Nel 1970 Peter Handke scrive un testo teatrale che si intitola La cavalcata sul lago di Costanza e si ispira a una ballata ottocentesca, Il cavaliere e il Lago di Costanza di Gustav Schwab, nella quale si narra di un cavaliere che vuole raggiungere il lago prima che faccia sera e prendere la chiatta che lo porterà alla riva opposta. La neve ha coperto tutto e lui continua a cavalcare senza vedere nessuno, finché non giunge in un villaggio, dove chiede quanto manchi ancora per il lago. Ma gli rispondono che il lago lui lo ha già passato, cavalcando sul sottile strato di ghiaccio che lo divideva dall’abisso. Quando si rende conto del pericolo che ha corso senza saperlo, il cavaliere resta impietrito dallo spavento e muore sul colpo. Anche nell’ultimo spettacolo di Fabio Condemi, Nottuari, ispirato a un classico dell’horror come Thomas Ligotti, ricorre un’immagine simile associata all’irruzione improvvisa del terrore e della morte: si parla del ghiaccio di un fiume che potrebbe sempre rompersi e alla fine si rompe. La realtà è una superficie sottile che può squarciarsi in ogni momento precipitandoci nel terrore: è questa la sensazione cui mira la prosa di Ligotti. Assistendo allo spettacolo di Condemi, invece, non si ha nessuna sensazione di destabilizzazione radicale. L’atmosfera è piuttosto quella di un delirio ben temperato, dell’opacità lucida di certi sogni, che evocano, sì, pericolo e terrore, ma allo stesso tempo infondono un senso di distanza e anche di affascinata curiosità. Condemi non cerca l’effetto horror, ma smonta gli ingranaggi che lo producono, ci accompagna tra le architetture scoperte dell’horror, ma senza cedere al distanziamento ironico. Il pessimismo diventa una fonte di intensità estetica. Il mistero una legge di costruzione. Ho rivolto a Fabio Condemi alcune domande su questo spettacolo.

FRANCESCO FIORENTINO: Tu lavori per lo più su testi non teatrali: Jakob von Gunten di Robert Walser, La filosofia nel boudoir del marchese de Sade, Specie di spazi di Georges Perec e ora i testi di Thomas Ligotti. Quello che cerchi di trasporre sulla scena non è mai il plot, ma la particolare modalità di scrittura di questi autori, l’esperienza di lettura che hai fatto coi loro testi. In questo caso si tratta di tre libri di racconti e di saggi – Nottuario, Teatro grottesco, La cospirazione contro la razza umana – da cui riprendi singole scene, situazioni o frasi, astrandole dal loro contesto e montandole in una sequenza di cui non è palese la logica. Lo spettatore se le vede scorrere davanti agli occhi enigmatiche, «senza una cornice di riferimento», come diceva Walter Benjamin di certi gesti di Kafka, che per questo gli apparivano irriducibili a un significato, non tanto stranianti, quanto estranei. Qual è stato il tuo criterio di scelta di questi frammenti?
FABIO CONDEMI: Sono partito dalla parola nottuario, un neologismo creato da Ligotti. Se il diario registra quello che avviene durante il giorno, il nottuario è come una sorta di taccuino mentale sul quale appuntare le incursioni del mistero nel corso della nostra vita. Non può non avere una forma frammentaria. I personaggi di Ligotti vanno in giro con quaderni, taccuini o pezzi di carta qualsiasi per appuntare il più velocemente possibile le loro intuizioni su quello che c’è oltre la soglia della percezione, nella notte della coscienza. La parola “nottuario” mi è dunque servita da magnete per organizzare la drammaturgia lavorando su frammenti e spiragli di visione. Parlando della letteratura, Mark Fisher diceva che essa espone il lettore alla sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di gigantesco di cui però è rimasto solo qualche frammento. La strategia di Ligotti è appunto questa: inquietare il lettore facendogli intuire qualcosa di enormemente più terrificante dei singoli fenomeni orrorifici che lo colpiscono. Ho cercato di seguirla anch’io. Lo spettacolo inizia con un esperimento sul funzionamento della coscienza. Agli spettatori viene mostrata un’immagine, che, se la si fissa, sembra sbiadire fino quasi a scomparire. Ovviamente si tratta di un’illusione ottica (il cosiddetto effetto Troxler). Dopo questo prologo sulla scomparsa delle immagini, partono due storie: quella di Lucian Dregler (Francesco Pennacchia), un filosofo ossessionato dalla figura di Medusa, e quella di una ragazza perseguitata dai suoi incubi (Carolina Ellero), che registra le sue esperienze ipnagogiche su dei nastri. Le due storie procedono in parallelo per ricongiungersi alla fine, quando i due si incontrano nella morte. Il tema della scomparsa delle immagini torna nel finale investendo tutti i personaggi e la stessa scenografia. A tenere insieme i vari frammenti c’è poi una figura silenziosa (Julien Lambert), che guida gli spettatori da una scena all’altra, quasi come un fantasma dell’autore.

FF La «narrativa del mistero» di Ligotti mira a trasmettere «la sensazione di qualcosa di tremendo e meraviglioso che va oltre ogni analisi». Mi pare che anche tu cerchi di ottenere questo effetto e che lo fai lavorando per sottrazione, producendo dei vuoti, delle assenze: dove lo spettatore si aspetta qualcosa – un racconto, una spiegazione, un nesso, un raccordo – non c’è nulla. Nulla che possa conferire un senso al procedere delle scene.
FC Alcune scene si svelano via via col procedere dello spettacolo. Ma tutta la prima parte è fatta da scene che non sembrano comunicare tra loro. Ho optato per questo tipo di montaggio per cercare di riprodurre l’atmosfera particolare che segna i racconti di Ligotti, dove i confini tra il fuori e il dentro, il sonno e la veglia, l’io e l’Es sono smussati, e perciò si crea come un contaminazione tra pieni e vuoti, tra ciò che il racconto suggerisce e ciò che il lettore immagina. Ligotti vuole indurre il lettore a emanciparsi dalla dittatura del visuale e trasportarlo sotto la pelle della quotidianità. Perciò è difficile identificarsi con i suoi personaggi, è difficile anche solo immaginarne il volto. Non c’è mai qualcosa di veramente orribile che avviene e li stravolge; il terrore non esplode mai. Ma c’è questa atmosfera di indeterminatezza che li opprime e si trasmette anche al lettore. Nel mio lavoro ho cercato di riprodurre questa atmosfera creando una commistione tra sonno e veglia, dentro e fuori. Così dopo un po’ non ci chiediamo più cosa i personaggi immaginano e cosa invece vivono veramente, e siamo trascinati nella spirale con loro, almeno spero.

FF In riferimento ad autori come Ligotti o anche Eugene Thacker, si parla di un horror filosofico o di un realismo speculativo, che mira a trasmettere l’esperienza di una realtà concepita al di là della presenza umana, di un “mondo-senza-di-noi”, estraneo alle categorie della mente umana. Si tratta ovviamente di un’esperienza che non può mai essere empirica, ma, appunto, soltanto speculativa. Perciò questo mondo pensato al di là dell’esistenza umana, nella narrativa di Ligotti, resta sempre invisibile, anche se determina tutto e in fondo è il vero protagonista. Anche nel tuo spettacolo questo esterno deumanizzato mi sembra un elemento cruciale, di cui però non rendi conto attraverso la scenografia, che mi pare conduca invece negli spazi angoscianti della mente dei personaggi, quanto piuttosto attraverso una drammaturgia sonora fortemente suggestiva. Non parlo soltanto delle musiche originali di Paolo Spaccamonti, ma anche del design sonoro di Andrea Giannesi, dell’impiego fantasmatico che fai del telefono e del registratore, strumenti capaci di staccare la voce dal corpo, renderla incorporea, quindi di portare oltre la dimensione visuale, che è sempre potente nei tuoi spettacoli e in questo forse più di ogni altro. Non a caso la scena è piena di schermi e di sipari e di pareti che si trasformano in schermi.
FC Grazie per queste tue riflessioni. Sono le stesse che abbiamo fatto nel costruire la drammaturgia del suono e degli spazi. Durante le prove abbiamo riletto diverse volte un capitolo di Allucinazioni di Oliver Sacks dal titolo «Sulla soglia del sonno». Sacks analizza casi di pazienti afflitti da allucinazioni ipnagogiche. Le descrizioni fatte da quei pazienti (voci scorporate, visione di sosia, spazi claustrofobici, suoni decontestualizzati) ci hanno fatto capire che tipo di spazio e di distorsione cercare per la messa in scena. Io e Fabio Cherstich abbiamo fatto una lista di artisti, film e installazioni utili al lavoro: le case\installazioni di Gregor Schneider, il film Institute Benjamenta dei Fratelli Quay, i manichini che gli attori della Classe morta di Kantor portano sulle spalle come fossero funghi, il film Le armonie di Werkmeister di Bela Tarr, i quadri di Magritte, la scena nel Club silencio di Mulholland Drive, le sculture cinetiche di Rosa Barba, il corridoio interminabile nel romanzo Casa di foglie di Danielewski, le veneri anatomiche di Clemente Susini (statue di cera di ‘scomponibili’ che rivelano le interiora di una bellissima donna sdraiata), le sculture sonore di Alberto Tadiello, le installazioni di Heiner Goebbels, i loop ipnotici di William Basinski, le architetture labirintiche e paradossali di Escher, le fotografie di Crewdson etc. Questa lista ci è servita per organizzare la drammaturgia e ragionare su slittamenti costanti tra interno ed esterno che destabilizzassero la percezione degli spettatori. Il lavoro inizia con una scritta sullo schermo che chiama in causa direttamente lo spettatore dandogli del tu, e da quel momento inizia un gioco sottile tra il pubblico e la scena sul tema del guardare che attraversa, come un fiume sotterraneo, tutto lo spettacolo.

FF Uno dei momenti più emozionanti dello spettacolo è dedicato alle Meditazioni sulla Medusa di Lucien Dregler, un personaggio di Ligotti. L’opera viene solo nominata in un racconto di Nottuario. Tu ne inventi il contenuto e ne fai una conferenza che Dregler tiene agli spettatori e che parla della bellezza come mezzo per esorcizzare l’orrore. Le immagini dell’arte vengono viste così come uno schermo creato per proteggerci da qualcosa che ci terrorizza e ci paralizza perché sta oltre ogni possibilità di rappresentazione. Ora, questa realtà, questo Reale, che eccede la nostra possibilità di simbolizzazione, mi pare che sia una forma del mondo-senza-di-noi a cui vuole aprirci l’horror filosofico. Una realtà irrapresentabile, come abbiamo detto, alla quale possiamo avere solo un accesso indiretto. Perciò nelle immagini della Medusa non vediamo la realtà che è fonte dell’orrore, ma solo l’effetto che essa provoca su chi la guarda. Mi sembra che anche tu operi secondo questa logica della rappresentazione indiretta, mostrando una scena infestata da terrori la cui causa resta nascosta. Lo spettatore vede tracce, sintomi, spie, presagi di qualcosa di orrendo che non si manifesta mai direttamente: un buco dalla parete da cui esce sangue, una voce al telefono che parla da un oltre ignoto… Qualcosa che non dovrebbe essere invece è, e perciò produce inquietudine.
FC Dregler, il filosofo protagonista del racconto La Medusa, nello spettacolo è ossessionato dal rapporto tra orrore, bellezza e rappresentazione. Abbiamo creato il suo monologo contaminando il racconto di Ligotti con riflessioni di Jean Clair e Horst Bredekamp, ma anche con riferimenti a due film, Toby Dammitt di Fellini e Don’t look now di Nicolas Roeg. All’inizio della sua conferenza Dregler pone al pubblico una serie di domande: «Esiste un legame tra l’orrore e la bellezza? È vero che non sono riconducibili l’uno all’altra? Oppure la bellezza è figlia dell’orrore? Il bello non è forse la parata immaginata dall’uomo per contenere l’orrore?». Più avanti paragona il gesto dell’artista allo sguardo di Medusa: l’artista fissa e pietrifica nell’opera d’arte frammenti di realtà facendone dei simulacri. Ma a che prezzo? Dregler prova a dare una risposta analizzando foto di Witkin, le Meduse di Caravaggio e di Rubens, l’Étant donnés di Marcel Duchamp, un dipinto di Magritte, un esempio di dripping di Pollock. Nelle opere di Pollock, della Medusa rimane solo il sangue gocciolante che cade sulle tele. Nell’ultima parte della conferenza, Dregler non ha più immagini da mostrare, perché la Medusa rappresenta in fondo la fine di tutte le immagini, qualcosa che ci circonda eppure non può diventare immagine: il mondo che diventa immondo, il reale con la R maiuscola. Qualche scena dopo, nel dialogo tra Dregler e Gleer, viene detto che la Medusa è «nella città». Questa è una affermazione importante. Il vero orrore è quello che evitiamo di guardare nelle città, nelle metropoli alienanti (come Detroit per Ligotti).

FF È stato detto che la narrativa eeire, come la letteratura weird, nella quale può essere fatto rientrare Ligotti, vogliono mostrare il fondamento meccanismo-automatico-alieno di quanto è considerato umano. E infatti i personaggi di Ligotti appaiono come posseduti da qualcosa che avviene nella loro mente, mentre il loro corpo è come se non apparisse mai pienamente. Come ha influito questo sul tuo lavoro con gli attori? Nello spettacolo i personaggi sembrano come distaccati da sé stessi, presi in una sorta di deriva allucinatoria, e i loro corpi è come se fossero bloccati in una alienazione che non diventa mai estatica, se non un modo trattenuto o ironico, e per brevi frangenti di grande fascino, come quando Julien Lambert attraversa la scena con una specie di danza disarticolata, con un passo che sembra andare contemporaneamente in diverse direzioni, o quando recita il suo monologo in equilibrio su una panchetta messa in verticale.
FC All’inizio della Cospirazione contro la razza umana Ligotti cita dei versi del Dhammapada: «Guarda il tuo corpo: / una marionetta dipinta, un povero giocattolo / di pezzi snodati sul punto di crollare, /una cosa malata e sofferente / con la testa piena di false illusioni». Questo guardare a sé stessi come a delle marionette, in Ligotti, è il momento di verità, che rivela l’impermanenza di tutte le cose e svuota di senso ogni gesto, ogni azione, ogni desiderio. Ma ciò non conduce alla disperazione o alla tristezza. Il vederci come marionette dà la possibilità di contemplare con ironia e curiosità la nostra insignificanza, il nostro essere in rovina. Per questo credo che un attore, in una messa in scena di Ligotti, debba confrontarsi continuamente con il tema del distacco dall’io, della spersonalizzazione, del vedersi come marionetta, anche solo per un momento. Non si tratta di una stilizzazione nei movimenti o nei costumi di scena, ma di cercare e percepire una deriva dell’io. Spesso, infatti, i personaggi di Ligotti vivono sulla soglia del sonno, in balìa di allucinazioni ipnagogiche o ipnopompiche. Vivono in un incubo da cui non c’è risveglio perché è la realtà stessa a essere un incubo; però hanno anche raggiunto uno stato di terribile serenità, perché – come leggiamo in un racconto di Nottuario – «possiamo sfuggire all’orrore soltanto nel cuore dell’orrore».

FF La letteratura weird e la eeire fiction mostano che l’orrore può essere anche una droga, una fonte di piacere estetico, un anestetico, un mezzo per fuggire la realtà, per trascenderla: non a caso era una componente essenziale di quello che Nietzsche chiamava «dionisiaco». Tutto ciò ha inevitabilmente una dimensione politica. L’unica sfera che conta è il nostro terrore, dice un personaggio di Ligotti, per il quale solo il terrore dice la verità e nient’altro è degno di fede o di interesse. Il terrore svaluta tutto il resto: una tale estetica o filosofia conduce a un disimpegno radicale. Da un altro punto di vista, però, il pessimismo che la alimenta costituisce una critica radicale alla «logica culturale» del capitalismo.
FC La scrittura di Ligotti cerca il mistero come antidoto al torpore prodotto da questa logica, che è una logica spettacolare. «Lo spettacolo», scriveva Guy Debord, «è il brutto sogno della società moderna incatenata, che infine non esprime che il suo desiderio di dormire. Lo spettacolo è il custode di questo sonno». Ora, per Ligotti, l’incontro col mistero è un risveglio, una ventata fredda di realtà che ci strappa a questo sonno. Nel mio lavoro ho inserito un dialogo tratto dal racconto Luna park e altre storie. In questo dialogo Drengler esprime una visione della vita come spettacolo e dice che da sempre desidera «sfuggire alla stretta dello spettacolo». Un desiderio, aggiunge, che la scrittura non può soddisfare. Questo tema della rappresentazione – del mondo come spettacolo e illusione – è centrale in Ligotti e trova il suo correlativo oggettivo in tutti i sipari, le sale cinematografiche, i vecchi teatri, i palchi vuoti, gli spettacolini senza senso presenti nelle sue pagine. Più che alla rappresentazione essi ci mettono di fronte al buio della sua fine. Lo spettacolo in Ligotti è sempre rimandato, squallido, inconcludente, il palco è vuoto e desolato. Perciò credo sia estremamente stimolante provare a restituire in teatro il senso di impermanenza che sprigionano le sue pagine e l’opacità delle sue immagini che (per usare una terminologia cara a Duchamp) si imprimono più nella mente che nella retina.

FF Come hai detto, il tuo spettacolo inizia con un Breve esperimento sulla coscienza, che vuole dimostrare come la nostra coscienza è sempre distorta, soggetta a una sorta di allucinazione strutturale, che dipende dalla focalizzazione del nostro sguardo. Ma se è così, allora l’unico modo per sottrarsi a questo inganno inevitabile sarebbe rinunciare alla coscienza. «Ah, essere una cosa senza occhi. Che svolta nascere sasso!», dice Drengler alla fine della sua conferenza. Con questa frase Drengler esprime appunto il desiderio di sfuggire alla coscienza, che non può fare a meno di registrare i traumi che poi, come scrive una volta Ligotti, manipolano le nostre esperienze. La coscienza, la memoria, il sistema nervoso, sono meccanismi di registrazione che non controlliamo. Mi pare che questo abbia molto a che fare con l’uso che fai dei registratori.
FC Stephen King, in un saggio contenuto in Danse Macabre, spiega quanto siano stati importanti per la sua scrittura alcuni programmi radiofonici. King dice che la radio ha due pregi: il primo è quello di svincolarsi dalla dittatura del visuale e di lasciare campo libero all’immaginazione dell’ascoltatore; il secondo pregio sta nel fatto che la radio si basa su un semplice quanto infallibile meccanismo mentale: se sento nominare una cosa, anche la più strana, la mia mente è portata a visualizzarla subito. Per questo abbiamo utilizzato i nastri, e nel lavoro c’è un personaggio che registra i suoi sogni. Metterli in scena sarebbe stato poco interessante per me. Più interessante mi sembra invece la parola che prova a restituire le immagini oniriche. Ho utilizzato i registratori magnetici perché mi piacciono gli strumenti vintage: credo che possono farci osservare certe cose del nostro presente con una certa stupefazione. La nostra voce è sempre più scollata da noi: mandiamo messaggi vocali che altri per sbrigarsi ascoltano a velocità raddoppiata distorcendo comicamente la nostra voce. E siamo tanto assuefatti a tutto ciò da non renderci conto di quanto sia strano, e mostruoso a tratti. Utilizzare un vecchio registratore in scena per me fa percepire maggiormente la voce come un mistero quale essa è. Spesso durante le prove abbiamo ragionato su una frase di Slavoj Žižek: «la voce non è un parte organica del corpo umano, poiché proviene da un luogo non precisato dell’organismo. Nell’atto comunicativo vi è sempre un effetto da ventriloquo, come se una forza esterna prendesse il sopravvento su di noi, addirittura sullo stesso atto comunicativo».

FF La scrittura di Ligotti non è mai aggressiva, non assale, non vuole travolgere; piuttosto tende a chiudersi, ad attirare verso qualcosa che si sottrae alla comprensione e persino alla percezione. Appunto perché mira a qualcosa che eccede la nostra capacità di rappresentazione, questa scrittura manca quasi del tutto dell’elemento spettacolare. Lo spavento che produce non ha perciò niente di consolatorio, niente di «culinario», si potrebbe dire con Brecht: non è una sensazione che può essere goduta, che si offre come merce, come piacere che può essere consumato. Si tratta piuttosto di uno spavento raggelato, di un’inquietudine sottile e penetrante. Ligotti mira a un effetto di straniamento particolare: vuole farci provare meraviglia di fronte al fatto straordinario e assurdo che esistiamo, «di fronte all’irrealtà monumentalmente macabra della vita», come scrive una volta. Ora, a me pare, che il tuo spettacolo non si faccia prendere veramente da questa filosofia ultrapessimista, che considera la coscienza un’illusione dietro la quale però non c’è più nulla, e l’orrore l’unico momento di verità, di riconoscimento dell’insensatezza dell’esistenza. Questo pessimismo è soverchiato dalla vitalità della tua grafia scenica.
FC Il giorno dopo la prima dello spettacolo ho iniziato a insegnare in Accademia, a Roma, e ho comprato una copia delle Lezioni americane di Calvino da leggere con gli allievi. Calvino inizia parlando della leggerezza. Anche lui parte dal mito di Medusa (non lo ricordavo) e invita a riflettere sul fatto che Perseo affronta Medusa, sì, ma con dei calzari alati. Ecco, credo che questa leggerezza sia presente nel lavoro. Forse è poco ligottiana, ma è il mio modo di affrontare i mostri. Quello che mi interessava era mettere per un momento in discussione la nostra fiducia nella percezione che abbiamo del mondo. Perciò sono partito con quell’esperimento di cui ho detto chiedendo al pubblico di guardare fisso un’immagine colorata che, appunto perché la fissiamo, via via si scolora. Anche Ligotti ci chiede di fermarci in attimo e di chiudere gli occhi e riappropriarci del rapporto col buio e col mistero che avevamo da bambini.
Nottuari
ispirato alle opere di Thomas Ligotti
regia e drammaturgia Fabio Condemi
produzione Teatro di Roma-Teatro Nazionale, LAC Lugano, Teatro Piemonte Europa, Teatro Metastasio di Prato ed Emilia Romagna Teatro ERT–Teatro Nazionale
Roma, Teatro India, 22 febbraio-5 marzo 2023; Prato, Teatro Metastasio, 9-12 marzo; Torino, Teatro Astra, 14-19 marzo
Fotografie di scena: © Claudia Pajewski