«oddio che dolore!»: così esclamava, a sorpresa in italiano e con non meno sorprendente trasporto emotivo, William Kentridge in un video esposto al MACRO di Roma nella primavera del 2016. Erano i giorni dell’inaugurazione di Triumphs and Laments, la teoria di 54 reverse graffiti da lui realizzati sui muraglioni di Lungotevere, all’altezza di Ponte Sisto: quel corteo di silhouette, disegnate nel tipico nero-Kentridge, raffigurava più o meno anonimi massacrati, esuli e sfollati, culminando con un grumo semi-informe in cui si poteva riconosceva il cadavere prono di Pier Paolo Pasolini. Quelle figure sono svanite ormai da un pezzo: cancellate dall’atmosfera, dall’umidità, semplicemente dallo scorrere del tempo. Questo malinconico fading era previsto, naturalmente; ed è infatti parte integrante dell’opera. Kentridge, uno che di ombre se ne intende, sembra dirci che la storia umana è in gran parte una storia di violenze – davvero una history of violence, per dirla con David Cronenberg – ma che i segni in ricordo di quelle violenze sulle quali materialmente si è edificata la nostra storia, come tutti gli altri segni tracciati dagli umani, sono soggetti al degrado, all’entropia dei supporti su cui sono iscritti e dei materiali coi quali sono tracciati: così come è in sommo grado evanescente quell’altro materiale, fra tutti fragile e oggi sempre più tale, che è la nostra memoria. Forse da questa coltre di oblio potrebbe risvegliarci solo l’intensità di quel grido – la sua intensione, direbbe Paul Celan evocando il linguaggio della poesia, equivalente verbale delle pathosformeln di warburghiana memoria –: col quale Kentridge riandava alla memoria di Giorgiana Masi, la studentessa diciottenne assassinata da un proiettile senza nome il 12 maggio 1977. Era proprio dalle parti di Ponte Sisto, ultima tappa di questa collettiva via crucis, che veniva versato quel sangue.
Da un ragionamento simile credo sia nata l’idea di Ludovico Pratesi e Marco Bassan che alla galleria De Luca, a due passi dal Tevere, hanno esposto le opere di dieci artisti di oggi, chiamati a interpretare dieci Ferite di Roma – questo il titolo del progetto e della mostra –, dall’assassinio di Giulio Cesare a quello di Aldo Moro: tutti con la contrainte dello stesso supporto: un foglio di spessa carta amatruda di 72 x 52 centimetri. Sono traumi e, nello specifico, tradimenti: «momenti nei quali la città stessa si è tradita», scrive Pratesi: «occasioni in cui la città avrebbe dovuto prestare fede alla propria promessa identitaria di immaginarsi come capitale del mondo, e invece si è mostrata pavida e meschina». Scrive Bassan che mentre queste «ferite di Roma risiedono ancor oggi nell’inconscio collettivo della città, molti dei luoghi che sono stati teatro di questi tradimenti sono chiassosi e distratti. Per affrontare queste ferite è quindi necessario attivare una carica simbolica, cioè quella capacità immaginifica e visionaria tipica degli artisti contemporanei».
Il cortocircuito tra il bruciare della ferita e la colpevole cauterizzazione del suo oblio collettivo è bene interpretato, per esempio, dall’artista più giovane del gruppo (nato com’è nel 1990), Giulio Bensasson: che ha reso il delitto Matteotti disegnandone la silhouette appunto evanescente nella polvere, come «chi per lungo silenzio parea fioco». I libri di storia ricordano quell’assassinio che il 10 giugno 1924 parve mettere a repentaglio il neonato regime fascista, ma in verità non resta memoria del luogo esatto della Città in cui venne versato il sangue del deputato socialista (pugnalato dagli squadristi capeggiati da Amerigo Dumini, probabilmente nell’auto stessa con la quale l’avevano rapito, prelevandolo su un altro Lungotevere: quello intitolato ad Arnaldo da Brescia nel quartiere Flaminio).

In mostra c’è anche – suo palinsesto – una carta geografica della città, con evidenziati in rosso i suoi siti macchiati di sangue: questi paesaggi contaminati, per dirla con Martin Pollack, si infittiscono com’è ovvio nel centro storico della città, perché la storia di Roma è davvero la storia delle sue ferite (gli altri artisti in mostra sono Elisabetta Benassi con l’assassinio di Giulio Cesare, 44 a.C.; Marco Tirelli con l’incendio di Roma, 64 d.C.; Gabriele Silli con l’assassinio di Cola di Rienzo, 1354; Silvia Giambrone con l’uccisione di Beatrice Cenci, 1599; Enzo Cucchi col rogo di Giordano Bruno, 1600; Luigi Ontani con la condanna di Galileo Galilei, 1633; Pietro Ruffo con la marcia su Roma, 1922; Lulù Nuti con l’assassinio di Pasolini, 1975; e Rä di Martino con quello di Aldo Moro, 1978). Non è un caso che Miguel Gotor, nella presentazione non di circostanza scritta per l’occasione, concluda: «vorrà pure dire qualcosa se tutto è cominciato, secondo la tradizione del mito tramandata fino a noi, da un fratricidio per una lite di confine».
Lo ha ricordato meglio di tutti Michel Serres in un bellissimo libro del 1983 (ripubblicato da Mimesis nel 2021, a cura di Gaspare Polizzi), Roma. Il libro delle fondazioni: il rito originario attribuito dalla tradizione al sulcus primigenius di Romolo, che traccia con l’aratro il disegno della città futura, è un segno di violenza e morte che fa tutt’uno col leggendario fratricidio di Remo. Quello della fondazione è dunque, con precisa figura etimologica, il «terreno del terrore»; e infatti il suolo di questa città – da sempre luogo di contesa per ogni forma di potere, materiale e simbolico – è intriso di un sangue non solo metaforico.
Il genitivo le ferite di Roma, come spesso quelli della nostra lingua, va letto allora in un duplice senso. Da un lato quelle che vediamo, interpretate dagli artisti di oggi, sono le ferite che reca il corpo simbolico della città, il suo territorio – psichico, prima che storico – di simbolo della Nazione. Ma dall’altro sono le ferite che Roma, in questi ormai quasi tremila anni di storia, ha inferto ai suoi cittadini: nonché a tutti gli altri che nei secoli ne hanno subito l’ambiguo fascino. Sono i momenti, per dare alle parole di Pratesi un senso che non so quanto condividerebbe, in cui la città si è tradita: ha mostrato la sua faccia feroce.
Colpisce che le “letture” più intense siano quelle di artiste donne. Come se questa Storia di Violenze, una violenza esercitata quasi sempre dagli uomini, possa essere più spietatamente giudicata da chi quella storia, per lo più, l’ha subita. La morte di Moro addirittura vede cadere le mani di Rä di Martino: che ha lasciato la matita a una bambina (all’epoca dei fatti l’artista aveva tre anni), chiedendole di disegnare a suo modo una delle foto, che tutti ricordiamo, prese quella mattina di maggio in Via Caetani; mentre il suo intervento consiste in uno strato dorato steso uniformemente al verso del foglio con la firma di entrambe: come a sottendere una memoria dell’iconostasi sacra, a questo episodio da tempo entrato nel martirologio della nostra storia.

Ancora più colpisce che gli unici artisti del gruppo a mettere in scena l’arma del delitto siano appunto due donne. Elisabetta Benassi – con la brutalità economica di mezzi, quasi suprematista, che sempre la contraddistingue quando si confronta con la nostra storia – sul foglio bianco ha semplicemente piantato un coltello: per ricordare quello piantato da Bruto nel corpo del patrigno Cesare. Un coltello che è anche un segnatempo, quasi lo gnomone di una meridiana che getta un’ombra sul bianco per il resto immacolato della nostra scialbata memoria (ci si ricorda di un suo lavoro del 2017, Passato e presente: dove a fissare al muro una copia di quel libro di Gramsci era un chiodo arrugginito, relitto di un passato immemorabile ma resistente).

Sul suo foglio Silvia Giambrone ha raffigurato armi da taglio di tutti i formati: allineando quelle che tutti i giorni adoperiamo nella quieta strage di animali che compiamo ogni volta che ci mettiamo a tavola, rispettando ordinati le regole di ogni bennata famiglia borghese, con l’ascia barbarica del più violento immaginario storico.

A lato del disegno, uno stencil di rosso sanguigno, l’artista ha scritto di suo pugno: «torture ordinarie / torture straordinarie». Il cortocircuito della morte di Beatrice Cenci, decapitata ventiduenne a Castel Sant’Angelo l’11 settembre 1599 insieme alla matrigna Lucrezia Petroni (c’è chi ha supposto che, per la scena di indicibile violenza, da lui rappresentata di lì a poco con Giuditta e Oloferne, Caravaggio s’ispirò proprio a questa vicenda: che colpì come nessun altra l’immaginazione di un tempo, pure, segnato da un incredibile tasso di brutalità quotidiana), è infatti fra tutti forse il più eloquente. Beatrice era una gentildonna appartenente a una delle famiglie più potenti della città, ma per otto anni era stata rinchiusa in monastero; uscita di lì, era stata di nuovo reclusa nella Rocca di Petrella Salto, insieme alla matrigna, dal capofamiglia folle di gelosia: e, recita la didascalia in mostra, «esasperata dalla reclusione sempre più rigida, dagli abusi sessuali e le violenze subite, Beatrice giunse alla conclusione che l’unica via per la libertà fosse uccidere il padre. Aiutata dalla matrigna, dai fratelli Giacomo e Bernardo e dal castellano Olimpio Calvetti – di cui si era innamorata – riesce nell’intento solo dopo due tentativi falliti. L’omicidio, mascherato come incidente, desta molti sospetti. Il gruppo viene scoperto e si apre un processo per ognuno di loro che include anche trattamenti di tortura. Tutti gli imputati vengono condannati a morte: gli uomini per squartamento, mentre per le due donne viene chiesta un’esecuzione pubblica tramite decapitazione».
La ferita ordinaria del patriarcato, e della legge del taglione che implacabile doveva ribadirne il dominio, aveva ricevuto per una volta la sanzione straordinaria di chi quelle ferite aveva subito, prima e dopo, per terribilmente ricambiarle. Di quest’incubo dal quale – come diceva Joyce – invano tentiamo di svegliarci, Roma è interminabile quintessenza: il sempre aperto, crudele teatro della cattiva infinità che chiamiamo storia.

Le ferite di Roma. Dieci artisti curano le ferite di Roma
a cura di Spazio Taverna
Roma, Galleria Mattia De Luca
dal 24 febbraio al 25 marzo 2023