dopo Auschwitz è un atto di barbarie, certo; non meno barbarico, però, è non scriverle. Se consideriamo l’antinomia che compongono i due maggiori artisti tedeschi del secondo Novecento, Gerhard Richter e Anselm Kiefer, capiamo subito come a sua volta l’invenzione artistica, da almeno mezzo secolo ormai, sia a tutti gli effetti “prigioniera” di questa memoria. Dialogando col terzo grande protagonista di questo libro, Mirosław Bałka, Zygmunt Bauman ha definito «obbligazione della memoria» quella che prova chi è «posseduto dal passato proprio e altrui» e si vede costretto a «ricrearlo, riciclarlo» senza posa; mentre l’espressione freudiana «Trauerarbeit», «lavoro del lutto», è stata evocata da Stephanie D’Alessandro a proposito dello stesso Richter. Si può allora forse dire che questi artisti, tutti ossessivamente gravitanti nella costellazione del Lutto per antonomasia della storia europea, siano condannati ai Lavori Forzati: fine pena mai. E noi, che non possiamo distogliere lo sguardo dalle loro immagini, insieme a loro.

Anche le esperienze più alla lettera dissacranti – quelle cioè che alla storia intendono «togliere il sortilegio» (come dice Artur Żmijewski), desublimandone in chiave parodica o persino ludica i paradigmi più o meno dichiaratamente sacralizzanti, appunto – recano il calco, ancorché in forma rovesciata, di ciò che è stato. Persino quella che può apparire una completa cancellazione del referente può infatti operare un «lavoro della distruzione» (parafrasando un’espressione di Didi-Huberman sul lavoro più recente di Richter) che funziona allora, semmai, come una preterizione (al modo dei celebrati monumenti “negativi” di Christian Boltanski, Daniel Libeskind e Peter Eisenman).

Se una cosa ci insegna l’atroce ironia nazista iscritta sul portale di Auschwitz, però, è che non è affatto detto che il Lavoro Renda Liberi. E infatti dovremmo sapere bene, ormai, che la memoria non è un valore in sé. «Strumento meraviglioso ma fallace», definiva com’è noto «la memoria» Levi nei Sommersi e i salvati; e fallace può rivelarsi, in effetti, in almeno due sensi. Da un lato può fallire nel suo compito, cioè nella ricostruzione del passato, preterintenzionalmente omettendo sostituendo inventando dettagli più o meno rilevanti che, in certi casi, quel passato possono falsare nel modo più insidioso. Ma può anche essere fallace alla radice: procedendo in modo omissivo disonesto strumentale, cioè, in modo cinicamente deliberato. Si sa per esempio come la guerra più assurda del secondo Novecento, quella che negli anni Novanta ha dilaniato le terre già unite nella federazione jugoslava (e che con le sue «pulizie etniche» è parsa appunto rinnovare la memoria della Shoah), abbia rivendicato memorie luttuose e «tradizioni» più o meno «inventate», come quella della battaglia di Kosovo Polje del remoto 1389. Sintomatico il caso, riportato da Quercioli, della mostra patrocinata a Varsavia dalla destra conservatrice ed «etnonazionalista» nel 2017 (cioè all’indomani della svolta politica di estrema destra prodottasi in Polonia con le elezioni di due anni prima), che recava un titolo provocatorio come Historiofilia: prendendosela con il ba-bau del «comunismo» al quale associava, nell’esecrazione, «l’Europa, il gender, la Terza Repubblica, Tusk, il femminismo» (vale la pena ricordare come Donald Tusk, già esponente di Solidarność, sia stato primo ministro polacco dal 2007 al 2014, e in seguito moderatissimo esponente del Partito Popolare Europeo).

È questo un ulteriore doppio legame, si capisce quanto collegato al precedente. Da un lato infatti soffriamo oggi di una vera e propria inflazione narrativa e rappresentativa, non esente talora da cinismo mercantile (nell’ambito della nostra migliore saggistica non si possono non ricordare, al riguardo, le ricerche in parallelo di un critico della cultura prima che della letteratura come il Daniele Giglioli di Critica della vittima, e di una storica di formazione semiotica come la Valentina Pisanty dei Guardiani della memoria); la quale però non esclude affatto che questa stessa memoria, ormai satura sino al parossismo, si riveli al contempo incompleta, intermittente, insufficiente (Quercioli ricorda per esempio, con Timothy Snyder, la sproporzione fra la memoria della Shoah degli ebrei d’Occidente e quella, a noi invece ancora relativamente ignota, di quelli d’Oriente).

Si sa come il più serrato dei dibattiti si sia svolto, a più riprese, sulla liceità di rappresentare ciò che è stato: esemplare lo streit che contrappose, simbolicamente all’inizio del nuovo secolo, Claude Lanzmann, il cineasta autore negli anni Settanta del monumentale documentario Shoah, al filosofo dell’arte Georges Didi-Huberman (proprio da questa discussione deriva il libro fondamentale, di quest’ultimo, che è Immagini malgrado tutto). Ma non si riflette troppo spesso (lo va facendo in questi anni, però, Arturo Mazzarella) sul fatto che alle origini stesse del Trauma si colloca un tentativo di «cancellazione della rappresentazione stessa o della possibilità della rappresentazione»: da ciò dipende che la Shoah significa per noi, forse prima di ogni cosa, «una crisi ultima della rappresentazione». Tipica del «nazionalestetismo» nazista era infatti la tendenza a una «iper-rappresentazione», ossia la hybris di tendere a «un mondo che potesse essere mostrato e reso presente nella sua totalità», un mondo «senza fratture, senza abisso, senza invisibilità ritratta» (non diverso, in questo, dal regime onnivisibilista del socialismo reale di marca staliniana). L’odio nazista – e anzi specificamente hitleriano – per la Entartete Kunst, per via metonimica intesa come squisitamente ebraica, era rivolto proprio all’immagine dubbia, intermittente, intralciata che la modernità artistica aveva codificato nei primi decenni del Novecento. Dunque «il campo di sterminio è la scena in cui l’iper-rappresentazione si offre lo spettacolo dell’annientamento di ciò che, ai suoi occhi, è la non-rappresentazione».

Ne fa fede il famigerato discorso di Heinrich Himmler ai suoi luogotenenti, nell’ottobre del ’43, su «che cosa significano 100 cadaveri, uno vicino all’altro, o 500 o 1000»: per cui «avere sostenuto» quello “spettacolo” ed «essere rimasti uomini onesti» costituisce, agli occhi del comandante in capo delle SS, «una pagina di gloria della nostra storia che non è mai stata scritta e che non lo sarà mai». Perché l’iper-rappresentazione che era in sé lo sterminio doveva anche essere, al tempo stesso, minuziosamente cancellata: cioè privata di ogni rappresentazione che potesse in futuro documentarlo. Di qui l’eroismo, il sacrificio nazista, di cui oscenamente si compiaceva Himmler, di una rappresentazione che paradossalmente non può lasciare tracce, resti. Quello nazista è un operare senza opera. Sicché, a noi che malgrado tutto restiamo, il compito che resta è invece quello di capovolgere diametralmente tale logica, considerando opere che compiano «una rappresentazione di Auschwitz»: la quale «non può essere altro che un’apertura – intervallo o ferita – non mostrata come un oggetto, ma iscritta direttamente nella rappresentazione, come la sua stessa venatura, la sua verità».

Così ha spiegato Jean-Luc Nancy in un saggio del 2001 dal quale provengono le mie ultime citazioni; e il cui titolo a doppio senso, La rappresentazione interdetta, esprime compiutamente questo doppio legame. Se da un lato il dominio nazista tentò in ogni modo di interdire la rappresentazione intera che esso stesso pretendeva di perpetrare, dall’altro il sacro e l’osceno che continuiamo ad avvertire nell’innominabilità di ciò che è stato, a sua volta, tenta di interdirci la sua rappresentazione. Decisivo diventa allora sfidare il doppio legame di questa doppia interdizione, attraverso immagini che malgrado tutto siamo in grado di produrre: proprio come di quella Cosa senza nome ci sono provenute in effetti, malgrado tutto, alcune immagini decisive. Sono le famose quattro fotografie prese dai Sonderkommando di Auschwitz, forse dall’interno delle stesse camere a gas, che vennero peritosamente fatte pervenire alla Resistenza polacca di Cracovia. Sono queste immagini che hanno fatto dire a Didi-Huberman che «la “verità” di Auschwitz, se questa espressione ha un senso, non è né più né meno inimmaginabile di quanto sia indicibile». Solo che, proprio come quelle immagini prese in condizioni estreme, le uniche immagini “vere” che possiamo concepire oggi, di ciò che è stato, non possono che essere in altro senso interdette. Cioè sospese, frammentarie, ambigue: «sotto forma di pezzi, di lembi, di oggetti parziali» (ancora Didi-Huberman).

Tali sono infatti, precisamente, le opere d’arte prese in esame in questo libro. Laura Quercioli le interpreta come supplementi di memoria, in quanto i pensieri che ci inducono a fare per interpretarle attivano una «post-memoria» (in accezione più ampia di quella attribuita alla formula dalla sua logoteta Marianne Hirsch). Funzionano cioè come protesi ausiliari, a posteriori, della memoria “ufficiale” («after-images», le ha definite James E. Young): che il più delle volte, di quella memoria, sono altresì salutari messe in discussione (a non voler usare, si capisce, un termine troppo implicato come «revisione»). Se questa doxa sconta la sua monoliticità, la sua unidirezionalità, insomma quella che si definisce – con eloquente catacresi religiosa – la sua vulgata (così consegnandosi non solo ai più vari abusi della memoria ma anche alla pericolosa fenomenologia del rigetto, così frequente specie nelle generazioni più giovani), quella che Aleida Assmann ha definito «arte sulla memoria» – accostandola anche tecnicamente all’ars memoriæ medievale e rinascimentale e analizzando, fra i suoi esempi più perturbanti, quella di Anselm Kiefer – ha viceversa la facoltà di recuperare il valore divisivo, sconcertante, “scandaloso”: di quei medesimi eventi altrove, ormai, anestetizzati. La brutalità di molte di queste opere è salutare in quanto tutte risultano «pietre d’inciampo»: come nel contesto paolino dell’Epistola ai Romani, che fa sua l’immagine veterotestamentaria dalla quale Gunter Demnig ha tratto nel 1992 il titolo del suo work in progress di arte urbana, sono altresì «pietre dello scandalo».

Quella di cui si parla in questo libro è dunque una memoria “contaminata”, nel senso di Pollack, come “contaminate” sono le «terre di sangue» o «terre nere» (così suonano i titoli italiani dei libri più controversi di Snyder) dell’Europa centro-orientale alle quali si riferisce Quercioli sin dal suo sottotitolo: la Polonia e la Germania. Ovvero la Polonia contro la Germania (e viceversa). Contaminate, queste terre, certo dai crimini imprescrittibili che hanno albergato (un mondo «infuso di crimine», ha detto Gerhard Richter a Hans-Ulrich Obrist); ma anche dalla congiunzione perversa, alla lettera patologica, in cui quella storia da allora le ha unite. Come scrive Quercioli, «il passato collettivo dei polacchi e dei tedeschi è certamente unito, in modo anche speculare, dall’onta di Auschwitz, dalla difficoltà di prenderne atto e dal paesaggio, per sempre “contaminato” del cuore d’Europa». È questo paradosso, di un’unione nella divisione (che è poi, più in generale, il paradosso fondante dell’Unione Europea: almeno stando al suo pensatore più acuto, Étienne Balibar), a fare di quello della Polonia di oggi un «paesaggio strano» («il mondo materiale dopo lo sterminio», ha dichiarato Bałka, «è un mondo nel quale, mi sembra, non esistono più oggetti innocenti, non esistono più oggetti familiari»).

E del resto proprio il paesaggio, coi suoi silenzi e le sue preterizioni, è il testimone al quale più spesso si rivolgono questi artisti: molto più che i racconti (e le reticenze) famigliari più tradizionalmente considerati quali “fonti” post-memoriali. È quello che vorrei definire “paradigma Resnais”: ricordando le scene iniziali del film che nel 1955 è stato in molti sensi fondativo della memoria di cui stiamo parlando, Nuit et bruillard appunto di Alain Resnais (che prendeva il titolo, si ricorderà, dal nome in codice adottato a un certo punto dai nazisti per la Soluzione Finale del Problema Ebraico, «Nacht und Nebel»: due sostantivi che rinviavano, a loro volta, all’interdizione dell’immagine). Ad appena dieci anni di distanza da quanto in quei luoghi era stato, in un certo senso ancora più inquietanti delle sconvolgenti immagini dello sterminio riportate in bianco e nero, sono infatti quelle a colori che all’inizio del film mostrano il paesaggio quietamente oleografico della Polonia del ’55: nella quale la patina del tempo pareva aver già provveduto a rimuovere il trauma.

Si prenda un case study esemplare, fra quelli passati in rassegna da Quercioli, come Posto dispari di Elżbieta Janicka (2006): l’indifferenza siderale dei cieli sopra Treblinka fotografati dall’artista trova una “spia” quasi impercettibile nellascritta «AGFA», apparentemente asettica, che si legge al margine delle immagini. Un dettaglio che perde ogni innocenza, però, quando veniamo a sapere che quest’azienda di materiale fotografico faceva parte dello stesso gruppo industriale I.G. Farben che produceva il gas Zyklon B impiegato nelle camere a gas (la stessa artista ha più di recente fotografato – ripetendo in modo più pedissequo, se vogliamo, il “paradigma Resnais” – i paesaggi idilliaci nei pressi della Treblinka di oggi in Herbarium Polonorum, 2020). Ancora più impressionante il procedimento di Winterreise (2003), la video-opera più conosciuta di Bałka, che a sua volta mette a tema l’indifferenza della natura emblematizzata dallo sguardo dei caprioli (crudelmente battezzati Bambi, con un titolo di Disney risalente allo stesso ’42 della fatidica conferenza di Wannsee) che occhieggiano tra i fili spinati del Lager: indifferenza enigmatica, la loro, rispetto alla storia e alle sue tragedie, nonché al nostro stesso sforzo di recuperarla («Come fate a rimanere così belli, voi cieli azzurri, mentre ci stanno massacrando?», suonava il canto funebre di Yitzhak Katzenelson). 

Un filo rosso, nel modus operandi di Quercioli, consiste nella contrapposizione di memorie antinomiche (il «minimalismo poetico» di Bałka, per esempio, versus la «monumentale magniloquenza della Melancholia tedesca» di Kiefer): che riproduce en abîme, se vogliamo, quella fra l’ossessione anche istituzionale della memoria in una cultura come quella tedesca degli ultimi decenni e la memoria invece intermittente, e negli ultimi anni anche strumentalmente interdetta, in un paese come la Polonia che, nella propria auto-narrazione identitaria, vuole dipingersi quale mero «testimone» di ciò che è stato (seguendo la classica tripartizione attanziale, proposta da Raul Hilberg, fra carnefici, vittime e spettatori). Laddove il ruolo che storicamente più le si addice, semmai, sarebbe quello di complice (problema culturale, questo, che accomuna del resto la specificità polacca a quella italiana: uno slogan come È buono, perché è polacco risulta perfetto equivalente, in tal senso, dello stereotipo Italiani, brava gente…).

L’accento posto da Quercioli su esperienze artistiche a vario titolo disturbanti, come quelle raccolte in Mirroring Evil – la scandalosa collettiva curata da Norman Kleeblatt al Jewish Museum di New York nel 2002, che Elie Wiesel definì né più né meno «un tradimento» –, evidenzia in ogni caso come questa «arte sulla memoria» non sia da intendere, com’è invece il più delle volte, in funzione consolatoria e autoindulgente, ma viceversa quale agente d’«irriconciliazione» (come l’ha rivendicata uno dei suoi più urticanti esponenti, Piotr Ukłański, per parte sua tipico portatore di «post-memoria» in quanto nipote di un prigioniero delle SS). Questa forma di memoria non va contrapposta a quella più canonica esemplificata da un’altra mostra, Dov’è Abele, tuo fratello?, che nel 1995 alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Varsavia venne considerata «il primo grande evento di arte contemporanea dedicato alla memoria della Shoah». Le due forme di memoria, invece, compongono a loro volta un’antinomia, un chiasmo la cui irriconciliazione produce qualcosa di vitale. Oggi più di ieri: col diffondersi della fobia identitaria nei confronti delle presunte «cultural appropriations» che si traduce, il più delle volte, in ansia di «anestetizzazione», l’arte per Laura Quercioli deve invece «mostrarci come far uso della libertà» (sono parole di Dorota Jarecka). Che è un bel paradosso, dal momento che essa a tutti gli effetti concorre a edificare quel carcere dell’invenzione che, s’è visto, rappresenta la memoria di ciò che è stato. Ma probabilmente è solo in questa forma interdetta che si può dare per noi, oggi, la libertà.

Ci ricorda Quercioli come al fondo del Mamertino scorresse dell’acqua che rappresentava, per i condannati, un crudele supplemento di pena. Il carcere romano si trovava infatti sopra una fonte, «probabilmente un luogo dedicato a una divinità ctonia», che alla memoria letteraria della studiosa non può non richiamare un’immagine salvifica della tradizione ebraica come il «profondo pozzo del passato» del Thomas Mann di Giuseppe e i suoi fratelli. E allora si può pensare risponda a una dialettica tanto profonda quanto oscura che «l’acqua, tortura per i condannati, che vi erano perennemente immersi fino alle ginocchia, sia anche simbolo di vita, rinascita, di purificazione». E magari si può ripetere allora, malgrado tutto, quanto ha finito per dire uno da cui non era così ovvio aspettarselo, Gerhard Richter: «l’arte è la più alta forma di speranza».

Gerhard Richter, Tante Marianne, 1965

Laura Quercioli Mincer
A testimoni il cielo e la terra. Arte, nazione e memoria in Polonia e in Germania (2002-2020)
GUP Genova University Press, 2023
pp. 264, € 25

In copertina: Miroslaw Balka, Winterreise, 2003

Andrea Cortellessa

(Roma, 1968) critico e saggista. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma Tre; nel 2018 ha tenuto la «cattedra De Sanctis» al Politecnico di Zurigo. Ha pubblicato saggi, curato testi e realizzato trasmissioni radiofoniche e televisive, spettacoli teatrali e musicali. È nella redazione del «verri» e collabora ad «Alias», «Il Sole 24 ore», «Tuttolibri», «doppiozero», «Le parole e le cose2» e altre testate.

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