È da Venezia che apro questa testimonianza sul poeta Lorenzo Calogero. Scrivo dall’altro mare, quello Adriatico, il suo era quello Tirreno, quello che merletta una parte delle coste calabre. Come si può parlare della sua terra se non attraverso il mare. Il suo scrivere è stato un ininterrotto movimento di sillabe aride come sa essere solo il mare. Le sue parole ci lasciano soli senza approdi, ci ha lasciati soli a bruciare nel sale. Non c’è terra nelle sue righe, solo mulinelli che vorticosamente ci stordiscono in un groviglio di onde di un mare che ignoriamo.
Calogero ha scritto le sue poesie allo stesso modo del mare che colora una conchiglia; le righe dei suoi ottocento quaderni non sono altro che le impronte delle onde del mare impresse sulla sabbia a riva. Da questo mare è sorto l’inchiostro della sua vista che scrive con la punta degli occhi nello spazio. Le sue parole restano sempre sconosciute, come il nome del paese in cui nacque, Melicuccà. Ha strizzato il midollo osseo del verbo, è da quel midollo che si secreta e amplifica il conio delle lettere, facendo scivolare la forma di esse nel padiglione del nostro orecchio.
Qualcuno nel tempo si è divertito a sdentare la bocca con cui parla il nostro Paese, la Calabria. Le Calabrie sono le corde vocali che salgono verso gli sfiatatoi di spazi vuoti tra un dente e l’altro di questa bocca. Ogni poesia di Lorenzo Calogero è lo sforzo di ricomporre la chiostra dei denti e incastonarli nelle mandibole, per far masticare di nuovo con coscienza il linguaggio. E di questo sforzo anzitempo mi sembra non si sia accorto quasi nessuno. In vita ricevette solo un premio, tardi, quello a Villa San Giovanni. In un soprassalto coscienzioso Giuseppe Ungaretti ammise che «questo Lorenzo Calogero ci ha diminuiti tutti».

Il «caso Calogero» evidenzia l’impegno distratto di chi dovrebbe portare alla conoscenza ciò che non si conosce, pensando poi alla poesia di un calabrese… si saranno detti… un calabrese? Melicuccà? e chi è questo… moneta che non paga. Da un luogo fondato come rifugio eremitico in epoca bizantina, Melicuccà, apparivano i bagliori, per me, della poesia più alta e inclassificabile d’Italia, misteriosamente europea. Ogni sua parola si stempera nello scintillio dell’acqua, a indicarlo è il mare.
Forse è anche un bene che chi dovrebbe svelarci quanto ci è sconosciuto ci descrive sempre ciò che è già conosciuto, dal copione della facile riproduzione dello scaduto.
Le raccolte poetiche di Calogero si presentano a noi ora come vitalità del verbo, di qualcosa che con la sua pronuncia inesplorata ci identifica e schiarisce le corde vocali degli occhi, allontanandoci da una inferma figurazione. Percorrendo le sue poesie ho immediatamente avuto la sensazione che si schiariva la voce della vista, non mi tossivano più le palpebre. Gli occhi si trasformavano nelle labbra del visto e potevo di nuovo verbalizzare lo sguardo. Ciò che si conosce viene a noia: quanta vita in tutto ciò che ci resta ignoto.

Le poesie di Lorenzo Calogero ci guardano come ci guarda ciò che vediamo attraverso una finestra: occorre pulire il vetro che ci separa da ciò che vediamo. Basta poco, un’attenta coscienza nel susseguirsi degli istanti della nostra vita. Ogni sua poesia è implacabile, è un occhio che spacca le pietre con le mani scrivendo su un foglio. La cataratta del tempo consuma gli occhi delle cose fatte, che sia musica, pittura, letteratura, architettura, cinema… ben altro ancora. Il più delle volte, con la scomparsa dell’autore, le cose chiudono gli occhi e non ci guardano più. In altre nature di autori capita il contrario: al loro scomparire, gli occhi del lavoro compiuto ci guardano con rinnovato stupore. Hanno l’energia di evitare le cataratte del tempo. Quel lavoro diventa un lucido alfabeto di verbo e figure, suoni scanditi di nuove partenze. Forse bisogna ringraziare l’assordante silenzio di chi poteva farci conoscere questa natura di lavoro; quel mancato riconoscimento scorre lungo tutta la vita di questi autori.

La coscienza distratta degli studiosi spinge il lavoro in quel limbo che chiamo «sorpresa». Un lavoro forse non dovrebbe mai essere conosciuto una volta per tutte, bensì continuamente scoperto come «sorpresa». Le poesie di Calogero sono tavole ottiche: ha saputo disegnare i prospetti di colonne per stiliti, a ogni colonna sul capitello è seduta una parola, nell’eremitica terra di Calabria; ogni parola guarda il mondo che scorre e va…
Mi è possibile confrontare la sua poesia a un solo autore, il compositore Giacinto Scelsi. A differenza di Scelsi, Calogero non era un conte, non era un aristocratico, che come Scelsi poteva fare a meno dalle sarabande musicali a lui coeve. Calogero aveva bisogno dì lettori – che non ebbe.

Veniamo ai fatti. Lorenzo Calogero nacque a Melicuccà, in provincia di Reggio Calabria, nel 1910; e morì nello stesso paese nel 1961. Laurea in medicina a Napoli; la famiglia era benestante. Ha praticato la professione di medico per un breve periodo nella campagna senese; non accolto con entusiasmo, venne rispedito a Sud. C’è una sua fotografia icastica in piazza Duomo a Milano: ai piedi tanti colombi, lui si tiene in bilico con una cartella da scolaro che gli fa da piombo fermo a terra. Era andato a Milano in cerca dell’editore Giulio Einaudi, ma sbagliò città. Poi si corresse e andò a Torino, ma Einaudi quel giorno era assente. Nella fotografia è vestito con un cappottone, l’unico della sua vita, gli occhiali sono spessi come fondi di bottiglia, da quello spessore di lenti guardava il mondo.
Non sono più a Venezia, dove ho iniziato questa testimonianza. Ora sono a Parigi, me ne vado da un caffè all’altro per scrivere tutto ciò, in tasca porto un libro, Itinerario poetico di Lorenzo Calogero, una raccolta scelta da Giuseppe A. Martino, suo padre era amico di Calogero. In questa raccolta ci sono fotografie molto preziose, quella che più mi stupisce è in copertina. Il tavolo e la sedia dove il poeta scriveva e sedeva; due muri fanno angolo, si nota la sedia che ha screpolato lo spessore dell’intonaco del muro arrivando ai mattoni, ben visibili. Il muro di fianco presenta una moltitudine di lunghe striature, sono le tracce dei fiammiferi accesi al muro per accendere le sigarette. Questo era il loculo in vita di Calogero. Negli angoli, nella tradizione ortodossa si mettono le icone; Calogero ha scritto le sue poesie in una geografia angolare, senza saperlo scriveva da una prospettiva piatta, tanto ben studiata da padre Pavel Florenskij. Calogero s’è iniettato l’intonaco del muro scorticato alle sue spalle, nelle vene delle parole lo ha trasformato in sangue, ha trasformato il fuoco delle sigarette in luce mettendolo davanti alle sue poesie-icone per illuminarci.

Descriviamo ora qualcosa commovente nella sua straordinarietà, qualcosa che capitò nell’editoria italiana, quella rivolta al mondo negli anni Cinquanta e Sessanta. La ricreazione delle edizioni Lerici da parte di Roberto Lerici, inarrivabili nella loro filosofia grafica. La costruzione dei volumi è una summa di ricerca grafica, un laboratorio: ogni dettaglio studiato, un nucleo armonico di pagine che si fa libro. Ogni volume è un’opera d’arte, un pensiero. Non faccio nessuna differenza tra un taglio di Lucio Fontana e un volume delle edizioni Lerici: ma in questo sento molti più sforzi compositivi e formali per raggiungere una concordanza perfetta e sapienziale tra contenuto e forma.
Nelle edizioni Lerici furono pubblicati i due storici volumi delle Opere poetiche di Lorenzo Calogero: il primo nel 1962 e il secondo nel 1966; un terzo era in programma ma le edizioni dovettero chiudere. L’artefice di questo cantiere editoriale non poteva essere che una delle menti più complesse e aperte del Novecento europeo, Leonardo Sinisgalli di Montemurro, in Basilicata, con la collaborazione del critico letterario Giuseppe Tedeschi, del quale va ricordata la sentita introduzione al primo volume delle Opere poetiche. Con questi volumi la poesia di Calogero ufficialmente vide il suo giorno. Solo Sinisgalli, in vita del poeta, prestò attenzione alle sue parole vertiginose. Ma anche quei volumi non bastarono: il silenzio come un diluvio sommerse il lavoro del poeta, nascondendolo. Prima di Sinisgalli delle righe su Calogero vennero scritte da un altro scrittore, oggi del tutto e dimenticato, Giuseppe Fantino: anche lui di Melicuccà e amico di Calogero. Ho letto parole di Fantino che sembrano lame di coltello. La realtà ci sta indicando di spegnere i riflettori per vedere e curarsi con medicine naturali, come queste parole rimosse e dimenticate.
Possiamo dire che non c’è stato nessun «caso»; solo un colpevole non riconoscimento da parte dei protagonisti della cultura italiana di quel tempo.

Lungo la sua vita Calogero ha disseminato ottocento quaderni di poesie, solo un terzo è stato pubblicato. Ho avuto la fortuna di avere tra le mani uno di quei quaderni. L’impressione era di vedere lui nella fotografia di piazza Duomo a Milano. La stessa cosa: quaderno, scrittura e poeta, una sola configurazione. La scrittura ordinata tra le righe scritte in blu, una dopo l’altra come i colombi ai suoi piedi, poesie che vanno verso il cielo scritte da uno scolaro adulto che esegue più che bene il suo compito.
È vero che per lo studio della poesia di Calogero occorrono studiosi seri, con vedute libere da qualsiasi pietra ideologica. Dopo il centenario della nascita due libri sono stati pubblicati dalle edizioni Donzelli, Parole nel tempo e Avaro nel tuo pensiero. Gli studiosi che da anni sono alle prese con la sua poesia sono Antonio Piromalli, Amelia Rosselli con un suo scritto dell’inizio degli anni Ottanta, Luigi Tassoni, Mario Sechi, Caterina Verbaro con due saggi molto attenti, Vito Teti, Giulia dell’Aquila, certamente ce ne saranno altri.
Negli ultimi giorni di agosto sono stato tra Giove e Saturno. Ero su un terrazzo-planetario, il terrazzo di Fulvia a Melicuccà. Fulvia ha riunito per me personalità di Melicuccà che ora sono sparse nel nostro Paese, ma quando erano ragazzi hanno conosciuto Calogero. Sono stati curati da lui. Ogni loro parola era un pianeta o una stella, sul terrazzo la memoria si trasformava in luminosità. Lo descrivono come un buon medico, nel suo ascolto e nel suo vedere c’era intensità, mi parlano del suo sguardo che ricordano penetrante attraverso gli occhiali spessi, tutti venivano curati con risultati positivi dal dottor Calogero. Per il paese, mi dicono era una presenza strana. L’ultima volta fu visto il 21 marzo del 1961. Il 24 marzo fu aperta la porta di casa sua; ho ascoltato il ragazzo che con il parroco e il fabbro, allora, scoprì il poeta riverso sul letto. Al funerale il paese si chiuse dietro le persiane. La poesia di Lorenzo Calogero è nata quando è nata la primavera del 1961.

Sul terrazzo di Melicuccà ho visto la poesia di Calogero grazie alle persone che lo hanno ascoltato. Su quel terrazzo, con le sue tante piante particolari curate da Fulvia, in quella serra a cielo aperto, lo sguardo e l’ascolto di Calogero si sono concretizzati. Questi due sensi si sono concretizzati, questi due attrezzi incidono ogni sua parola sulla carta, solo un uomo che sa vedere e ascoltare può dare vita a un verbo simile, sonorità linguistiche sprofondate nelle profondità. Abbiamo bevuto latte di mandorla preparato da Fulvia, abbiamo gustato un dolce ai pistacchi portato da Marisa, venuta da Reggio Calabria. Quel terrazzo per me è una motta di terra fertile dove germogliano parole.
Quando l’opera di Lorenzo Calogero sarà pubblicata per intero, ci accorgeremo che anche noi in Italia abbiamo avuto il nostro Osip Mandel’stam, che dalla sua gelida Russia ha lasciato all’umanità i suoi Quaderni di Voronez. Il nostro poeta, da Melicuccà in Calabria, ha lasciato all’umanità i suoi Quaderni di Villa Nuccia, il suo ultimo lavoro. La casa in cui ha vissuto a Melicuccà è in abbandono, chiusa, sommersa da una moltitudine di piante rampicanti che la rodono. Mi sono chiesto… forse Calogero sulle righe vegetali di questi rampicanti ci sta scrivendo qualcosa che noi lasciamo, anche questa volta, in abbandono.
Ecco una poesia del 6 marzo 1959, dai Quaderni di Villa Nuccia:
Sceglievo poche cose
Sceglievo poche cose
e questa vita dall’arsura del ponte
era così proclive; ma non volevo
allontanarmi dai luoghi amati.
Sceglievo fra due rose rosse
e tu, primula, forse mi sai dire
come soavemente avvennero
le contese, prima che si presentasse
in luogo di un luogo amato
la faccia lungimirante
cortese di Dio [….]
Un particolare ringraziamento alla signora Fulvia.
Le fotografie che accompagnano il testo sono di Giuseppe Caccavale Studio: Melicuccà, agosto 2022
In copertina: Lorenzo Calogero a Milano