Beato chi li distingue

03/03/2023

Il 3 marzo apre al MAN di Nuoro la mostra Twelve ee h s nine. Dolmen e Menhir in Sardegna di Olivo Barbieri. Dalla Fondazione di Sardegna l’artista è stato invitato sull’isola a intraprendere tre viaggi nell’arco di due anni, decifrando una bolla spazio-temporale tra archeologia e immaginario contemporaneo. Oggetto della ricerca è il patrimonio composto da numerosissimi megaliti, dolmen e menhir disseminati sull’isola, secondo logiche ancora non chiare agli studiosi, osservati nella loro capacità di modificare lo spazio che li circonda. Dice Barbieri a Chiara Gatti, direttrice del museo e curatrice della mostra insieme a Marco Delogu: «ho lavorato e riflettuto molto sulla modificazione dello spazio attorno a ogni reperto, come le epoche siano trascorse sovrapponendo innesti, strati, passaggi. È un racconto temporale sincretico». Accompagna la mostra un libro con 105 fotografie edito da Punctum Press con testi di Riccardo Cicilloni, Marco Delogu e Franco Carta; presentiamo qui il testo di Andrea Cortellessa.

Nell’estate del 1855, all’amico Louis Bouilhet (che resterà sempre il suo più fidato consigliere letterario), Gustave Flaubert annuncia di star lavorando a un Dictionnaire des idées reçues. Ma solo una ventina d’anni dopo, nel ’74, metterà mano a una sua versione narrativa cui darà il titolo Bouvard et Pécuchet (il libro, incompiuto e forse incompletabile, uscirà solo dopo la sua morte, nel 1882; il Dictionnaire, suo indispensabile complemento, vedrà la luce solo nel 1911). Flaubert era ossessionato dalla stupidità umana, quella che chiamava la nostra bêtise, e le ha dedicato il suo libro più disperato: ancorché e proprio in quanto unico dei suoi a riuscire, alla lettura, sfrenatamente comico.

Mi ha raccontato Olivo Barbieri che proprio quella di Bouvard e Pécuchet, nella sua formazione, è stata fra le letture che più gli hanno salato il sangue (prima o poi sarà il caso di farne un regesto). Nel quarto capitolo del romanzo di Flaubert, con la meticolosità che è loro propria, i due eruditi di provincia, che si piccano d’impadronirsi di ogni disciplina, decidono di dedicarsi all’archeologia; e la loro casa, così, diventa simile a un museo. Oggetti forse davvero preziosi si alternano a cianfrusaglie da mercato delle pulci, vecchi libri coperti di polvere a monete corrose dal tempo, due noci di cocco conservate dai tempi della giovinezza, conchiglie specchi nidi d’uccello, candelabri serrature bulloni dadi. Esplorano ogni angolo di Francia alla ricerca di capitelli romanici e torri carolingie, e sprofondando sempre più indietro nel tempo giungono alla civiltà dei Celti che le fonti da loro compulsate, fra mille contraddizioni, indicano come la prima e originaria insediatasi nella loro terra. Scoperto fra le loro carabattole quello che interpretano come un «bacile druidico», non possono resistere al richiamo della Bretagna e della Normandia, dove quell’antico popolo avvolto nel mistero ha lasciato tracce enigmatiche in forma di pietre: «isolate o a gruppi di tre, o disposte a formare gallerie o recinti». La ripetitività delle loro forme rischia di annoiarli, ma si riempiono di un «sacro fuoco» quando da certi dettagli si convincono che in quei siti si consumavano riti sanguinari, forse anche sacrifici umani: «servivano per far scolare il sangue, non c’era alcun dubbio! Il caso non produce cose del genere».

Il «bacile druidico», e in genere i manufatti dell’«archeologia celtica», diventano per Flaubert emblemi di un’interrogazione interminabile, e dunque oziosa, su quanto allo stato delle nostre conoscenze permane indecidibile. Quando quelle forme evocano loro quell’altro mistero che è la vita, i suoi due eroi si convincono che «il tumulo simboleggia l’organo femminile, così come la pietra eretta l’organo maschile»: da quel momento «le torri, le piramidi, i ceri, i cippi delle strade e gli stessi alberi simboleggiano il fallo – e per Bouvard e Pécuchet tutto divenne fallo». Flaubert non ha fatto in tempo a conoscere la psicoanalisi, ma si può immaginare cos’avrebbe pensato di quegli artisti e scrittori che con tanto zelo le si ispireranno. Quello che James Clifford ha chiamato «surrealismo etnografico» si appassionerà senza remissione alla collezione dell’eteroclito, all’accostamento selvaggio e alla misteriosofia dell’objet trouvé: nell’Amour fou André Breton vedrà in un enigmatico copricapo, scovato appunto al mercato delle pulci in compagnia di Alberto Giacometti, la chiave universale del mistero dell’eros.

Eppure Bouvard e Pécuchet non sarebbe il capolavoro che è, se si limitasse a satireggiare la bêtise di questa pseudo-couple (alla quale quasi un secolo dopo, con ogni probabilità, s’ispirerà Beckett per i suoi Estragon e Vladimir, i suoi Clov e Hamm). Come nell’illusione autodistruttiva di cui era stata preda Emma Bovary, Flaubert riconoscerà con un brivido qualcosa di sé, e di tutti noi, nella desultoria bulimia di conoscenza dei suoi cavalieri erranti; mentre scrive delle loro gesta confessa a un’amica: «Bouvard e Pécuchet mi riempiono a tal punto che sono diventato loro! la loro stupidità è la mia e ne scoppio». La bêtise è la sigla universale di quello che Leopardi aveva per tempo chiamato «secol superbo e sciocco»: sua degna erede, certo, la tecnocrazia del nostro tempo che della scienza, così contraddicendola alla radice, ha fatto una fede. Vent’anni prima, nella lettera a Bouilhet che abbiamo già incontrato, Flaubert aveva chiaro che «la bêtise non sta da una parte, e l’intelligenza dall’altra. È come il Vizio e la Virtù. Beato chi li distingue».

Sapeva bene di cosa parlava: perché a suo tempo, quel viaggio di Bouvard e Pécuchet alla ricerca dei misteri di Bretagna, l’aveva fatto pure lui. Ci era andato nella primavera del 1847, venticinquenne, esplorandola per lo più a piedi in compagnia di un altro inseparabile amico, Maxime Du Camp, col quale tre anni dopo partirà per un ben più impegnativo, e celebre, viaggio in Egitto. In quell’occasione Du Camp porterà con sé uno dei primi apparecchi fotografici, un macchinone ingombrante dal quale non si separava mai destando l’ilarità pungente dell’amico. Più avanti ricorderà che lui «non guardava niente e ricordava tutto»: gli scatti che Du Camp si affannava a realizzare col suo attrezzo primitivo, Flaubert li faceva con la mente.

In Bretagna non è ancora tempo di pionierismo fotografico ma il testo che i due amici scrivono a quattro mani, Par les champs et par les grèves, redigendo l’uno un capitolo e l’altro il successivo, mostra già benissimo la differenza dei rispettivi sguardi. Mentre Du Camp qualche anno dopo pubblicherà i propri pezzi sulla sua «Revue de Paris», Flaubert preferirà lasciarli in fondo a un cassetto (il libro uscirà solo nel 1885, postumo come Bouvard et Pécuchet: che – anche fisiognomicamente – si ricorderà senz’altro di quei novelli Chisciotte – Maxime – e Sancio – Gustave). Con una sola eccezione: appunto il passo del quinto capitolo del libro, dedicato alle «grandi pietre nere», che utilizzerà per un articolo pubblicato nel ’58 sulla rivista «L’Artiste».  

A colpire i due amici è per prima cosa l’omonimia fra uno dei più celebrati siti di costruzioni megalitiche, appunto Carnac (il nome della località a quanto pare deriverebbe proprio dal cairn, il rivestimento in pietrisco che riveste i dolmen), e il celeberrimo tempio di Karnak in Egitto (magari proprio per questo decideranno di dirigersi lì, al ritorno dalla Bretagna…). Ma subito si pongono la domanda che da secoli si fanno tutti coloro che quelle pietre si trovano a contemplare: «a cosa servono? sono sepolcri? oppure templi?». Proprio come capiterà a Bouvard e Pécuchet, che studiano tutto senza concludere nulla, annota il giovane Flaubert che a ciascuno che le guardi, quelle pietre mute, dicono qualcosa di diverso: lo studioso di storia naturale vi vedrà una raffigurazione del mitico serpente Pitone, l’astronomo quella dello zodiaco eccetera. Ironizza sull’ebbrezza nominalistica cui si abbandonano quelli che chiama «Celtomani», mai paghi di distinguere non solo fra dolmen e menhir, ma anche i lichaven dai cromlech, i borrows dai galgals eccetera.

Non manca di pagare il proprio tributo, il futuro narratore, alle virtù dell’«immaginazione», capace di prendere il volo come «l’Ippogrifo»; ma quando l’immaginazione pretende di dettar legge, e dare un significato univoco a oggetti che «non hanno forma e sono privi di storia», non fa che dar fiato alla «vanità dei chiacchieroni». Il nucleo del libro a venire, si capisce, è tutto qui. E così conclude, Flaubert, col suo sorriso più sarcastico: «dopo aver esposto le opinioni di tutti i luminari che ho citato, se mi si domanda quale sia la mia congettura sulle pietre di Carnac, dal momento che tutti paiono averne una, ne farò una irrefutabile, indiscutibile, irresistibile, […] un’opinione che cancella lo zodiaco di Cambry e fa a pezzi il serpente Pitone. La mia opinione è questa: le pietre di Carnac sono delle grosse pietre».

Nel 1985 Olivo Barbieri compie a sua volta il proprio pellegrinaggio nel nord della Francia; e pubblica una prima serie di immagini di dolmen e menhir, alternando loro versioni a colori ad altre in bianco e nero (sono in Rilevamenti, testo di Roberta Valtorta, BT&C, Carpi 1985; poi in Olivo Barbieri Fotografien seit 1978, testo di Jan Thorn-Prikker, Museum Folkwang, Essen 1996). Forse era questo il suo modo di restituire il conflitto delle interpretazioni che – allora forse più di oggi: basti pensare al profluvio di pagine scritte sul sito inglese di Stonehenge, che l’anno dopo entrerà nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’UNESCO – da sempre avvolge questi oggetti. Più probabile che intendesse mettere alla prova, in questo modo, i suoi dubbi su uno dei dogmi ancora vigenti, allora, riguardo all’artisticità della fotografia; la sua scelta per il colore, di lì a poco, sarà senza equivoci.

Le fotografie dell’85 sono molto diverse, si capisce, da quelle realizzate nel 2021 raccolte in questo libro. Eppure nelle due serie si nota un interesse comune che resterà sotteso a ogni ricerca di Barbieri, a ogni suo viaggio “flaubertianamente” autoironico alla ricerca del senso del mondo. Già in quella prima visione, infatti, questi protomanufatti umani si trovano giustapposti a quell’altra forma verticale, a quell’altra interpunzione del paesaggio che è l’albero: così facendo riflettere l’osservatore sull’ambiguità fra natura e conoscenza, fra materia e artificio, fra ordine e caso, che ci suggeriscono queste forme primarie erette in epoca neolitica.

È un’agudeza, questa di Barbieri, che ricorda il gusto manieristico e barocco per la pittura su pietra (una grande mostra alla Galleria Borghese di Roma, Meraviglia senza tempo, ha riscoperto pochi mesi fa questo repertorio affascinante, imaginifico sino al delirio). Già Leonardo, in una pagina celebre, aveva attirato l’attenzione sulla possibilità di vedere dipinte, su certi «muri imbrattati di varie macchie o pietre di vari misti», le forme di «montagnie, fiumi, sassi, albori, pianure, grandi valli e colli in diversi modi», se non addirittura «diverse battaglie e atti pronti di figure, strane arie di volti e abiti e infinite cose». È quell’attitudine a trovare un ordine nel caso, invincibile nell’animo umano, che la psicologia moderna definisce «pareidolia»: e che appunto uno psicologo di Zurigo, Hermann Rorschach, nel 1921 impiegherà nel test che da lui prenderà il nome. Siamo tutti un po’ Bouvard e Pécuchet quando ci illudiamo di scorgere delle forme sensate nelle nuvole che si aggregano casualmente in cielo, o i disegni di costellazioni mitologiche nelle luci emesse da corpi celesti in tempi diversi e a distanze immani fra loro. Già Plinio il Vecchio definiva quella delle pietre «la massima follia degli uomini» (ma, con “flaubertiana” ambiguità, alla mineralogia dedicava gli ultimi cinque dei trentasette libri di cui si compone la sua Naturalis Historia).

Libri celebri di grandi eruditi moderni come Jurgis Baltrušaitis e Roger Caillois hanno ripercorso questa tradizione: lapidari se ne compilano per tutto il Medio Evo (quello di Alberto Magno fece testo sino al Museum metallicum di Ulisse Aldrovandi, uscito postumo nel 1648), e in ognuno di essi torna la meraviglia per le forme bizzarre che pare di scorgere nei tagli delle pietre (come nel caso forse più celebre, quello della grotta della Natività a Betlemme, dove viene scorta l’immagine di un vecchio barbuto e incappucciato che si volle riconoscere in San Girolamo). L’ineffabile Athanasius Kircher, nell’Ottavo libro del suo Mundus subterraneus (1664), cataloga le pietre figurate secondo le loro forme e ne spiega la genesi con l’intervento di volontà divine e angeliche.

Il fascino di questo repertorio deriva infatti, si capisce, dalla ricorrente credenza che la natura sia qualcosa di scritto (o, in questo caso, disegnato): quello del «mondo come libro» è fra i tòpoi più fascinosi di quell’inesauribile atlante di antropologia storica che è Letteratura europea e Medioevo latino di Ernst Robert Curtius (da poco riproposto da Quodlibet) e Hans Blumenberg, nella Leggibilità del mondo, ne ha illustrato il significato filosofico (e ideologico): dal Fedone platonico ai «geroglifici» romantici passando per le Enneadi di Plotino, le eresie gnostiche e Il Saggiatore di Galileo, presupposto di questa tradizione è infatti che, se quella del mondo è una Scrittura, prima o poi se ne dovrà riconoscere un Autore: Deus absconditus nel cuore stesso della terra che abitiamo. Una pietra sedimentale diffusa in Val d’Arno ha preso il nome appunto dai paesaggi che, una volta tagliata, pare di vedervi iscritti: e si chiama, ancora oggi, «pietra paesina». Faceva impazzire gli amatori, a cavallo del Seicento, l’ambiguità tra sfondo e figura, tra natura e artificio, tra materia e invenzione: tutte quelle cioè che Baltrušaitis definisce, nel titolo di un suo bellissimo libro che comprende un capitolo proprio sulle pitture su pietra, Aberrazioni.

Non riesco a immaginare temperamento meno incline, a questo tipo di mistica, di uno come Olivo Barbieri. Eppure, parlando di alberi (per esempio dell’emblema del cipresso piegato dal vento, osservato onnipresente nei luoghi di ritrovo nel corso dei suoi primi viaggi in Cina), li definisce «oggetti di resistenza»: al pari appunto dei dolmen e dei menhir che restano, nel loro silenzio ostinato, perfettamente immutati nei secoli e nei millenni (e non conta che in Francia e in Inghilterra vengano museificati e feticizzati, mentre in Sardegna è ancora possibile imbattersi per caso, senza cornici e senza etichette, nelle loro forme che spuntano enigmatiche dall’orizzonte).

Il gusto ironicamente “aberrante” di Barbieri, che attenua in ogni immagine la distanza fra natura e artificio sino a renderli indistinguibili, si nota per esempio nelle fotografie delle case di Sedini, scavate nella nuda roccia, che nella stessa località “rimano” con altre costrette in una sede tanto profilata, dalla rete viaria, da apparire appunto una pietra megalitica.

Oppure nella fotografia al dolmen di Sa Coveccada, rivestito da un’impalcatura incompiuta – come lo sono di frequente, ahinoi, quelle nel nostro Mezzogiorno – che a un occhio distratto può apparire antica quanto l’oggetto che circonda. Il colossale tronco sradicato e tagliato, fotografato a Escovedo Usellus, pare a sua volta una scultura di proporzioni colossali (e in qualche misura, asportato dalla sua sede da mano umana, in effetti lo è).

Fra le mie preferite ci sono le immagini del cosiddetto «Binishell»: la fantascientifica cupola che un architetto visionario, Dante Bini, costruì a Costa Paradiso, all’inizio degli anni Settanta, come dimora estiva di Michelangelo Antonioni e Monica Vitti (cfr. «Domus» 1026, luglio-agosto 2018). Lo stato di abbandono in cui la costruzione ha versato per decenni ha fatto sì che l’intonaco ha ceduto al maestrale e il calcestruzzo alla salsedine: così che, mentre al suo interno la Casa mantiene più o meno il décor informale quanto avveniristico voluto dal gusto hip degli illustri committenti, da fuori appare a sua volta, ormai, una concrezione calcarea naturale. La “rinaturazione” del sito, come va di moda definirla oggi, per ironia della sorte ricrea l’analogia con la quale – si dice – Bini sedusse la Vitti, incontrata una sera del ’64 a Cortina: in riva al mare la dimora estiva della coppia, colla sua semplice struttura semisferica, non sarebbe stata altro che l’ingrandimento di una conchiglia rovesciata.

I due, che l’alterna vicenda delle amorose sorti porterà ad abitare la casa solo separatamente, s’erano innamorati del luogo giusto quell’anno, durante le riprese di Deserto rosso. E in effetti in quel film l’episodio indimenticabile della «spiaggia rosa» sull’isola di Budelli, nell’arcipelago della Maddalena, ha il valore di una risposta irrazionale, per non dire mistica, all’orrore ammaliante che i colori acidi dell’industrializzazione moderna hanno sversato sull’hinterland di Ravenna (per quel suo primo film a colori Antonioni, si sa, scelse di dipingere gli alberi con vernici fosforescenti dalle tinte allusivamente malsane). Quei colori abbacinanti di cui pure era capace la natura, quelle rocce biomorfe che emergono da acque di stupefacente limpidezza evocavano a Vitti, la Giuliana del film, una visione edenica, la fiaba che racconta al suo bambino: «c’era una bambina che viveva in un’isola. A stare coi grandi si annoiava, e poi le facevano paura. I ragazzi della sua età non le piacevano perché giocavano a fare i grandi. E così stava sempre sola. Tra i cormorani, i gabbiani, i conigli selvatici. Aveva scoperto una piccola spiaggia lontano dal paese dove il mare era trasparente e la sabbia rosa. Voleva bene a quel posto: la natura aveva dei colori così belli, e niente faceva rumore».

Nessun artista di quel tempo, a parte forse Alberto Burri, ha saputo restituire la bellezza oltraggiosa e violenta, la grazia aberrante di un mondo definitivamente snaturato, coi colori sprezzanti e disperati di Antonioni. Eppure anche lui non ha resistito alla tentazione di «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio», come scriverà qualche anno dopo nelle Città invisibili uno scrittore a lui vicino per non dire fraterno, Italo Calvino. E lo trovò in Sardegna, quello spazio, Antonioni.

Nelle fotografie realizzate in Sardegna da Barbieri, questa resistenza all’inferno del tempo la troviamo soprattutto negli alberi le cui forme aggraziate e melodiose più ci ingannano – più ci appaiono opera dell’uomo. Paiono dei Fausto Melotti i suoi alberi di sughero: come quello fantastico di Goni, la cui forma pare scolpire quella di un animale in tensione, pronto a balzare in avanti. E si devono in effetti alla mano dell’uomo quelle sculture involontarie, ma meravigliose, che sono le sughere scortecciate di Sorgono. Magnifiche le sfumature di rosso che scandiscono in questo modo i tronchi; e involontarie opere d’arte, davvero, sono queste decorticazioni eseguite sulle piante a cadenza decennale, per trarne il sughero che viene esportato in tutto il mondo. Va posta in ogni caso una cura infinita nell’eseguirle, per evitare di danneggiare gli strati più interni della corteccia: un tocco d’accetta meno delicato rischierebbe di uccidere la pianta.

Mi colpisce in modo ineffabile, confesso, il paragone che impiega Flaubert nella lettera a Bouilhet che già più volte ho citato. Persino in quel cimitero dell’intelligenza che è il libro sui due infaticabili copisti intenti a trascrivere lo scibile umano, persino in quel claustrofobico magazzino della vanità di ogni conoscenza, persino in quella cronaca quieta dell’entropia cui catastroficamente volge ogni nostro costrutto mentale, baluginano a tratti frammenti di natura – tanto più struggenti quanto più rari. Come quelli che lo scrittore fa lampeggiare scrivendo all’amico: «e poi, non ci sono forse il sole (persino il sole di Rouen), l’odore del fieno tagliato, le spalle delle donne di trent’anni, il vecchio libro accanto al fuoco e le porcellane cinesi? Quando tutto sarà morto, con dei pezzetti di midollo di sughero e dei frammenti di vaso da notte l’immaginazione ricostruirà mondi».

Le pietre di Sardegna, d’accordo, non sono che delle grosse pietre. Ma l’uomo che le guarda non può trattenere lo slancio d’Ippogrifo della sua immaginazione. Basta un truciolo di sughero per ricostruire il mondo.    

OLIVO BARBIERI
Twelve ee h s nine – Dolmen e Menhir in Sardegna
a cura di Marco Delogu e Chiara Gatti
MAN, Nuoro
dal 3 marzo al 25 giugno 2023

In copertina: Olivo Barbieri, Nuoro, 2022

Andrea Cortellessa

(Roma, 1968) critico e saggista. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma Tre; nel 2018 ha tenuto la «cattedra De Sanctis» al Politecnico di Zurigo. Ha pubblicato saggi, curato testi e realizzato trasmissioni radiofoniche e televisive, spettacoli teatrali e musicali. È nella redazione del «verri» e collabora ad «Alias», «Il Sole 24 ore», «Tuttolibri», «doppiozero», «Le parole e le cose2» e altre testate.

English
Go toTop