Dahl, tradire e tradurre

01/03/2023

È vero, nella versione originale di “Charlie and the chocolate factory”, gli Oompa Loompas erano «black pigmies», pigmei neri che Willy Wonka trafficava dalla «deepest and darkest part of the African jungle», dalla zona più profonda e nera della giungla africana. Era il 1964 e dieci anni dopo, nel 1973, Roald Dahl stesso modificò l’aspetto di quegli esseri mutandoli in piccole fantastiche creature. Ora Dahl non è più tra noi e chi, per lui, si occupa delle nuove edizioni dei suoi libri, ha deciso di apportare alcune modifiche ai testi di uno degli scrittori più amati e letti degli ultimi 50 anni. Volutamente non ho usato la specifica “per ragazzi”. “Le streghe”, “Il GGG”, “Gli sporcelli”, “Matilde”, “Charlie e la fabbrica di cioccolato”: mi pare che più o meno tutti abbiamo letto i suoi libri da ragazzi e chi non lo ha fatto – come me, per esempio – ha poi recuperato da adulto, trovandoci ancora un certo immarcescibile gusto, estetico e letterario. Al netto del polverone sollevato da questa operazione, non possiamo che essere sollevati dalla centralità che ha finalmente assunto da alcuni anni a questa parte quella che viene definita “letteratura per ragazzi” per distinguerla dall’altra letteratura, dall’alta letteratura. Ed è per questo motivo che persino Salman Rushdie ha twittato contro la decisione della Roald Dahl Story Company – la compagnia che detiene i diritti dell’autore – e di Puffin Books – l’editore dei libri di Dahl – definendola una «absurd censorship». Dal 2021 Netflix ha acquisito la totalità della “azienda Dahl”: inutile commentare, sono affari anche quelli editoriali, è un’industria anche quella del libro. Inutile gridare allo scandalo: è utile soltanto qualche riflessione.

Una volta mi invitarono a una lettura di poesie a Roma. Quando arrivai c’era già sul posto un giovane alto, un attore, che era stato incaricato di leggere i testi selezionati. Ci presentammo e gli chiesi quali versi avesse scelto. Quando me li mostrò, fotocopiati, gli chiesi se avesse avuto difficoltà a leggere correttamente alcuni termini, dal momento che il mio libro conteneva parole del mio dialetto del basso Lazio: lui era di origini bresciane. Mi rispose di no: aveva deciso di non leggere i versi che ne contenevano. Gli domandai cosa intendesse: semplicemente li avrebbe “saltati”. Puff, spariti. Trattenni a stento una risata tra l’isterico e il sorpreso, e alla fine lo convinsi ad allenarci insieme a pronunciare insieme quelle parole, così poté leggere il testo originale senza snaturarlo.

Le modifiche oggi proposte alle opere di Dahl, di gran lunga più celebri delle mie, sono state effettuate a partire dal lavoro dei cosiddetti “sensitivity readers”, figure presenti da qualche anno nel mondo anglosassone che si occupa di verificare l’effettiva veridicità e verosimiglianza dei personaggi e dei fatti narrati. Primo errore: confondere la letteratura per cronaca. Se volessi leggere cronaca comprerei un quotidiano, una rivista, un saggio – e in quest’ultimo caso dovrei anche stare attento a verificarne le fonti. Ma in un’opera letteraria non devo consultare alcuna fonte che non sia la fantasia e l’intenzione dell’autore. Eliminare un aggettivo come “fat” al personaggio di August Gloop de “La fabbrica di cioccolato” non cancella l’immagine che ci formiamo di lui. E questo accade perché ci stiamo concentrando sul segno piuttosto che sul significato, non facendo altro che confermare un tabù legato alla “grassezza”. Sostituendo una frase come questa da “Le streghe”, «Che faccia la cassiera in un supermercato o la segretaria in un ufficio […]» con la più politicamente corretta «Che sia una grande scienziata o gestisca un’attività […]» non facciamo che confermare un certo snobismo nei confronti di chi di lavoro fa la cassiera o la segretaria, piuttosto che dare dignità a ciascun mestiere.

È in fasi storiche come questa che possiamo avvertire una certa sudditanza della parola alla intraducibilità delle immagini. Se i testi letterari fossero un dipinto, sarebbe impossibile toccare un testo originale come non si potrà mai “correggere” uno tra quei brutti personaggi che popolano le opere di Hieronymus Bosch, o imbellire la “Donna grottesca” di Quentin Metsys del Cinquecento, la “Donna col Marito” di Jusepe de Ribera del Seicento – la signora barbuta che allatta il figlioletto – o ancora certe sformate figure di Edward Munch. Che fine facciamo fare all’obeso Ciccio di nonna Papera, cugino di Paperino, a Poldo Sbaffini di Braccio di Ferro che divora hot dog uno dietro l’altro? Immaginiamo una delle scene più iconiche di “The Young Pope” di Paolo Sorrentino censurate perché il cardinale Voiello, Segretario di Stato, alias Silvio Orlando, ha una attrazione impura, viscerale, quasi carnale per le forme generose (e sovrappeso) della Venere di Willendorf.

In una delle primissime versioni della celebre fiaba a noi nota come “Il gatto con gli stivali”, l’autore, Giambattista Basile, non risparmia aggettivi pesanti per uno dei protagonisti della sua novella, dal titolo “Cagliuso”. Cagliuso è il figlio di un uomo talmente povero che può lasciare in eredità soltanto un gatto, eppure questo gatto si rivela avere strani e importanti poteri, che decreteranno la sua fortuna e l’emancipazione da una situazione di estrema povertà. Ebbene, nell’incipit della storia raccolta ne “Lo cunto de li cunti” del 1634, quel vecchio è descritto come «pezzente, che era così spiantato, stremato e disperato, così trito, brullo e senza l’ombra di un grano nell’ombra della borsa, che andava nudo come il pidocchio». Alla fine della vicenda, diversa da come la conosciamo noi oggi, il gatto muore, anzi, colpo di scena: il gatto si finge morto per assistere alla reazione del suo padrone che gli aveva promesso di tenerlo sempre accanto a sé e venerarlo. Cagliuso, invece, arricchitosi, ordina alla moglie di buttarlo dalla finestra, così il gatto si risveglia e gli urla in faccia le parole più brutte e divertenti che abbia mai sentito pronunciare a un felino: «Questo è il ricambio d’averti posto in forma di ragno, e di averti sfamato, pezzente, straccione? Che eri sbrindellato, strappato, sfilacciato, cencioso e pidocchioso!». E questa è “solo” la traduzione in italiano di un napoletano barocco, sfavillante e strafottente. Anche se conosciamo un gatto con gli stivali diverso da questo, persino il più recente prodotto, ironia della sorte, sempre da Netflix, nessuno ha intaccato la versione originale di Basile. Non dimentichiamo che la letteratura, anche la letteratura per l’infanzia e per l’adolescenza, risiedono originariamente fuori dalla pedagogia: è la pedagogia che, al contrario, abita dentro le migliori opere letterarie, artistiche, musicali. Perché letteratura, arte, musica ci in-segnano: etimologicamente si imprimono all’interno di noi, ci segnano dentro.

Rodolfo Di Biasio, scrittore che considero tra le persone che più mi hanno insegnato non a comporre versi, ma a sentire il verso, era solito ripetere: la poesia è resistente. La letteratura, l’arte è resistente al tempo. Pensai da subito alla poesia, alla letteratura e all’arte come a un monumento, e al tempo come a un agente atmosferico che provava a eroderlo. Il testo, l’opera è questo monumento, e non sono gli agenti sociali e culturali a eroderlo: sono piuttosto quest’ultimi destinati a mutare, mentre il monumento sopravvive al mutamento. Chi ha voluto dare voce alle silenti donne del mito, non ha toccato l’opera originale, l’ha riscritta. Chi ha voluto dare una lettura contemporanea di certe opere liriche, non mette mano al libretto: le riscrive, rileggendole con una regia che porta il suo nome e aggiungendo una voce. Chi volesse guardare a “Charlie e la fabbrica di cioccolato” dal punto di vista di August Gloop, avrebbe l’opportunità di riscrivere l’opera, di dare voce alla fornace di cioccolato che quel bambino incarnava, alla fame di dolci o alla fame di attenzioni, aggiungendo una voce che Dahl non aveva contemplato.

Puffin Books, che è controllato dal colosso (si potrà dire “colosso”?) dell’editoria Penguin Random House, ha scritto una breve nota sul colophon dei libri di cui ha modificato il testo: «Le parole sono importanti. Le magnifiche parole di Roald Dahl possono trasportare in mondi diversi e far conoscere personaggi meravigliosi. Questo libro è stato scritto tanti anni fa e quindi ne rivediamo regolarmente il linguaggio per assicurarci che possa essere apprezzato da tutte le persone anche oggi». La novità dell’ultima ora riguarda il fatto che sul mercato si troveranno disponibili entrambe le edizioni: come dire, il lettore può scegliere tra l’originale e il culturale. Gallimard Jeunesse, invece, ha deciso di non modificare le traduzioni in francese di Dahl. A Salani, che in Italia pubblica le opere dello scrittore-aviatore britannico, tradire o tradurre.

Tutte le illustrazioni che accompagnano il testo sono disegni di Quentin Blake, realizzati per vari racconti di Roald Dahl.

In copertina: Quentin Blake, Charlie and the Chocolate Factory, 1964

Simone di Biasio

(Fondi, 1988) è giornalista, scrittore e ricercatore all’Università Roma Tre, dove si interessa di storia della pedagogia e letteratura per l'infanzia e l'adolescenza. Tra le sue pubblicazioni “Guardare la radio. Prima storia della radiovisione italiana” (Mimesis, 2016) e tre raccolte in versi (“Panasonica”, Il Ponte del Sale, 2020). Per diverse riviste si occupa di prosa, poesia, arti visive e dei rapporti tra parola e immagine in letteratura.

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