Come se regredire fosse inventare

In occasione della personale di Diego Perrone al museo MACRO di Roma, Pendio piovoso frusta la lingua (in corso sino al 19 marzo), che presenta i suoi nuovi lavori ma lancia insieme uno sguardo al suo percorso precedente, l’artista piemontese ha intrecciato un fitto dialogo con Laura Cherubini. Seguendo la logica “strabica” della mostra al MACRO (non una tradizionale «retrospettiva», bensì una rilettura vicendevole dei diversi tempi del lavoro), i due hanno pensato di far seguire alla loro conversazione di oggi una precedente, registrata all’Accademia di Belle Arti di Milano il 16 maggio 2013 con la partecipazione anche di Cloe Piccoli, Giacinto Di Pietrantonio e Rosanna Bianchi Piccoli (e pubblicata in Paesaggio italiano, a cura di Cherubini, Di Pietrantonio e Piccoli, Miami, Fortino Editions, 2014, pp. 72-91).

2023

Il titolo, Pendio piovoso frusta la lingua, è il titolo di un lavoro del 2010 che non è in mostra (nel quale alcune setole verdi disegnavano profili di catene montuose) e allude a una forte pioggia in montagna, come un fenomeno atmosferico in atto, come la descrizione di un evento climatico forte.

La mostra nasce dall’idea di far rivedere le vecchie opere insieme alle nuove, quasi che le une potessero fornire una chiave per leggere le altre e viceversa. Dal dialogo dell’artista, Diego Perrone, con il direttore del museo, Luca Lo Pinto, scaturisce il progetto di creare sculture nuove che si costituiscano come display per le vecchie. Perrone le considera comunque opere a pieno titolo e non mero sistema espositivo: le nuove ospitano le vecchie che trovano così una nuova vitalità.

La scelta delle opere precedenti ha escluso molte opere, anche importanti: anche se si delinea un percorso di lavoro il criterio non è quello dell’antologica, della retrospettiva. Si tratta infatti di corpi di opere che possano funzionare nel nuovo contesto per affinità, eliminando quelle che avrebbero potuto potenzialmente creare una rottura. Si determina così un’atmosfera nuova, “una temperatura che fa da sfondo”, dice Diego (fra virgolette, da ora in poi, sono da intendersi le sue dichiarazioni). Le opere nuove hanno a che fare con lo spazio. Si raccolgono così vari corpi di lavoro: i disegni, i fili rossi tesi, il tavolo-scultura con le opere in vetro. “I miei movimenti nel disegnare sono traiettorie simili all’ampio raggio descritto dal braccio del giocatore di tennis per imprimere forza sulla palla; hanno la precisione marziale, il movimento regolare del polso di chi lancia e riprende continuamente lo yo-yo: forse disegno cercando di copiare il buio”. Nascono così intrecci di segni che coniugano simultaneamente superficie e profondità.

“Il mio intento era mostrare i disegni in maniera scultorea, escono fuori dal muro”. Questi disegni accedono cioè alla tridimensionalità. Anche i fili rossi sono un disegno, un modo molto grafico di disegnare. Sono stilizzati “ma, non so perché, pensavo dovessero assomigliare ad ananas, per realizzare una sorta di giungla di segni, spaziale, esotica”. Una foresta di frutta abitata da oggetti di design realizzati con i fili che si usano per le sedie “Acapulco”.

Si crea così una forma grafica che è un bassorilievo, su cui appendere i disegni. Sul muro c’è un disegno tridimensionale e un disegno sopra il supporto tridimensionale. “In primo luogo avevo il desiderio di far convivere i disegni a penna rossa con dei frutti esotici. Volevo che si creasse una chimica tra loro come succede nelle foreste tra specie vegetali differenti”. Se è vero che ananas e frutti esotici sono disegni, è vero anche quindi, reciprocamente, che i disegni di Diego sono elementi vegetali, frutti naturali. Ma attenzione: amleticamente c’è del metodo in questa follia. Infatti “è richiesta precisione e la ripetizione dello stesso movimento. Una campitura fatta di linee, un’illustrazione organizzata con lo stesso metodo usato per l’avvolgimento di una seduta. Questo modo ripetitivo di tendere fili, nel mio caso, è disegnare”.

Assurdi lucenti e schiuma, 2022, Stampa s getto d’inchiostro su carta fotografica, 100 x 70 cm, courtesy: l’artista, Massimo De Carlo, Milano/Londra/Hong Kong

La profondità messa a nudo

“Il lavoro con il vetro è molto impegnativo, molto complicato, un blocco unico, deve stare cinque settimane in forno… Vuol dire spingere il materiale alle estreme conseguenze”. Ma su quel limite estremo portarci anche la tecnica… Nelle sculture presentate al MACRO “per me è molto importante che siano ognuna un unico blocco di vetro. Puoi guardare dentro la composizione del materiale stesso, non c’è nulla di nascosto, la loro profondità è nuda”. Le puoi attraversare con lo sguardo. “Ognuna di esse è stata pensata come un bassorilievo, ma essendo composte da più tipologie di vetri con colori diversi, la prima cosa che avverto guardandole sono le macchie di colore interne. Questo fa sì che si generi un’ambiguità tra la massa scultorea e l’immagine, che è per sua matura bidimensionale… Nel risultato finale si percepisce una specie di armonia naturale interna del tutto imprevista, originata però da una tecnica meticolosa, una volontà precisa il cui risultato pittorico è valorizzato dalla casualità”. Ma come diceva Francis Picabia “le hazard est logique”, il caso è logico.

Per indicare il processo di così grande rigore della lavorazione del vetro, materiale che non possiede elasticità, Diego stabilisce un paragone con le materie del disegno: “La 6H è la matita più dura, quasi una punta d’argento. Un procedimento estremamente rigido richiede all’artista molta disciplina, non puoi permetterti errori”. Il risultato è una sorta di strano minerale all’interno del quale passa la luce: “mi piaceva metterli in relazione con i vecchi lavori dei buchi”. C’è un vuoto colorato all’interno, i buchi sono molto fisici perché scavati nella terra. “Sono passati vent’anni tra un lavoro e l’altro”, tra i buchi e le sculture parzialmente diafane.

“Il tutto su questo tubo, estrusione di una figura che fa snorkeling. Sopra è come la superficie di un mare molto stilizzato, ma puoi intravedere un subacqueo”. L’opera nuova sostiene le sculture, l’opera nuova è anche e soprattutto un tavolo, una mensola, un piano su cui poggiano le sculture. Il tempo si suddivide in tre momenti ora compresenti simultaneamente: i Pensatori di buchi, le sculture vitree, la lunga lingua del tavolo. “Ho disegnato un sommozzatore che nuota a filo d’acqua con maschera e boccaglio. In un secondo tempo ho deciso di rendere tridimensionale il disegno estrudendolo, cioè ripetendo la stessa forma per trenta metri nello spazio”. È visibile solo all’inizio e alla fine, è fisico per l’aria che passa al suo interno, è una labile superficie di confine tra stato fluido e stato gassoso. “Un orizzonte sul quale è possibile appoggiare le sculture in vetro” (dichiarazione dell’artista). Un orizzonte che disegna un paesaggio esteriore ed interiore al tempo stesso. Un paesaggio del sé.

“Questa mostra è un paesaggio”. Un luogo naturale.

Senza titolo, 2016, fusione in pasta di vetro, 86,4 x 75,6 x 38,7 cm, courtesy: l’artista, Casey Kaplan, NY, foto Andrea Rossetti.

Un amo, e lo spazio abbocca

“Ho fatto in modo che tutto andasse giù, come succede quando nuvoloni incombenti stanno per arrivare”. Diego ha dipinto di nero alcune porzioni di soffitto, ma in obliquo, come se il soffitto scendesse secondo un piano inclinato (il punto più basso è quello con i disegni rossi), mentre una porzione di soffitto sembra scivolare in basso e viene riportata, e in un certo senso proiettata, a terra con il bianco.

Le sculture vitree disegnano elementi naturali diversi, differenti paesaggi che si sovrappongono e si incrociano. In alcune intravediamo un paesaggio acquatico, che sa quasi di barriera corallina. In altre un paesaggio agricolo, quasi pittorico, del Nord Italia. “Pesci e trattori”, sintetizza Diego.

Non è quasi l’artista a decidere come si mescolano i paesaggi, gli intrecci avvengono in modo naturale. “Solo gli orologi sono stati disegnati alla fine. Ci ho buttato sopra la schiuma, poi li ho fotografati con un forte flash, la schiuma tridimensionale va a integrarsi con i segni della matita. Da uno stesso disegno, nello spazio di un minuto avevo due immagini completamente diverse”. Come per le sculture in vetro la schiuma genera un volume trasparente attraverso cui guardare. “La matematica della schiuma ha cambiato forma ai miei disegni che ora sembrano ricoperti di brillanti”.

Caratteristica della fotografia è il gesto del fotografo di saper cogliere l’attimo. Skill del ping pong o del tennis è l’abilità manuale unita alla velocità del pensiero di anticipare la palla, di giocare d’anticipo. La mostra va considerata un tutto unico che abbia una narrazione. Come ogni narrazione c’è infatti un incipit. C’è un video. È da qui che prende avvio il meccanismo della mostra. C’è un bambino che dà un colpo di frusta nel vuoto, è questo che crea il piano della scultura estrusa nello spazio e da lì la Frustata si ripercuote e arriva fino ai buchi.

Nella sala si configura un’opera d’arte unica, totale. “Ho deciso di aggredire il punto più difficile del museo con quella zona rossa”. Perrone riesce a creare corpi di lavoro staccati, ma dialoganti in una simultaneità. “Ho assecondato i muri storti”, dice Perrone: “gli ho lanciato un amo e lo spazio ha abboccato”.

Senza Titolo, 2022, penna a sfera su carta, 184 × 130.5 cm, l’artista, Massimo De Carlo, Milano/Londra/Hong Kong

2013

LAURA CHERUBINI: Diego Perrone, che incontriamo oggi, appartiene alla generazione nata negli anni Settanta, come Massimo Grimaldi che abbiamo visto martedì. Riccardo Beretta invece, che abbiamo ascoltato ieri, è della generazione degli anni Ottanta. Abbiamo già detto che all’interno di questo ciclo di incontri denominato Paesaggio italiano presentiamo uno scalare di micro-generazioni, e che ogni artista decide di proporsi come meglio crede. In questo caso iniziamo noi docenti a fare le domande, e ne abbiamo tante. Comincio io chiedendo a Diego di parlarci di un lavoro che ci unisce molto perché ci abbiamo lavorato insieme, nel 1998, quando lo invitai a Fuori Uso a Pescara, all’ex mercato ortofrutticolo. Fuori Uso è il titolo di una serie di manifestazioni (diverse edizioni sono state curate da Giacinto, alcune anche da me) che si svolgevano a Pescara, in luoghi appunto “fuori uso”. Dopo essere stati in un ex deposito di autobus, nell’ex fabbrica Aurum – dove nel 1995 Giacinto curò una bellissima edizione –, nella ex colonia marina Stella Maris dove io seguii il Fuori Uso dedicato ai giovanissimi di cui parlava Simone lunedì, nel 1998 lavorammo in un ex mercato ortofrutticolo, e qui Diego presentò un video molto bello che si intitolava La periferia va in battaglia, che vorrei farvi vedere.

DIEGO PERRONE: Ho portato del materiale più recente… Però possiamo parlarne.

LC: Volevo farvelo vedere, ma ve lo posso anche raccontare. Era un video molto bello in cui si vedevano due persone anziane – i nonni di Diego – seduti nel cortile di una casa in una situazione di riposo, di tranquillità, rilassati. Addirittura Diego ci ha raccontato: “Mio nonno in quel momento dormiva”.

DP: Eh sì.

LC: Si vedono alcune tartarughe che passano davanti ai due nonni. Il titolo è bellissimo. Inizio con una domanda proprio sui titoli, perché quelli di Diego sono sempre molto particolari, abbastanza lunghi, complicati, difficili da ricordare, però hanno un senso e, come dice Diego, “in fondo ogni lavoro si tira il proprio titolo”. In questo caso il titolo – La periferia va in battaglia – tra i meno complicati e lunghi ma molto bello, esprime l’idea che nel mondo globalizzato non tutti ce la fanno a tenere la velocità del centro. È un lavoro sulla lentezza e anche sul nuovo mondo fatto a chiazze dove, se ti allontani dalle grandi città – ricordo quello che Diego mi disse –, anche solo pochi chilometri fuori Londra o Berlino puoi trovare dei mondi completamente diversi. E questa è la forza della periferia, forza data dall’essere statica, dall’essere lenta, dall’avere un’altra velocità rispetto al centro. Questo mondo a velocità differente era quello che Diego ci proponeva in questo lavoro. Allora la mia prima domanda è: perché “la periferia va in battaglia”?

DP: È passato veramente tantissimo tempo da allora…

LC: Ma rispondere a queste domande è anche un modo per dare sinteticamente un’idea di percorso del tuo lavoro.

DP: Sì, certo, e quindi diciamo che in quel periodo era un argomento che mi interessava molto. Dopo, dato che non ho questo video, ve ne farò vedere un altro più recente in cui c’è sempre un’anziana signora che dipinge…

Allora quello della periferia era un argomento che sentivo molto, anche perché, essendo sempre vissuto in campagna fino ai sedici, diciotto anni, ho una formazione piuttosto rurale. Dopo aver vissuto parecchi anni a Milano ho sentito che quello era un luogo, un punto di forza sul quale formare il mio lavoro. In quel momento studiavo all’accademia e molta parte della mia ricerca si sviluppava proprio intorno alla mia idea sulla periferia. Ma, come diceva Laura, per me non si trattava di parlarne in modo letterale, quindi da un punto di vista documentaristico o citazionista, ma di riviverla nuovamente. Poi le cose sono molto cambiate, ma allora mi sembrava vitale rimetterla in scena, più o meno come una specie di metafora. In quel periodo mi interessava usare la camera fissa per riprendere una scena immobile, quasi fosse una specie di dipinto. La composizione era strutturata in una maniera molto semplice, anche perché non avevo mezzi e quindi volevo che le cose fossero banalmente espresse più da un punto di vista comunicativo che non tramite la raffinatezza dell’immagine, o della pellicola, o di altri lussi legati a una produzione che comunque non potevo permettermi e che, forse, non mi interessava granché. Quindi ho messo lì due sedie, ho fatto sedere i miei nonni e, anche se il video dura solo tre minuti, li ho fatti stare lì due ore e mezzo, così che a un certo punto loro hanno finito per ambientarsi completamente in questa scena, diventando veramente parte di un paesaggio che si intravedeva appena. Dietro c’era un muro di una casa di campagna, però sentivi l’atmosfera rurale perché un po’ di paesaggio si vedeva. A un certo punto le tartarughe passavano davanti ai nonni creando una scena che in un certo senso a me pareva piuttosto polemica, dato che il titolo è La periferia va in battaglia, mentre invece c’erano i nonni che dormivano. Oltre alla lentezza e alla poeticità della scena c’è anche un modo di immaginare una periferia che è immobile. È sicuramente molto poetico immaginare la periferia immobile però è anche tragico, se ci pensi. È una tragedia perché le cose immobili sono spesso facili da colonizzare, sono fragili.

È come se non ci fosse una consistenza in grado di difendere sé stessa, per cui resta così, semplicemente in balia di quello che può succedere. È infatti vero, come diceva Laura, che se esci dalla città, e ad esempio ti fai mezz’ora di macchina fuori Londra, trovi un universo completamente diverso, che comunque si sta omologando sempre di più.

I pensatori di buchi, 2002, stampa lambda montata su alluminio, 80 x 80 cm, l’artista, Massimo De Carlo, Milano/Londra/Hong Kong

CLOE PICCOLI: Da ciò che ha detto Diego emerge che questo titolo, La periferia va in battaglia in fondo vuole essere in qualche modo radicale, antagonista. Io credo che il lavoro di Diego Perrone in molti casi sia antagonista.

LC: Parliamo di quindici anni fa…

CP: Certo, parliamo del lavoro del 1998-99, di Diego e di un’intera generazione a cui appartiene ad esempio anche Simone Berti, che abbiamo incontrato lunedì. Un altro dei tuoi lavori che secondo me è molto interessante a questo proposito, parlando di antagonismo, è La terra piatta è una dimensione lirica del luogo come se regredire fosse inventare. Come La periferia va in battaglia anche questo titolo, e anche questo lavoro, si propone nei confronti della realtà con una visione del mondo tutt’altro che funzionale e razionale. Voi e tu in particolare non aderivate, non aderite tuttora a un modello di pensiero convenzionale, funzionale, razionale, ma con queste opere tu proponi un altro modo di vedere la realtà: attraverso la lentezza, la disfunzionalità. Se ben ricordo nella Terra piatta… c’è il tuo amico Dario che aveva lievi problemi di autismo e che cercava di montare una capanna. La sua difficoltà pratica per te qui diventa una modalità interessante e in un certo senso creativa, e infatti nel titolo dici “come se regredire fosse inventare”. Questi tuoi lavori iniziali, ma tutti i tuoi lavori, mi sembra, muovono una critica radicale a un modo di pensare comune. È una critica espressa attraverso l’ironia, la lentezza, la disfunzionalità. Trovo che questa, diciamo così, opposizione morbida, sia davvero radicale.

DP: Sì, in effetti… Dario era per me una figura abbastanza carismatica… Noi ci conosciamo da molto tempo, abbiamo fatto il liceo artistico insieme e quindi non era una persona a me estranea, recuperata sul posto, ma eravamo amici. E ricordo che lui al liceo viveva in una dimensione sperimentale molto più di me, perché era molto più colto, soprattutto in fatto di musica… Un’anomalia, la sua, molto sperimentale proprio per via del suo carattere, del suo modo di relazionarsi al mondo. Sulle cose pratiche aveva dei problemi serissimi, e io gli ho chiesto proprio di fare una cosa assolutamente pratica: costruire una capanna che fosse, per me e per lui, anche un riparo, una sorta di mantello, un filtro, o addirittura proporre una metodologia costruttiva inedita. Beh, simbolicamente era questo, ma lui non riusciva proprio a fare le cose di base. A un certo punto gli ho chiesto di che tipo di materiali avesse bisogno per costruirla, e in quale luogo la volesse costruire, e alla fine ci siamo ritrovati in un posto dove la terra era piuttosto dura, solida. Dario mi aveva chiesto delle canne e invece di legarle le voleva piantare, voleva tenerle insieme con chiodi e martello. Io ho fatto molte riprese in quella fase che non ho mai usato, ma erano piuttosto interessanti perché vedevi proprio il suo vivere in una dimensione altra, una cosa praticissima diventava addirittura estetica, quindi lui era come un architetto marziano. Alla fine siamo dovuti andare in riva a un fiume, perché lì c’era la sabbia ed era quindi più facile piantare le canne a terra, e perlomeno stavano in piedi. Così facendo Dario ha sviluppato una specie di architettura super primitiva, di base, che non aveva tre dimensioni ma ne aveva solo due, per cui aveva fatto un treppiede di canne, un altro treppiede per farla stare in piedi, e poi aveva messo una specie di architrave. Dopo di che, insistendo, ho cercato di convincerlo ad andare avanti e la capanna ha assunto una forma veramente incomprensibile, fino a quando è crollata. Crollando, sotto è rimasto un vuoto, lui ha voluto provarla e vi si è messo sotto, e così finisce il video. Quello che più mi ha sorpreso nell’agire di Dario era appunto questa evasione di fronte a una cosa molto pratica e manuale, che è quindi espressione del suo immaginario. Uno tra i miei primi video è stato quello con le due oche, un’idea che mi è venuta un po’ per caso…

LC: Infatti, era il lavoro che volevo citare io.

DP: Volevo riprendere le oche con la telecamera ma non riuscivo a farle stare ferme. A un certo punto ho lasciato la telecamera accesa e me ne sono andato in un’altra stanza. Le oche, per il semplice motivo che erano al chiuso e non avevano intorno le loro cose normali, vitali da fare – tipo raspare per terra, o mangiarsi un sassolino – stranamente, come i miei nonni, si erano addormentate. Però dormendo avevano assunto delle posizioni simmetriche; e questo perché – io penso – guardavano in camera, nel monitor. Quindi, quando sono ritornato ho trovato questa sorpresa, ho visto il girato di mezz’ora in cui le oche si muovevano lentamente in maniera simmetrica fino a che tutte e due hanno chiuso gli occhi e si sono messe su una sola zampa – non chiedetemi perché, ma le oche quando si addormentano tirano su una zampa e la mettono sotto l’ala. Ricordo che al tempo uno dei lavori che mi aveva più impressionato era quello di Gino De Dominicis in cui un signore down stava seduto su una sedia…

LC: È un’opera del 1972 e s’intitola Seconda soluzione d’immortalità (l’universo è immobile).

DP: Riguardando insieme questi lavori, osservando sia gli occhi delle oche, sia i particolari costruttivi della capanna, scopri un mondo altro, molto vicino, ma inafferrabile, estremamente intuitivo e affascinante. Questo era quello che facevo, allora… Il lavoro con le oche era stato presentato in Viafarini nel 1995, in una mostra curata da Alessandra Pioselli intitolata Fenis. Era una doppia personale, c’eravamo io e Nada Cingolani.

LC: Nada era tra gli artisti che abitavano in via Fiuggi, di cui abbiamo parlato con Simone Berti. Tutti i lavori di questo periodo seguono un unico filo, dalle oche al lavoro della capanna di cui parlava Cloe, a La periferia va in battaglia, al lavoro presentato nel Fuori Uso dei giovanissimi, sempre a cura mia, nel 1997 (i personaggi dei cartoon, dei fumetti manga – ce ne era anche uno di Walt Disney –, venivano modificati, fatti arrossire), a La stanza dei cento re che ridono (un grande lavoro in cui facevi sorridere cento re, presentato alla galleria Massimo De Carlo, nel 1999). Tutte le opere di questa prima fase ci parlano di un mondo diverso. Quello che tu cercavi – ne abbiamo parlato diverse volte, anche in varie interviste – era cogliere un mondo diverso dove esprimevi qualcosa di inespresso, per esempio attraverso la modifica estetica del rossore nei personaggi dei fumetti o del sorriso nei cento re. Uno stato d’animo interno arrivava a modificare l’estetica dell’aspetto esterno: c’era sempre questa stessa caratteristica. Mi ricordo che, parlando del lavoro delle oche, mi avevi detto “era come avere la chiave d’accesso”…

DP: Esatto.

LC: La chiave di accesso a un loro mondo. È proprio questo che Diego sta cercando in quegli anni. Giacinto se li ricorderà bene questi lavori… vuoi dire qualcosa su questa fase dei lavori di Diego?

GIACINTO DI PIETRANTONIO: Volevo chiedere, a proposito del lavoro in cui si costruisce la capanna, se lo consideri anche, in qualche modo, una sorta di tuo autoritratto. Tu hai parlato di questo tuo amico, incapace a fare delle cose pratiche ecc., ma anche tu nella vita sei, o ti comporti, come uno svampito che non ha il controllo della realtà, come si dice, non so “se ci fai o ci sei”. Io, in questo lavoro, ci ho visto anche una sorta di autoritratto. Poi, volevo che tu parlassi anche di cosa è per te il tempo, perché in tutti i tuoi lavori il tempo è sempre molto importante.

DP: Il tempo?

GDP: Sì, la dimensione del tempo…

LC: Nel video La periferia va in battaglia si vede bene.

GDP: Non solo per la presenza delle tartarughe, ma anche per la presenza dei vecchi… Per un periodo, nel tuo lavoro, hai utilizzato molto gli anziani che rappresentano una dimensione del tempo, non solo in La periferia va in battaglia, ma anche in Come suggestionati da quello che dietro di loro rimane fermo, che sono delle grandi fotografie in cui dei vecchi tengono in mano delle grosse corna di cervo, di alce.

LC: Il lavoro presentato a Manifesta nel 2000.

GDP: E poi… tutto questo lavorare sulla periferia, non solo come luogo geografico nel senso di paesaggio fisico, ma anche come luogo di marginalità. Gli stessi anziani sono persone che sono in periferia, in campagna, ma anche in centro – anzi forse più in centro che in periferia –, in una condizione di marginalità. Quindi nel trattare questi soggetti, questi luoghi che vanno scomparendo, in qualche modo, tu tocchi una serie di aspetti che mi fanno venire in mente anche dei riferimenti a Pasolini.

DP: Allora, in ordine: “Ci faccio o ci sono?”. Chiaramente ci sono perché è quello che mi interessa, mi interessa appunto esserci. Leggevo un po’ di anni fa un’intervista a David Lynch dove gli chiedevano, parlando dell’orecchio che viene trovato nel giardino in Blue Velvet, “ma perché l’orecchio?”, e David Lynch diceva, “a me non interessa cosa significa l’orecchio, a me interessa proprio l’orecchio”. E allora, in questo caso, ti rispondo che proprio io ci sono, non ci faccio.

GDP: Sei autentico.

DP: Sì, io lavoro con una partecipazione totale… Secondo me, molti artisti lavorano così, è nella partecipazione estrema che in qualche modo tu dichiari te stesso, e a un certo punto diventi anche un bersaglio perché ti mostri, ti manifesti, e non parli di te stesso, ma sei te stesso. Riguardo al tempo: sì, allora mi interessava parecchio, era una cosa che mi riguardava, mi piaceva, mi sembrava parecchio poetica e parecchio polverosa. Adesso però è una cosa che guardo quasi in una maniera repellente, nel senso che se vedo un vecchio che ho usato nelle mie immagini mi ritorna la frontalità di quell’immagine, la frontalità di quel soggetto che in qualche modo comunica, non solo perché ha le corna in mano, ma comunica anche con la faccia, con la sua presenza, e quindi mi viene da pensare più al soggetto che al tempo. Anche I cento re che ridono è un lavoro vecchissimo, e se lo analizzo adesso mi rendo conto che non era tanto il tempo che mi interessava ma la storia, che comunicava qualcosa di molto preciso. I re ridono e quindi esprimono una situazione psicologica, è una situazione momentanea, che mi sembrava e mi sembra molto interessante innestare sulla storia. Per cui non è tanto il tempo che passa e la poetica del tempo a interessarmi, ma l’immutabilità delle cose che resistono al tempo. Sono la presenza del soggetto e la sua frontalità comunicativa.

LC: Giacinto ci aveva visto un riferimento a Pasolini.

DP: Pasolini, sì. Vorrei aggiungere una cosa a proposito dei manga che arrossiscono e dei re che sorridono… Sono stati un’occasione per imparare un mestiere, il che, devo dire, mi interessa molto… Ho imparato a usare Photoshop, e allora non era così convenzionale… L’ho fatto con un computer che aveva, mi sembra, un hard disk da un solo gigabyte. Niente! Adesso i sistemi operativi pesano molto di più. Per cui era molto complicato, si impallava in continuazione. Insomma, ci ho messo quasi un anno… pasticciando, ho imparato a usarlo. Cosa che mi è tornata utile adesso, per l’ultima mostra che ho fatto a New York. Ho realizzato parecchi ritratti di una scultura di Adolfo Wildt, che poi ho fatto ad aerografo sul muro e su dei teli di PVC nero morbido. Non avevo mai utilizzato l’aerografo in vita mia, e anche in questo caso ho dovuto imparare a usarlo, e devo dire che mettermi nella condizione di imparare qualcosa, un mestiere, una nuova tecnica, anche se in maniera naïf, autonoma, da autodidatta, è una cosa che mi sta interessando veramente molto.

Maschera dell’idiota (Adolfo Wildt), 2013, aerografo su PVC, 100 x 130,8 cm, courtesy: l’artista, Casey Kaplan, NY.

CP: Giacinto ha introdotto il tema del tempo. A questo proposito, pensando ai lavori di cui abbiamo parlato, del tuo primo periodo, mi vengono in mente alcuni aggettivi come ancestrale, atavico, primitivo. Le corna, la tartaruga che è un animale antichissimo… che cosa ti interessa di questo aspetto, o che cosa ti interessava allora?

DP: Non era tanto il simbolo che mi interessava, quanto rimettere in scena una metafora. Le corna le ho anche lavorate: ne ho preso una, l’ho fatta a pezzi e ne ho intagliato un orecchio umano, come si fa con i manici dei coltelli. Quindi ho fatto anche un’operazione artigianale, scultorea. Non so cosa mi interessa adesso di quel materiale, ora mi piacerebbe di più pensare alla preistoria della plastica, fare qualcosa in falsa tartaruga, per esempio in celluloide – che è poi la materia prima con la quale è nato il cinema. Ora mi piacerebbe di più utilizzare questo tipo di materiali, non per una questione di purezza, o della garanzia che mi dà un materiale naturale, ma nel senso che si può ormai immaginare anche una preistoria della plastica.

CP: Certo, ma più che al materiale, io pensavo proprio alla stratificazione storica di queste corna che sembrano…

DP: Ricordo che il materiale mi affascinava molto perché cresceva, si stratificava col tempo e secondo me aveva un carattere, era un elemento che accresceva la personalità alle persone fotografate, le rendeva raffinate e importanti.

LC: Ricordo anche che avevi fatto un lavoro in cui ti eri fotografato con una gallina sulla testa.

DP: Sì, era il mio modo di sentirmi uovo, alla fine. Covato da una gallina.

LC: Abbiamo visto alcuni dei primi lavori. Vogliamo vedere ora questo lavoro recente su Adolfo Wildt? Ricordiamo anche che Wildt è stato professore in questa accademia – non so se tu lo sapevi, Diego…

DP: Ah sì?

LC: È stato professore di Melotti, di Lucio Fontana, di Broggini e di molti altri artisti molto importanti; era il carismatico e mitico docente di scultura dell’Accademia di Brera… Volevo dire anche un’altra cosa: tu prima hai parlato di David Lynch, di Blue Velvet, del lavoro con l’orecchio. Effettivamente tu hai fatto un lavoro con l’orecchio, e se ce l’abbiamo, poi lo facciamo vedere…

 DP: Sì, più di uno.

LC: Questo è l’ultimo che hai fatto?

DP: Sì, è una mostra che è finita qualche settimana fa…

LC: Dov’era, a New York da Casey Kaplan?

DP: Sì. Il soggetto è questa faccia, questa maschera fatta da Wildt che è esposta al Vittoriale. Sono andato a Roma e l’ho fotografata. L’ho vista per caso e ho fatto delle foto a bassa risoluzione, da turista, con il cellulare, piene di riflessi perché era dentro una bacheca, sono foto veramente amatoriali. Dopo di che, rielaborando un po’ le immagini ho cominciato a dipingerle, – diciamo così – a sprayarle ad aerografo, e quindi quella che vedete qui adesso è una riproduzione fatta da me proprio con l’aerografo. Le ho dipinte su teli neri in PVC perché questo materiale morbido era la cosa più muta e digitale che avessi trovato; è un nero che ti inghiotte, non ha riflessi, è veramente neutro, e queste facce compaiono un po’ così, come dei fantasmi. Ecco questa, per esempio, era fatta da una foto dove c’era un riflesso…

CP: Quanto sono grandi, Diego?

DP: Siccome era una mostra personale, ho pensato che dovesse essere giusto fare alcuni pezzi piccoli, altri grandi, lavorando su un rotolo. Il rotolo è alto un metro, e il lavoro si sviluppa srotolandolo: alcuni teli sono anche di dieci metri, altri sono lunghi un metro e mezzo; in tutto direi che ho usato una trentina di metri quadri di PVC, e due o tre rotoli, più o meno. Mi piaceva avere un’installazione di tipo vagamente strutturalista… Erano installati come una specie di griglia nello spazio, i pezzi grandi sulle pareti lunghe, quelli piccoli sulle pareti corte. Erano fissati semplicemente al muro con dei chiodini e avevi proprio il senso della morbidezza del materiale. Si inizia sempre lavorando a un soggetto – complicandosi la vita – da un punto di vista linguistico, cercando di svelarlo il più possibile, cercando di renderlo linguisticamente appropriato, ma poi alla fine – come sempre mi succede – le cose ti sfuggono un po’ di mano e diventano dei soggetti altri. In questo caso è venuta fuori una mostra di facce che ridono, piuttosto drammaticamente, anche perché a questa scultura – come vedete – manca la mandibola; in origine era una fontana da interno. Ho trovato interessante scegliere un soggetto, cercare di rappresentarlo linguisticamente nella maniera più efficace possibile: una caratteristica di Wildt era quella di avere le superfici iperlevigate, e quindi lavorando con l’aerografo ho potuto ottenere facilmente un effetto di luci che scintillano – diciamo –, che è un effetto abbastanza classico, molto popolare nell’uso dell’aerografo. Poi, alla fine, ho lavorato in una maniera piuttosto pop, innestandomi su una tradizione di scultura dei primi del Novecento italiana, appunto perché Wildt era una figura simbolo (era stato anche maestro di Fontana, Melotti), ma facendolo alla maniera – come dire – di Paul McCarthy quando lavora sull’iconologia americana o di Jim Shaw che trasforma, da illustratore, le cose che lo interessano. In questo caso, mi interessava innestarmi sulla cultura italiana “alta”.

I pensatori di buchi, 2002, stampa lambda montata su alluminio, 80 x 65,92 cm, l’artista, Massimo De Carlo, Milano/Londra/Hong Kong

LC: Abbiamo visto le immagini di Come suggestionati da quello che dietro di loro rimane fermo, con gli anziani che reggono questa sorta di trofeo di corna di cui ha parlato anche Giacinto, e tu hai detto, “ora come ora sarei interessato più che agli aspetti a cui ero interessato prima”, cioè a tematiche come la lentezza, il tempo, “sarei interessato invece alla frontalità del soggetto”. Mi sembra che questa frontalità del soggetto in questi lavori esposti a New York sia evidente; e il fatto che questa maschera si pieghi a un sorriso che è anche tragico – come tu dicevi – forse si riallaccia, ma in modo diverso, riscoprendone altri aspetti che allora non sembravano dominanti, a lavori come quelli dei cento re e degli anziani con le corna.

DP: Sì, diciamo che ho lavorato su un soggetto – la maschera – che esisteva già. Ho cercato di lavorarci nella maniera più analitica possibile, quindi facendo delle foto da più punti di vista; il fondo nero è come un fondale 3D di un computer. Ho usato una tecnica nel modo migliore possibile per raggiungere un risultato di conoscenza proprio del soggetto… Sì, probabilmente – come dicevi tu – quello che interessa a me è la frontalità, ma in questo caso, anche se la maschera esiste già come scultura, il soggetto diventa nuovo e estremamente indagato nel dettaglio – questo era quello che mi interessava, oltre naturalmente al discorso che facevo prima sull’idea di pop che questo tipo di linguaggio – l’aerografo – si porta dietro. È stato un po’ come andare a rielaborare una sorta di retorica della scultura. Anche se io ho usato un altro mezzo, mi sono vagamente trovato nella stessa situazione di uno scultore; cioè, ho capito questa scultura quando sono andato a ricopiarla attraverso il filtro dell’immagine, del riflesso ecc., però è fatta di linee curve quasi incomprensibili, non riesci ad afferrarla e allora è come se, usando questa tecnica, fossi riuscito a capire come veramente è stata fatta, che tipo di rielaborazione Wildt aveva attuato su una cosa estremamente solida come il marmo. È stato veramente molto interessante, perché mi ha permesso di rimettermi nella condizione di Wildt, anche se ovviamente con tempi e metodi e situazioni diverse. Questa è stata la mia esperienza, è stato talmente coinvolgente… e probabilmente c’è ancora molto da capire, da mettere in discussione, da rielaborare…

CP: Il discorso che hai fatto su quest’ultimo lavoro è molto interessante, e mi riporta a un’altra tua opera, molto diversa, che è Vicino a Torino muore un cane vecchio. L’anno scorso, durante una lezione tenuta nella mia classe in accademia, ci avevi raccontato che spesso ti interessa utilizzare delle tecniche che conosci poco, e che, in quel caso, avevi inventato un cane utilizzando la tecnica 3D. Avevi riprodotto in 3D un cane che moriva e ci avevi detto: “Lavorando con questa tecnica, io ho imparato ad usarla, ho lavorato con un tecnico che non la conosceva fino in fondo, quindi quell’esperienza mi ha permesso di imparare qualcosa di nuovo”. Questo da una parte mi ricollega ai tuoi lavori precedenti, come quando dici nel titolo del primo lavoro che regredire è quasi come inventare, dall’altra parte mi riallaccia a quest’ultimo lavoro di cui dici, “io usando questa tecnica ho capito come lavorava Wildt”. Mi sembra che il tema della tecnica sia centrale sempre, ma adesso in particolare.

DP: Quella era una situazione interessante perché io di 3D non ne sapevo granché, inoltre ho lavorato con questo ragazzo completamente autodidatta che sapeva usare poco il software. E allora cosa succedeva: quando avevamo un problema di qualunque tipo lui non lo risolveva in maniera corretta ma aggirava l’ostacolo – come probabilmente fanno quasi tutti – senza far ricorso agli studi professionali. Gli studi certamente ti risolvono il problema, ti garantiscono un prodotto finito perfetto tecnicamente, però meno espressivo. In quel caso, invece, di garantito non c’era niente, ci abbiamo messo probabilmente il triplo del tempo però, facendo così, l’estetica era meno iconica del digitale convenzionale, l’immagine era diventata iperpittorica, trovando soluzioni alternative. Io mi sedevo vicino a lui, sceglievo una soluzione invece che un’altra, ed era tutto sballato – quindi da un punto di vista dell’animazione era scorretto –, ma uscivano fuori delle particolarità e delle luci e delle texture veramente interessanti, e fino a un certo punto casuali. Si è dato un valore aggiunto che ha cambiato completamente il senso… Come al solito, io parto da una cosa e poi finisco in un’altra lavorandoci, perché probabilmente ormai mi trovo in una situazione per cui non mi basta realizzare un’idea. L’idea è solo il punto di partenza, un pretesto, e su quella poi mi innesto per sviluppare il lavoro. Ultimamente ho uno studio, per cui mi è venuta più voglia di lavorare manualmente. Le vicende della vita cambiano il tuo approccio al lavoro, se hai uno studio ti viene probabilmente più voglia di manualità, non so, di usare di più la fisicità delle cose.

CP: È molto interessante, se non sbaglio stai parlando dell’invenzione.

DP: Sì, ti inventi un linguaggio, in un certo senso, che nasce magari per caso, ma con un’estetica diversa.

CP: Certo! Perché, come hai detto, “da un punto di vista dell’animazione era scorretto”, però dal punto di vista dell’invenzione forse era il punto di rottura che ti ha permesso di andare oltre. Ora hai anche detto, “l’idea mi serve per iniziare”. Ti domando, iniziare a inventare?

DP: Se fossi stato al lavoro con una persona più professionale, probabilmente sarei stato in una situazione più corretta, ma molte cose me le sarei perdute, questo è chiaro.

LC: Vorrei dirvi qualcosa su questo bellissimo lavoro, Vicino a Torino muore un cane vecchio. Era stato presentato alla Biennale di Venezia del 2003, diretta in quell’anno da Francesco Bonami. Massimiliano Gioni, che è il direttore dell’attuale edizione della Biennale di Venezia ma allora era un giovane critico, curava una sezione che si chiamava La Zona (un padiglione progettato da un gruppo di giovani architetti, gli A12), e aveva invitato un gruppo di giovani artisti italiani, tra cui Diego, proprio con questo lavoro – che poi, se non sbaglio, fu ripresentato due anni dopo, nel 2005, in una mostra personale a Torino alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, e poi a Londra alla Whitechapel.

Senza Titolo, 2022, penna a sfera su carta, 140 x 100 cm, l’artista, Massimo De Carlo, Milano/Londra/Hong Kong
 

GDP: Diego, mi piacerebbe che tu raccontassi il viaggio in Italia fatto insieme a Christian Frosi, un lavoro che è durato a lungo.

DP: Sì, con Christian abbiamo iniziato un po’ per caso, avevamo una mostra da fare insieme… ci avevano messo a disposizione, a Torino, uno spazio gigantesco in disuso, e da lì è iniziata la nostra collaborazione. A un certo punto, dato che ci eravamo trovati molto bene a lavorare insieme ci siamo detti, “facciamoci un giro in Italia”. Abbiamo preso la macchina, percorso seimila chilometri, cercando negli spazi non profit le realtà off che c’erano in quel momento. Molte di quelle realtà ora hanno già chiuso, altre nuove se ne sono aperte… È un’operazione su cui abbiamo poi realizzato una mostra in uno spazio non profit di Trento, e che poi ha avuto la sua conclusione naturale con Lido, a Torino, un piccolo festival dove abbiamo radunato alcune realtà che ci sembravano interessanti – in base naturalmente al budget che avevamo a disposizione e alle possibilità che c’erano. E sì, il paesaggio italiano l’abbiamo trovato…, fai cento chilometri e tutto cambia, cambia la cultura, cambiano i cibi, cambia la metodologia del pensiero.

CP: Che è un pregio.

DP: Sì, non lo so… come potete vedere anche in questi giorni osserviamo un’Italia estremamente disunita che non riesce ad amalgamarsi in un qualcosa che la rappresenti. Comunque, noi abbiamo vissuto delle esperienze bellissime, abbiamo incontrato delle realtà che si impegnano nel proprio territorio, senza avere la necessità di andare per forza in città più catalizzatrici. Abbiamo incontrato un’Italia nuova proprio tra quelli che lavoravano nella loro periferia, informati e per nulla emarginati, con splendidi programmi, molto propulsivi… Per cui è stata un’esperienza magnifica. Sì, si poteva fare molto di più, ma io spero che ne avremo ancora la possibilità.

LC: È molto interessante questo progetto di viaggio in Italia con Christian Frosi, che ha introdotto Giacinto Di Pietrantonio, anche ai fini del nostro discorso sul “paesaggio italiano”. Però io ricordo che in Diego c’è anche un’altra accezione del termine “paesaggio”. Già anni fa, quando parlavamo dei suoi primi lavori, in particolare del lavoro delle oche, e di questi lavori che abbiamo visto prima, Diego, parlava di “paesaggio interiorizzato”…

DP: Probabilmente è interiorizzato perché legato all’esserci, no? Per cui è intuitivo, spontaneo, sì. Io mi sento una persona piuttosto interiore.

CP: Ecco, sempre a proposito di paesaggi, un altro tuo lavoro, che è anche un paesaggio, è I pensatori di buchi. In questa opera è presente sia la tua fatica fisica nello scavare i buchi – quindi una cosa molto concreta e corporea –, che un’astrazione, perché in fondo il buco è un vuoto. Mi piacerebbe che lo raccontassi dal punto di vista del paesaggio. E poi ricordo un altro lavoro molto legato a I pensatori di buchi, che è La fusione della campana.

LC: Anche La fusione della campana era stata esposta nella mostra di Torino insieme a Totò nudo e a Vicino a Torino muore un cane vecchio. Ed è un’opera molto interessante, portata anche in varie mostre all’estero, ad esempio a Bordeaux, ma in una forma diversa rispetto a quella di Torino.

DP: I pensatori di buchi è stato esposto a New York nel 2002, successivamente alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. C’era il desiderio di fare qualcosa che mi rappresentasse, ma che fosse anche piuttosto forte. Avevo un po’ di paura nel fare una mostra lì, lo spazio a New York era piuttosto grande. La reazione è stata quella di scavare nella terra per un anno, tanti buchi nello stesso luogo: è così che è nato questo lavoro, I pensatori di buchi. Ho scavato sei/sette buchi profondi sei/ sette metri, alcuni conici, altri diagonali rispetto alla terra, altri invece dritti. E poi, a un certo punto – senza sapere all’inizio che tipo di lavoro sarebbe stato –, probabilmente a metà del percorso, mi sono reso conto che poteva essere una serie fotografica. Mi piaceva che diventasse un po’ come un set – diciamo –, e da questi buchi, e dalla fisicità della terra mi interessava ricavare delle ottiche, delle inquadrature, degli scorci… Poi, non contento, ho cominciato a lavorare anche su dei soggetti che erano appunto “i pensatori di buchi”, cioè delle persone che comparivano sul bordo.

LC: Mi ricordo che tu avevi detto che, inizialmente, per un primo progetto, avevi pensato alla “condizione di un verme che scava nella terra”.

DP: Quello era un altro vecchio lavoro…

LC: Un vecchio progetto da cui nasceva un po’ questa idea…

DP: Un vecchio progetto che è fallito miseramente perché era impossibile da realizzare. La mia idea era quella di fare un buco circolare perpendicolare alla superficie della terra, con un’entrata e un’uscita, non orizzontale ma perpendicolare, quindi in profondità, come se ci fosse stata una specie di talpa che scavava un cerchio perfetto uscendo poi fuori da un’altra parte. Sì, il desiderio era piuttosto astratto, ma questa era un po’ l’idea di partenza… In teoria doveva essere una scultura, ma poi si è trasformata in una specie di azione, neanche poi molto documentata perché era quasi intima. E quindi, per realizzare il tutto, a un certo punto, ho dovuto applicare un minimo di progettualità, e allora ho scavato una fossa di due metri di profondità, perché volevo che la circonferenza di questo buco nella terra fosse più o meno di due metri. Dopo di che ho messo un tubo di plastica che formava una curva, all’interno. Ho coperto tutto e, con uno strumento da tiro, ho agganciato il tubo e sono riuscito a sfilarlo dalla terra. A quel punto avevo due buchi che uscivano dalla terra, collegati sotto; per capirci: se buttavo il fumo di una sigaretta da una parte, usciva dall’altra. Guardando questo minimo effetto mi sono detto: “però, se io potessi asportare dalla terra questo buco sarebbe bellissimo”, cosa naturalmente impossibile. Allora ho cominciato come un deficiente a scavare tutto intorno pensando: “cerco di avvicinarmi il più possibile al buco, cercando di asportare la terra intorno”. E per fare questo avevo bisogno di consolidare la terra sparando fuoco e aria all’interno, l’ho fatto per un giorno intero con dei compressori, dei cannelli ossidrici per fare in modo che la terra si sciogliesse un po’ – la parte silicea, la parte sabbiosa, intendo – e formasse una specie di cristallizzazione interna che fosse autoportante. Naturalmente, potete immaginare… due metri di diametro… solo il peso di questa sorta di ciambella… impossibile. Fatto sta che, fatta questa ciambella scavando tutto intorno, durante la notte è piovuto ed è crollato tutto.

LC: Anche lì, come con la capanna!

DP: Infatti, come diceva Giacinto, “ma ci sei o ci fai?” In effetti, come con la capanna… Ma alla fine è nato I pensatori di buchi. Mi sono rimesso a scavare e il lavoro è diventato una serie fotografica di una decina di foto dove mi è piaciuto che venisse fuori l’atmosfera di un luogo che è stato estremamente lavorato, per quasi un anno. E, non contento, sono comparse poi anche queste persone che avrebbero dovuto reagire all’impossibilità di pensare un buco, in una maniera piuttosto schizofrenica. Io non sapevo come fare, e allora ho pensato di metterli in relazione a queste voragini scattando delle foto, caricando il contrasto il più possibile, in modo da creare un’atmosfera piuttosto noir, oltre che fisica. Comunque, in questo lavoro, la relazione tra una forte fisicità e un vuoto è intangibile. Ho poi stampato le foto in dimensione varie: dai 150 x 126 cm ai 40 x 30 cm. E quindi le stanze della galleria erano abbastanza mosse da questi vari formati e da queste immagini piuttosto accattivanti della terra e dei personaggi. Poi, in un’altra stanza c’era un video con due persone in macchina dove, a un certo punto, lui tagliava l’orecchio a lei.

LC: È il lavoro a cui mi riferivo quando parlavamo dell’orecchio di David Lynch.

DP: Era nella stessa mostra. Mi interessava proprio la relazione tra i due lavori: anche nel video c’era un’immagine estremamente fisica e organica, e come nel caso delle maschere di Wildt, anche qui ho cercato di fare una specie di indagine, di studio, in questo caso, dell’effetto speciale. Siamo infatti andati negli studios, abbiamo girato con le attrezzature del cinema – anche se si trattava di un video – e abbiamo ricostruito questo effetto speciale che io ho voluto seguire da molto vicino: ho chiesto che l’attore facesse il taglio dell’orecchio come una specie di atto d’amore e di coraggio, però non da professionista ma come uno che aveva paura di fare questa cosa, quindi caricandolo il più possibile da un punto di vista psicologico e umano, cercando però di non nascondere l’effetto speciale, che – devo dire – era fatto molto bene. Era abbastanza repellente perché si vedeva proprio l’orecchio che si staccava, con il sangue che usciva, non ci siamo fatti mancare niente… Nel cinema in genere queste scene durano pochi secondi, noi l’abbiamo fatto durare sei minuti. C’era proprio l’impegno nell’indagare a fondo la tecnica dell’effetto speciale.

LC: Come il 3D, come l’aerografo.

DP: Facendo durare un effetto speciale così a lungo, più minuti, si crea una certa tensione, scopri delle cose, partendo però da un’operazione fredda, cioè dall’analisi di un determinato stato psicologico. Non facendoci però mancare i luoghi comuni del cinema, oltre all’effetto speciale c’erano anche certe inquadrature (ad esempio, quella dell’occhio) che noi abbiamo cercato di rendere più retoriche possibile.

LC: Parliamo della Fusione della campana e spieghiamo cos’è?

CP: Sì, della quale Diego dice: “Mi interessava poco l’aspetto fisico”. In effetti questo lavoro è molto astratto.

DP: Eh sì, si parla di vuoti.

LC: Si parla di un’assenza, certo. In realtà non si tratta di una campana, ma di una sorta di rappresentazione, di messa in scena del procedimento per fare una campana, giusto?

DP: Sì, però come la facevano in maniera basica, nella tradizione.

LC: Sì, nella tradizione, perché era interrata.

DP: La scultura è smontabile in quindici pezzi… È stata fatta con la rete metallica, ogni pezzo poi è stato coperto di vetroresina e, siccome volevo un effetto piuttosto lucido, luccicante, gli è stata colata sopra altra resina in modo da renderla scintillante, come se fosse bagnata, come se ci fosse piovuto sopra. E sì, l’idea era quella… Per realizzare una campana secondo il metodo tradizionale si deve scavare una fossa – di nuovo, come per il lavoro dei buchi – che, praticamente, diventa un forno. Poi, all’interno della fossa, si costruisce la campana con tanto di positivo e negativo, e si richiude. A grandi linee questi sono i procedimenti che ho seguito per realizzare quella forma. Dopodiché si chiude di nuovo la fossa, in piccoli forni allestiti sul posto si fonde il bronzo che attraverso dei canali va a finire nel condotto centrale che porta al vuoto della campana fatto di cera. Il bronzo fonde la cera e occupa lo spazio dell’intercapedine. Dopodiché si scava nuovamente, e rompendo il guscio che si è creato attorno, dovrebbe comparire la campana finita bene. È questo un metodo che nell’antichità non si poteva controllare, se sbagliavi una piccola dose di materiale, mettevi più o meno argento, bronzo ecc., la campana poteva anche non suonare… in teoria, è un lavoro molto fisico, molto preciso. Ecco, quello che ho cercato di fare (a proposito di paesaggio, e per me questo è un paesaggio) è stato rappresentare il luogo dove tutti questi procedimenti accadono e si manifestano, per cui ho immaginato delle forme stilizzate, ognuna delle quali potesse raffigurare uno step di questo processo. E parlando sempre di paesaggio, siccome la scultura era troppo grossa, ho deciso di inclinarla di 45 gradi per cui era come se si avesse un’immagine aerea del set in cui tutte queste operazioni succedevano, stando però a terra. Naturalmente l’obiettivo era quello di realizzare una scultura, infatti c’è quest’oggetto estremamente luccicante e nello stesso tempo mostruoso, ma alla fine, altro non è che il set dove tutto si è svolto, quindi è come se noi facessimo dall’alto una foto di un luogo di lavoro dove tutto quanto accade.

Tutto è nato da un film di Andrej Tarkovskij che si intitola Andrej Rublëv dove un giovane ragazzo è messo alla prova: viene commissionata una campana al padre, che però muore. A questo punto lui è convinto di riuscire a realizzarla lo stesso. Naturalmente se fallirà l’operazione sarà decapitato, per cui tutto il film è girato intorno a questa fatica, al non sapere se la costruzione della campana andrà a buon fine, ed ecco quindi la scelta dell’argilla, del luogo dove farlo, l’enorme mole di lavoro… Alla fine l’impresa riuscirà e la campana suonerà perfettamente. L’immagine finale è aerea e dall’alto si vede il luogo che è veramente il set di un film, ma è anche il set dove questa cosa è successa, e io di lì ho preso l’immagine finale. Per cui sì, quello che mi è interessato è stato non tanto immaginare una forma, ma riuscire a costruirla attraverso un lavoro fisico, un operare, un procedimento tecnico insomma.

CP: E poi forse ti interessava costruire una forma intorno a un vuoto, quello che si diceva prima.

DP: Anche questo, sì.

CP: Generalmente una forma è un pieno, si pensi a una scultura… Tu fai esattamente il contrario, come ci hai raccontato fino adesso. Mi sembra che parti da un’idea e poi la segui fino a dove ti conduce. È interessante come metodo…

DP: Però, se ci pensi, è una tra le operazioni più basiche della scultura. Quando fai un vaso, parti dall’esterno, lasciando un vuoto dentro. Quindi non c’è nulla di più classico, come approccio.

LC: Inoltre dai nello stesso tempo l’oggetto finito ma anche il processo per realizzarlo. Anche questo è un aspetto interessante. C’è qualcuno che vuole fare qualche domanda, che vuole intervenire?

Domanda dal pubblico: Ho una curiosità sui buchi: dove sono stati fatti, li hai scavati tu personalmente? e cosa ne è oggi di questi buchi?

DP: Sono stati fatti nella casa dei miei genitori, in campagna, perché lì potevo fare tutto quello che volevo, indisturbato, il che è stato molto importante perché quando lavori per un anno intero devi poterti muovere liberamente. Si sono create delle dinamiche abbastanza curiose, interessanti: succedeva che passavi tutta una settimana a scavare e poi, più o meno una volta alla settimana o ogni quindici giorni si facevano delle foto, io ne ho usate una decina, ma ho più di ottocento scatti… E quindi si fotografavano i progressi, prima ancora di scoprire che proprio le foto sarebbero diventate il lavoro. Io ho cominciato a documentare perché non sapevo bene come sarebbe andata a finire. Naturalmente sapevo che non era la documentazione il mio obiettivo, infatti ho reso poi la foto autonoma, che non è appunto una documentazione ma un elemento indipendente. Quando si scattavano le foto ci si trovava in molti, c’erano le persone che facevano gli attori, eravamo anche in venti, e quindi era un momento di socializzazione, si cenava insieme, era quasi una festa popolare. Quindi c’era questo doppio binario: prima ci sei tu che lavori da solo e poi c’è il momento in cui si realizza e quindi c’è un po’ di gente, alcuni hanno idee, altri meno, altri danno suggerimenti, altri ti aiutano… Questo duplice livello era abbastanza interessante, divertente in effetti.

LC: Oggi cosa è rimasto? – era l’altra parte della domanda.

DP: Un orto, c’è l’orto credo.

Domanda dal pubblico: Sono stati ricoperti?

DP: Sì, tutti ricoperti. Beh, buchi così, fatti nella terra, se non sono protetti sono destinati naturalmente a scomparire, basta una pioggia, la terra frana, e poco per volta svaniscono nel nulla.

ROSANNA BIANCHI PICCOLI: È affascinante quello che dici sulla storia della comunità, della gente, di quelli che guardano. Io sono ceramista per cui ho sentito molto questo lavoro dei buchi, e l’ho sentito fisicamente. E poi ho pensato al film di Tarkovskij Andrej Rublëv, dove la scena centrale della narrazione è proprio la fusione della campana intesa come creazione collettiva, in cui la forza creatrice del popolo assume un valore antagonista contro la tirannia. È il famoso sapere di cui parli, il mestiere, per cui segui il processo fino a dove ti porta. È molto importante che la comunità intera abbia, in qualche modo, realizzato il lavoro. Quasi come un rito. Io come ceramista ho lavorato in quella maniera. La produzione di un vaso era un lavoro che coinvolgeva molte persone. Il fare di un mestiere: ecco Tarkovskij e la campana. Grazie, è stato bellissimo.

DP: Devo dire che mi trovo molto bene a lavorare con altra gente, non sono uno che ha bisogno di chiudersi, mi piace proprio.

LC: Anzi, spesso hai fatto dei lavori coinvolgendo altre persone, no?

DP: Sì, quasi tutti. Anche nel caso di quelle foto dei vecchi con le corna. Non è che potevi andare direttamente da loro. Un po’ perché erano in campagna, un po’ perché restii… C’era un approccio, una procedura da seguire, prima conoscevi il nipote o la nipote, loro ti accompagnavano a casa, facevi conoscenza, prendevi il caffè, dopo di che loro te la raccontavano ecc., e poi non era detto che si prestassero, ma alla fine se gli eri simpatico… Era una sorta di rito di avvicinamento…

RBP: Sì, ecco ancora l’importanza della coralità e della condivisione.

DP: Sì. Io intendevo proprio questo per partecipazione. Infatti, non si stabilivano dei ruoli, era una partecipazione corale.

RBP: Sì, è una coralità che coinvolge il dentro e il fuori, il vuoto e il pieno, la campana e il senso. Bellissimo, grazie.

DP: Mi sembra un’ottima lettura.

GDP: Io volevo chiederti una cosa sulla misura dei buchi, perché tu hai detto che alcuni erano profondi cinque, sei, dodici metri…

DP: Dodici no, il più profondo era sette metri…

GDP: Ma com’è che hai deciso le profondità, le misure?

DP: Succedeva che, a un certo punto, mi rompevo di scavare un buco e ne cominciavo un altro, poi riprendevo di nuovo il primo, quindi ci ho lavorato come a una specie di scultura. Poi, vedendoli progredire insieme, a un certo punto pensavo, “qui ce ne starebbe uno obliquo”, e così via. È lì che ho capito che la foto sarebbe stato il risultato finale, perché cominciavo a ragionare sul lavoro quasi come fosse un quadro. Dicevo “per quest’immagine me ne serve uno lì” e lo facevo, naturalmente poi ci si lavorava… per farne uno ci voleva parecchio tempo. Sì, è interessante come quella zona fosse diventata un’enorme scultura, o un quadro, dove io mi muovevo a seconda di cosa… Alla fine, era già l’immagine che mi comandava, probabilmente… A un certo punto abbiamo anche montato i trabattelli per fare le foto dall’alto… Non c’era mai il foglio bianco… Capivi che lì ci poteva stare bene qualcos’altro e allora andavi a scavare, non erano fatti a caso…

LC: Se non ci sono altre domande, su questa immagine dell’“immagine che già allora comandava” possiamo chiudere.

CP: Allora grazie a Diego Perrone.

Diego Perrone, Pendio piovoso frusta la lingua, Exhibition view, MACRO, Roma, 2022

Diego Perrone. Pendio piovoso frusta la lingua
MACRO, Roma
fino al 19 marzo 2023

In copertina: Diego Perrone, Senza titolo, 2016, fusione in pasta di vetro, 73 x 80 x 34 cm, courtesy: l’artista, Massimo De Carlo, Milano/Londra/Hong Kong; foto Andrea Rossetti.

Diego Perrone

(Asti, 1970) è un artista multimediale che vive e lavora tra Milano e Asti. Il lavoro di Perrone con la fotografia, il video e la scultura è caratterizzato da una sperimentazione tecnica e materica e attinge, ampliandola, dalla storia dei movimenti artistici italiani del Novecento, giocando con i simboli della cultura popolare italiana. Sue mostre personali sono state allestite in diverse istituzioni e gallerie, tra cui la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino (2005), il Museo d’Arte Moderna di Bologna (2007), la Fondazione Brodbeck di Catania (2010), Museion a Bolzano (2013), la Galleria Massimo De Carlo di Milano e Londra e Casey Kaplan di New York. Perrone ha partecipato a numerose mostre collettive, tra cui quelle al Museo Solomon R. Guggenheim di New York (2007), Palazzo Grassi a Venezia (2008), alla Galleria d’Arte Moderna di Torino, al Kunstmuseum St. Gallen in Svizzera e al Castello di Rivoli a Torino. Nel 2021 ha ricevuto il Premio ACACIA ospitato dal Museo Del Novecento di Milano e nel 2007 il Premio Fondazione Spinola Banna per L’Arte. Le sue opere sono state esposte alla Biennale di Venezia (2003) e alla Biennale d’Arte Contemporanea di Berlino (2006).

Laura Cherubini

è nata a Roma dove ha studiato con Giulio Carlo Argan e Maurizio Fagiolo dell’Arco e si è laureata con Maurizio Calvesi. Ha dedicato la vita all’arte contemporanea italiana lavorando sempre accanto agli artisti. Docente all’Accademia di Brera a Milano. Collabora a “Flash Art” Italia e International. Responsabile Arte Contemporanea ING, Roma (2005-7), vicepresidente MADRE, Napoli (2011-17), direttore MACTE, Termoli (2019-20). Curatrice del Padiglione Italiano alla Biennale di Venezia (1990) e di numerose mostre in istituzioni italiane e internazionali tra le quali MAXXI, Roma; GNAM, Roma; GAM, Torino; Fondazione Merz, Torino; Museo Vasarely, Budapest; PS1-MoMA, New York. Ha pubblicato monografie su artisti di diverse generazioni, come Accardi, Spalletti, Pivi. Fa parte degli Archivi Angeli, Boetti, Marotta, Mauri, Schifano, Catalano (Direttore artistico). È nel Comitato Scientifico di MACTE e della Quadriennale. Dirige “Art” per la Fondazione Ducci, e per le edizioni Marinotti la collana “Le chiavi dell’arte”, nella quale ha pubblicato “Controcorrente. I grandi solitari dell’arte italiana. Boetti, De Dominicis, Fabro, Mauri, Pisani, Marisa Merz” (2020). Premio Luigi Carluccio per la giovane critica (1990) e Arte Sostantivo Donna (2017). [ph. Alighiero Boetti]

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