Paolo Baratella è scomparso, a 88 anni, la scorsa settimana. Tra i più brillanti (e più sottovalutati) pittori italiani del dopoguerra, aveva appena ricevuto un premio alla carriera assegnatogli dalla commissione del Premio VAF. Sue opere sono esposte, sino al 4 giugno 2023, presso il Castello Estense di Ferrara. Per ricordarlo, riproponiamo uno scritto di Flavio de Marco, introduzione all’autobiografia di Baratella intitolata “Davanti allo specchio”.
Un giorno mentre girovagavo nel sito di una casa d’aste italiana mi sono imbattuto in un lotto che mi aveva piuttosto sorpreso. Si trattava di un dipinto di cui non ricordo esattamente l’anno, forse metà anni ‘60, ma di cui mi è ancora viva la complessità dell’immagine ottenuta con una sovrapposizione di elementi figurativi e astratti. Scartando una classica rappresentazione prospettica, il quadro era composto da più spazialità sovrapposte ottenute con diversi accorgimenti linguistici, che includevano il gesto libero per rappresentare un’onda marina e la forma grafica per la forma di una figura ricavata con l’uso dello stencil. La sensazione generale era quella di un autore che, dopo le ricerche di Lucio Fontana, tornava ad utilizzare la tela scartando la visione dal vero e usando come modello di rappresentazione immagini provenienti dalla comunicazione di massa.

Ho speso qualche minuto sulla lista dei lotti in vendita armeggiando con i pulsanti di più e meno presenti sul lato dell’icona, ingrandendola varie volte e cercando di analizzare i particolari. Vedere un dipinto sullo schermo non è come vederlo riprodotto su un catalogo, poiché le tecnologie di navigazione dell’immagine sono molto diverse. In rete si ha paradossalmente la sensazione di una visione dell’opera più partecipata rispetto alla fissità dei dettagli che possiamo ad esempio sfogliare su un catalogo, che a volte non vediamo neanche nella visione dal vivo. Mentre continuavo a ingrandire l’immagine mi sono reso conto che dell’autore era indicato soltanto l’anno di nascita, ragione per cui avrei magari anche potuto contattarlo. Ma forse, pensai, sarebbe stato il caso di vedere prima qualche altra sua opera, non sia mai che gli fosse venuto bene soltanto quel quadro. Ho navigato sul sito dell’artista in cui era presente una panoramica della sua produzione e dopo cinque minuti stavo già scrivendo ad un’amica gallerista per chiederle di aiutarmi a rintracciare il contatto.

I tempi sono stati più rapidi del previsto e neanche due mesi dopo ero in visita nel suo studio di Lucca con un amico regista che di lì a poco avrebbe debuttato con uno spettacolo intitolato Alla voragine, e nessuna parola potrebbe indicare meglio l’esperienza di quella giornata. Non ricordo quanti quadri ho maneggiato, spostato, tirato fuori, rimesso a posto, girato e sovrapposto, passando poi ai disegni per ritornare ancora sul qualche pezzo che mi era sfuggito. Mi fu subito chiara la portata della sua ricerca, il peso di un’esistenza spesa nella pittura intesa come responsabilità prima di tutto linguistica, agita e vissuta nell’immagine al di là di ogni partito di appartenenza, perché l’arte non salva il mondo, ma svela la sua visione. Nei tempi attuali, in cui l’artista impegnato viene confuso con una sorta di attivista in grado di allestire banali slogan dalla parvenza socio-politica, dimenticando la complessità formale di cui ogni opera d’arte deve essere portatrice per definirsi tale, le opere che avevo visto a Lucca mi erano sembrate la risposta al deserto di immaginazione degli operatori culturali sempre pronti a parassitare con loro estetica a comprensione rapida le sventure del pianeta.

Dal primo incontro mi sono portato via due buste piene di cataloghi monografici che molto generosamente l’artista mi aveva regalato, potendo ricostruire così l’intero suo percorso artistico, estremamente affascinante e complesso. La prima impressione era stata quella di avere di fronte un artista per il quale la parola “ricerca” significa esporre se stessi dove non si è più in grado di controllare l’azione, un agire teorico e formale conseguente ad una febbrile tensione dello stare al mondo. Questo sentimento, che si trattasse di figura o di paesaggio o di altro non importa, costituiva base vitale di quei dipinti, perché i veri risultati appaiono quando non ci si preoccupa di far tornare le cose per dimostrare di saper esercitare il mestiere. Poi, certo, nel caso di un pittore alla fine restano i quadri e ci sono sempre quelli riusciti meglio di altri. Dato che, nei mesi del nostro incontro, stavo lavorando ad un libro sulla pittura italiana del Novecento, mi trovai nella difficile situazione di dover fare una scelta, perché così era costruito il libro, un solo dipinto per ciascun autore. Dopo varie selezioni e ripensamenti ho estratto dalla ricchissima e variegata produzione di questo artista un dipinto composto in quattro parti di otto metri di lunghezza, dal titolo Il 1984 & l’Officina ferrarese.

Nel testo dedicato al dipinto avevo parlato di un contributo fondamentale di quest’opera alla ricostruzione delle possibilità espressive della pittura in un momento in cui, dopo la stagione informale, questo linguaggio ricominciava il suo corso attraverso l’uso dell’immagine riprodotta, scartando il modello dal vero. Nello specifico si trattava di un montaggio di differenti elementi iconografici in grado di generare un’unica composizione, dove le singole forme si trasformavano l’una nell’altra. Attraverso l’uso dell’aerografo il quadro restituiva la continuità di un racconto leggibile nella specificità dei suoi frammenti figurativi che generavano un processo di metamorfosi dell’immagine. In questa visionaria lettura del libro di George Orwell che si mescolava all’iconografia degli affreschi di Palazzo Schifanoia a Ferrara mi sembrava che gli tutta l’immagine dipinta fosse colta sul punto della sua evanescenza, sfuggendo alla definizione iconografica della sua presunta riconoscibilità. La pittura in fondo è sempre il presupposto per un tradimento del visibile, la possibilità di raggiungere una visione oltre la tela nel momento in cui l’immagine dipinta riapre la memoria della nostra vita.

Qualche mese dopo, nella seconda visita in studio, quando in anteprima avevo portato all’artista il testo del libro, avevamo deciso da fare uno scambio di opere, cosa di cui ero molto felice, perché non mi era mai capitato di raggiungere in così poco tempo l’intimità necessaria per questo gesto. Infine quando l’artista mi ha chiamato per invitarmi a scrivere l’introduzione al suo libro autobiografico, che non avrei letto prima della pubblicazione, ho accettato pensando che avrei potuto parlare del rapporto tra scrittura e pittura, appartenente a tutta una ben nota tradizione di artisti italiani e da me vissuta in prima persona, ma alla fine avrei finito per scambiare la sua introduzione con la mia. Allora ho pensato di raccontare l’inizio di questa amicizia perché in fondo sapere di avere dei compagni di strada, sapere della loro esistenza anche se poi non li frequenti regolarmente, non è un sostegno da poco in quella corsa allucinata e senza una precisa direzione che è la vita di un pittore.

In copertina: Paolo Baratella, Senza titolo, 1964