Vivere e morire d’inchiostro

06/03/2023

La fine dell’anno è tempo di bilanci. E infatti, come d’abitudine, a metà dello scorso dicembre i due principali critici cinematografici del New York Times – Manohla Dargis e Anthony Oliver Scott – hanno pubblicato ciascuno la lista dei dieci migliori film del 2022, in un articolo ripreso e commentato anche dal Post. Ci sono molti film non americani, il che non stupisce da parte di due critici eclettici come Dargis e Scott, attenti tanto ai prodotti mainstream (multiplex film), quanto al cinema d’autore (art house cinema). Più sorprendentemente, al settimo posto della lista di Scott troviamo Illusions perdues di Xavier Giannoli, tratto dall’omonimo romanzo di Honoré de Balzac, presentato in anteprima a Cannes nel 2021 e uscito nelle sale italiane a gennaio 2022. La sorpresa non è legata a questioni di valore ma all’essere, il film di Giannoli, l’adattamento di un classico della narrativa ottocentesca: tipologia spesso poco amata dai critici cinematografici, considerata sinonimo di fotografia patinata, scenografie e costumi sontuosi, lentezza di ritmo, stile convenzionale.

Come se non bastasse, l’adattamento non va più tanto di moda, almeno al cinema, oppure si è spostato verso altri format e altre piattaforme, o verso modalità più contaminate. Da una parte, se pensiamo a Bridgerton, potremmo dire con Genette che alla trasformazione (di un testo) si è affiancata l’imitazione (di un genere, il film “austeniano”, che non è una singola realizzazione ma una matrice, un modello replicabile, e che mantiene la fonte letteraria a distanza). Dall’altra, fatto ancora più significativo, se fino a una quindicina di anni fa la parola magica era “Liberamente ispirato a…”, o “Dal romanzo di…”, adesso quasi ogni film che si rispetti, che ambisca al botteghino o a un pubblico middle brow, si apre con la seguente dichiarazione, scandita enfaticamente, talvolta a caratteri cubitali: “Tratto da una storia vera”.

Talora questo cambiamento di paradigma sfiora l’involontariamente comico, come testimonia una bizzarra featurette diffusa da Netflix in occasione dell’uscita di The Haunting of Bly Manor, miniserie tratta da The Turn of the Screw di Henry James. La featurette si intitola non a caso Is The Haunting of Bly Manor a True Story?, e a partire dalla genesi del testo di James, un aneddoto raccontato all’autore dall’Arcivescovo di Canterbury, traccia la genealogia di quell’aneddoto: una serie di apparizioni sovrannaturali avvenute nel 1771 a Hinton Ampner House e poi “documentate” un secolo dopo in un numero della rivista “Gentleman’s Magazine”. Che tale genealogia sia accurata o meno, poco importa. Quello che conta è che, per essere meglio commercializzato e transcodificato, il più terrificante racconto fantastico mai scritto deve trasformarsi in “una storia vera”.

La cronaca ha preso sempre più il posto della finzione (non solo al cinema, del resto), e questa non è certo una novità. Il vissuto ha scalzato la letteratura, se dobbiamo giudicare dalla fortuna del biopic, e anche qui niente di nuovo. La vita dell’autore vince nettamente sull’opera, come dimostra la produzione sempre crescente di biopic letterari, variamente intrecciata a ricorrenze, museificazione e insieme riconfigurazione in senso pop della cultura. Biopic letterari che esaltano spesso un’estetica neo-romantica, fondata sul mito del genio creatore come soggettività indipendente e della scrittura come espressione di tale soggettività, un’espressione non mediata da apparati tecnologici, frame culturali, condizioni materiali, istituzioni, attori sociali, ecc.  Un punto forse meno scontato e su cui Illusions perdues – tanto il libro quanto il film – ha ancora molto da dirci.

Illusions perdues non è un romanzo come tanti. È il romanzo della prima modernità. Il romanzo della prosa del mondo. Il romanzo del disincanto. È soprattutto il romanzo della letteratura nell’epoca del capitalismo ormai affermato non solo come modo di produzione ma come dimensione totalizzante dell’essere nel mondo: “un poema tragicomico – scrive Lukács – che tratta della ‘capitalizzazione dello spirito’ [e che] mostra come la letteratura (e con essa ogni ideologia) si riduca man mano a merce, a oggetto di scambio” (Saggi sul realismo, p. 69). Nelle vicende di Lucien de Rubempré, che all’inizio del romanzo lavora come proto in una stamperia di provincia, che dalla provincia arriva a Parigi pieno di ambizioni e povero in canna, portando con sé un romanzo e una raccolta di sonetti a cui il testo riserverà una sorte grottesca, che vorrebbe diventare scrittore e invece diventa un giornalista tanto spregiudicato quanto precario, un bracciante della scrittura sempre pronto a vendersi e sempre burattino nelle mani di altri, Balzac inietta il senso di un intero processo storico, consegnandoci in un colpo solo, con un apparente paradosso, la nostra archeologia e il nostro passato prossimo. Illusions perdues è il primo libro che elegge la materialità della letteratura (supporto, tecnologia, dinamiche economiche, professionalizzazione, stampa, strategie promozionali, distribuzione) a oggetto di romanzo, e che riesce a raccontare come le trasformazioni produttive innescate dalla rivoluzione industriale riconfigurino il campo letterario nella sua totalità (“dalla fabbricazione della carta fino al sentimento lirico”, scrive ancora Lukács, p. 71), investendo lo statuto dell’autore, facendone una figura strutturalmente alienata.

Per narrare visivamente questa storia, che è in effetti la storia di uno scrittore, sebbene fittizio, ma anche la storia di un processo storico reale quant’altri mai, Giannoli si serve sistematicamente dei tropi che appartengono alla grammatica del biopic letterario, di tutto un armamentario di cliché retorico-visivi ormai codificato, soprattutto a partire dalla fine degli anni Novanta, quando il biopic letterario è decollato fino a diventare un vero e proprio genere cinematografico. Ma li presenta cambiandoli di segno; oppure costruisce altri tropi che rispetto a quelli si pongono in perfetta antitesi. Ogni immagine – ha scritto André Ruillé – si staglia sempre contro “una serie infinita di altre immagini, invisibili ma operanti, che si costituiscono in ordine visivo, in prescrizioni iconiche, in schemi estetici” (La Photographie, p. 17). È vero. Un adattamento non è mai la transcodificazione di un singolo testo. E uno degli aspetti più interessanti del film di Giannoli è proprio la rete intertestuale che mobilita.

1. Illusions perdues

Il film inizia come un biopic letterario. Anzi, per essere più precisi, inizia prendendo le distanze dal biopic letterario. Dopo i titoli di testa, da cui è omesso il titolo del film, la prima inquadratura è un piccolo quaderno fittamente vergato che si staglia contro il sole e le foglie degli alberi, in un paesaggio rurale.

2. Illusions perdues

Poi la cinepresa inquadra il volto di un giovane disteso su un prato, intento a scrivere, con accanto una sedia. Nell’inquadratura successiva, con la sedia in spalla il giovane arriva in una radura, poggia la sedia sul prato, si siede e riprende a scrivere, mentre le sue labbra sussurrano alcune parole indistinte (fig. 1, 2, 3, 4).

3. Illusions perdues

Ecco affiorare alcuni degli elementi base che formano la grammatica visiva di tanti biopic letterari: la solitudine dell’artista in mezzo alla natura, le mani sporche di inchiostro, i fogli di carta, l’inchiostro stesso, la matita o la penna; non solo la visualizzazione ma la celebrazione dell’atto della scrittura, su cui la cinepresa indugia con amore, senza curarsi del suo carattere eminentemente non drammatico; il mito dell’ispirazione, che si concretizza in quelle parole balbettate e vergate al tempo stesso.

4. Illusions perdues

Difficile non leggere in questa sequenza una citazione da Bright Star di Jane Campion, il film del 2009 sugli ultimi anni di John Keats (fig. 5), in cui Keats “siede ad occhi chiusi sotto un albero mentre sentiamo recitare in voice over Ode to a Nightingale come se si fosse appena formata – fatta e compiuta – nella sua mente” (Judith Buchanan, The Writer on Film, p. 5).

5. Bright Star

Nel film di Giannoli, del resto, la sedia trascinata e posizionata suggerisce il carattere di messa in scena della sequenza, come se si stesse allestendo una gag, come se il personaggio si mettesse in posa. A questa sequenza segue una schermata nera e poi finalmente il titolo, Illusions perdues. Il modello del biopic letterario compare dunque come una sorta di prologo “fuori testo”, commentato dalla voce fuori campo con queste parole: “Per Lucien tutto era cominciato con inchiostro, carta e amore per la bellezza”. Parole che, alla luce del seguito, suoneranno ironiche. Di lì a poco il film prenderà tutt’altra direzione, dettata dal romanzo di Balzac, smentendo la sequenza iniziale. Quella sequenza si presenta allora come una specie di contro-programma narrativo che il resto del film si incaricherà di rettificare: vedremo molta carta e molto inchiostro, un po’ meno amore per la bellezza.

Di tropi a senso rovesciato, o di contro-tropi, ce ne sono moltissimi nel film di Giannoli. Tre però emergono con particolare forza, anche per il loro ripetersi lungo tutto il film: l’inchiostro e la carta (come già annunciato nel prologo), la macchina, l’atto della scrittura. Partiamo dal primo. Nell’adattamento di un romanzo che mette a tema la materialità della letteratura, la presenza di carta e inchiostro è prevedibile. E infatti sono entrambi onnipresenti, ritornano in maniera ossessiva, anche al di là della loro immediata funzionalità narrativa, in quanto motivi puramente retorico-visivi. Ma il punto è il modo in cui tali elementi vengono inscenati: soprattutto l’inchiostro, non docile strumento nelle mani di un soggetto che ne fa uso e così lo domina, lo piega al suo volere, non estensione benigna del genio creatore, come appare per esempio nella sequenza inaugurale di un altro famosissimo biopic, Becoming Jane (Julian Jarrold, 2007), ma carico di una pulsione aggressiva e di una capacità di spossessare il soggetto. Dopo l’idillio romantico che abbiamo appena ricostruito, l’azione si sposta nella stamperia in cui lavora Lucien, dove già carta e inchiostro acquisiscono un significato molto diverso: attrezzi di un lavoro manuale più che conduttori di un flusso spirituale. E lì, la prima immagine che vediamo è una colata di inchiostro nero che pian piano si allarga, poi i rulli che lo stendono fino a coprire tutto lo schermo, in un’inquadratura che ne enfatizza l’autonomia materica (fig. 6). Lucien sta stampando la propria raccolta di poesie, ma quella sostanza inquietante invade l’immagine, si prende tutto lo spazio, mentre sembra inghiottire la scrittura invece di farsene il medium.

6. Illusions perdues

Il valore ambivalente dell’inchiostro, come qualcosa che non solo iscrive ma cancella, come un indistinto che si oppone ai segni, come una forza impersonale che trascende l’individuo, ritorna più volte nel film. Quando Lucien scrive alla sorella una lettera piena di menzogne, menzogne contraddette dalle immagini, e una colata di inchiostro su un foglio bianco disegna forme accidentate e contingenti; verso la fine del film, quando il talento di Lucien è stato completamente prosciugato dalla letteratura meccanizzata, dai troppi articoli scritti senza crederci, dalla vita alla giornata, ed è lui stesso a far colare una lingua nera sulle sue pagine (fig. 7).

7. Illusions perdues

E riappare in una delle ultimissime inquadrature, quando la monarchia inasprisce le leggi sulla stampa e la polizia fa irruzione nella redazione di “Le Corsaire-Satan” per chiuderla: un calamaio gettato contro una parete cancella anche il giornale, riportandoci all’ambivalenza iniziale (fig. 8). L’inchiostro è sempre un’arma a doppio taglio (come lo è del resto la carta in molte sequenze del film); di inchiostro non solo si vive ma si muore.

8. Illusions perdues

Il secondo elemento, che costituisce piuttosto un contro-tropo, è la macchina. Non si tratta, ancora una volta, della macchina-protesi, della macchina-strumento che fa tutt’uno con il corpo sacro dello scrittore, come la macchina da scrivere che scandisce tanti film, non solo biopic letterari, da Breakfast at Tiffany (Blake Edwards, 1961) a Howl (Rob Epstein, 2010, sulla vita di Allen Ginsberg): specchio in cui la soggettività dello scrittore si riflette e su cui si irradia, un aspetto spesso sottolineato dalla tecnica campo-controcampo, accarezzata con sguardo quasi erotico dalla cinepresa (in Howl, il battere dei tasti si trasforma addirittura in una danza di note musicali, fig. 9).

9. Howl

No, qui la macchina è la rotativa (fig. 10), e a Giannoli – giustamente – poco importa che si tratti di un palese anacronismo, poiché la stampa rotativa è stata introdotta solo nella seconda metà del XIX secolo, mentre il romanzo di Balzac viene pubblicato tra il 1837 e il 1843 e si svolge negli anni 1821-22. Di anacronismi, del resto, sia detto per inciso, ce ne sono molti, tutti ugualmente intenzionali, perché Giannoli opera un sistematico sincretismo storico, per fare del suo film una specie di Citizen Kane dell’Ottocento.

10. Illusions perdues

Non gli importa, dunque, perché ha bisogno proprio di quella macchina. Enorme, imponente, deputata non alla produzione ma alla riproduzione su larga scala di testi, che si contrappone ai caratteri maneggiati nella stamperia all’inizio del film, per non parlare del piccolo quaderno e della matita. La rotativa diventa il simbolo del divorzio tra autore e testo, della completa deresponsabilizzazione dell’autore nei confronti della propria scrittura, le cui copie si moltiplicano e si diffondono a ritmo inedito senza il suo controllo (non a caso l’introduzione della rotativa nel giornale segue immediatamente la scena in cui è la scimmietta di Lousteau a scegliere quali libri affossare e quali promuovere). Ed è anche, ovviamente, il simbolo dell’automazione, della capitalizzazione e della riduzione a merce di cui parla Lukács.

11. Becoming Jane

La rotativa è dialetticamente correlata all’atto della scrittura, che è mostrato con insistenza, ma secondo una sceneggiatura antitetica all’idillio romantico. Non c’è lo scrittore isolato, auratico, la cui creazione è presentata come atto originale, che emerge liberamente spezzando vincoli e regole (fig. 11).

12. Illusions perdues

Qui la scrittura è socializzata, è sempre un atto che avviene in pubblico, in mezzo ad altra gente (nella redazione del giornale, a teatro, nell’appartamento di Florine), in mezzo a rumori e a vociare (fig. 12). È, insomma, completamente de-sacralizzata. E poi Lucien scrive solo articoli, recensioni, testi su commissione, pezzi di routine, “retroscena, pettegolezzi, battute beffarde”, precisa la voce fuori campo; e lo fa in maniera sempre più meccanica, ad un ritmo produttivo sempre più serrato (“dozzine di testi in pochi giorni”).

13. Illusions perdues

Tanto più la cinepresa indugia sulla firma di Lucien (fig. 13), che dovrebbe essere simbolo e sigla della sua soggettività, della sua individualità, quanto più l’atto della scrittura diventa il luogo di una cessione del sé, di un’alienazione in termini sociali, non psicanalitici. “Ciò che scriviamo è dimenticato immediatamente, poi diventa carta per avvolgere il pesce”, dice a Lucien Etienne Lousteau, il suo mentore lungo tutto il viaggio nei gironi dell’inferno di un capitalismo cognitivo ante litteram. Quando Lucien ha già abbandonato “Le Corsaire-Satan”, quando è già passato dal fronte liberale a quello monarchico, il proprietario del giornale a cui ha voltato le spalle rivendica una serie di articoli satirici contro i monarchici, già pagati e mai consegnati, garantendogli che li pubblicherà senza la sua firma. Mentre Lucien scrive, la voce fuori campo commenta: “La sua penna scorreva sulla carta anonima, come se non fosse lui a muoverla, come se non fosse lui a scrivere. Attaccare personaggi pubblici sbandierando la loro vita privata faceva ormai parte del circo giornalistico”.  

14. Illusions perdues

Illusions perdues (il film) è un anti-biopic letterario non solo perché adattamento di un romanzo ma, in maniera più radicale, perché usa il testo di Balzac per decostruire l’estetica neo-romantica da cui sono partita, mostrando al tempo stesso – attraverso i riferimenti intertestuali – come quel testo sia anche il ripensamento critico di una tale estetica colta da Balzac nelle sue contraddizioni fondative (estetica romantica tout court, dunque, senza bisogno di aggiungere prefissi). Nessuno come Balzac ha “giocato” con la firma, gli pseudonimi, le molteplici carriere, o ha mercanteggiato con altrettanta ferocia con le leggi del capitale. Nessuno sapeva meglio di lui che nell’Ottocento (o, meglio, dall’Ottocento) si scrive sempre dentro il sistema di relazioni mercificate. La straordinaria immagine che troviamo nella scena in cui il marito di Madame de Bargeton si reca da Lucien alla stamperia per fargli una scenata di gelosia e gli getta in faccia un calamaio di inchiostro, immagine su cui ancora una volta la macchina da presa si ferma, è un ritratto simbolico di Balzac, dello scrittore nell’epoca della capitalizzazione della letteratura (fig. 14). Se tanti biopic letterari sono in realtà poco più che rom-com, in Illusions perdues l’adattamento diventa (anche) biografia. 

“Un tour mozzafiato – ha detto Scott del film, spiegando la sua scelta nelle pagine del “New York Times” – dello squallido e seducente sistema mediatico moderno, in cui le reputazioni e le lealtà vengono comprate e vendute, il battage pubblicitario prevale sulla verità e il gossip fa girare il mondo. È la Parigi dell’inizio del XIX secolo, ma costumi e scenografie d’epoca non fanno altro che rendere più piccante la rilevanza del film nel contesto attuale”. Archeologia e passato prossimo sfumano dunque nel presente. E l’intertesto che ho ricostruito imprime a questa rilevanza un ulteriore giro di vite. Non sarebbe difficile, infatti, fare una critica sintomatica della recente fortuna del biopic letterario, mettendola in relazione con il contraddittorio statuto dell’autore nella società contemporanea. Da una parte esaltato, glorificato, personalizzato, individualizzato, attraverso la fitta rete dell’economia culturale – mostre, case-museo, turismo, festival, premi, presenza sulla scena pubblica – che ripropone l’autore come feticcio e al tempo stesso come firma, segno, brand, in una dinamica in cui si mescolano sacralità e strategie di marketing. La società contemporanea sembra avere bisogno dell’autore come origine, come vissuto, come pegno di un’ideologia – più che di un’estetica – dell’espressione, di cui il biopic letterario è parte integrante. Nello stesso tempo, un insieme di pratiche, fortemente influenzate dalle nuove affordance tecnologiche, dalle capacità infinite e polimorfiche di quel meta-medium che è il computer (Lev Manovich), tendono invece a ridimensionare il ruolo e la figura dell’autore come fonte, come sede di un atto creativo originale, unico, irripetibile, che emana dall’interiorità di un singolo individuo. Tali pratiche vanno dalla disponibilità delle funzioni copia e incolla ai traduttori elettronici e a ChatGPT; dai software per generare narrazioni, o da tutte le innumerevoli forme di remix, rifacimento, prelievo, plagio, che hanno assunto un ruolo così importante negli ultimi decenni, alle questioni di copyright che internet solleva e alla disponibilità, inedita storicamente, del grande archivio culturale, che ti ripete di continuo che tutto è stato già fatto e che basta cliccare su un tasto per prendertene un pezzo.

E allora ci si potrebbe chiedere se il biopic letterario non risponda a una forma di nostalgia, di paura, o se non incarni un tentativo di “regolare” – attraverso una messa in scena sentimentale, “poetica” e vintage – queste tensioni. Comunque stiano le cose, Giannoli ha imboccato un’altra strada, scegliendo di drammatizzare, oggi, attraverso Balzac, lo scrittore degradato, lo scrittore forza-lavoro, lo scrittore macchina, con la faccia, non semplicemente la mano, sporca di inchiostro. 

Donata Meneghelli

insegna Letterature comparate e Letteratura e studi visuali all’Università di Bologna. I suoi interessi di ricerca includono la narrazione, la teoria e la storia del romanzo, le riscritture e le forme di espansione narrativa, l’adattamento cinematografico, l’intermedialità, i rapporti tra letteratura e visualità e tra letteratura e cultura materiale. Oltre a moltissimi saggi in prestigiose riviste italiane e internazionali, ha pubblicato: “Una forma che include tutto. Henry James e la teoria del romanzo” (il Mulino 1997), “Teorie del punto di vista” (La nuova Italia 1998), “Storie proprio così. Il racconto nell’era della narratività totale” (Morellini 2013), “Senza fine. Sequel, prequel, altre continuazioni” (Morellini 2018).

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