Nella trasformazione del percepibile

24/02/2023

La Specialità sta nel vedere le cose del mondo
materiale come quelle del mondo spirituale nelle
loro ramificazioni originarie e conseguenti. I più
bei geni umani partono dalle tenebre dell’Astrazione
per giungere ai lumi della Specialità. Specialità: species,
vista, speculazione, il vedere tutto e di colpo;
speculum, specchio, mezzo per apprezzare
le cose ravvisandole nella loro interezza
.
Honoré de Balzac, Louis Lambert, (XVI massima).

Tra le arti della verità in metamorfosi continua aleggia un sommovimento, che porta in sé una seminalità di immagini esatte, a volte profondamente aderenti a un principio fondante e a volte efficacemente evocative. Il linguaggio, in ogni branca della ricerca creativa, è fondamentale per esprimere ciò che pare disceso dal cielo o che è stato intuito con la pratica nell’officina dello sguardo. Ispirazione, talento e continuo lavoro rappresentano gli ingredienti essenziali per ogni avanguardia del pensiero. La possibilità della rivelazione passa attraverso l’intuizione retinica e, sempre più in profondità, attraverso la fase di intimità con il mistero delle cose del mondo, come se dovesse accadere un riconoscimento con le idee più interessanti che percorrono la storia dell’uomo. In questo percorso in tralice, tra astrazione e contingenza del reale, l’occhio cerca la visione attesa e inaspettata, ricerca segni e incidenze nella riflessione della chiarezza.

Nella ricerca della visione ultraretinica, l’opera necessita anche di un profondo incontro fra valori ritmici e il rapporto che segue dal pedinamento – da voyeur – nella cronaca del tempo, come fosse un tallonamento affidato a ogni senso umano.

Ma come ci si deve rapportare nell’atto di una verificabilità con l’esistente? Basta una fruizione attenta e consapevole nel flusso del visibile, o è determinante mettere in gioco una questione di rischio? Il salto nell’abisso delle arti prevede sia un moto compulsivo sia un’ossessione instancabile, che diventano necessari come il respiro e come la ricerca di un alimento indispensabile, più o meno raffinato, come se avvenisse un travaso continuo di poisons in altri eccipienti. Bisogna tenere sempre alta la soglia dell’attenzione, tastare il polso di ogni ricerca, rilevare le febbri più autentiche. È necessario stare nella sospensione di un’acqua preziosa, a occhi spalancati nel rallentamento dello spazio-tempo, per vedere ciò che sta avvenendo in ogni disciplina contemporanea, tra parola, immagini, gesti, percezioni, odori, suoni e sapori. Perché la ricerca è una questione sempre più complessa, faticosa, richiede conoscenza e capacità di selezione, cognizione di causa, apertura. Raffinare lo sguardo è una pratica ultrasottile. D’altronde il perscrutabile è la via da percorrere per comprendere l’imperscrutabilità. Ma i bisogni dell’immaginazione non sono solo una questione di conoscenza rilevabile per mezzo di approcci scientifici. E l’oggettività deve sempre fare i conti con i soggetti, che sono materia vivente, contraddittoria e confusa.

Salvador Dalí e Luis Buñuel, Un Chien Andalou, 1929

Nella trasformazione del percepibile qualcosa fuoriesce dalla memoria rimasta impressa nella pupilla, e in quel fuoriuscire può accadere che prenda corpo la possibilità di sentire in profondità le cose attraverso il pianto del senso visivo. Chiamo qui in soccorso, per dare un’immagine esatta di quello che ho cercato di dire astrattamente, la scena buñueliana del taglio dell’occhio in Un chien andalou (1929). Qui, la materia interna del bulbo oculare mette in visione la quintessenza dello sguardo, come fosse partorita tramite un taglio cesareo, specchio di una realtà, reale o immaginata, che trascorre come una nuvola a lama e incide la palpebra luminosa della luna interiore. La quintessenza dello sguardo portata all’esterno, ovvero nello spazio che l’occhio ha incamerato continuamente nel tempo, significa anche una sorta di sacrificio per vedere meglio, oltre il fenomenico e oltre il paradosso del taglio. Il taglio del senso oculare, però, non è un atto simbolico di matrice surrealista, ma una greguerìa, un gesto che sta al confine tra il lampo aforistico e la boutade intuitiva, senza essere peraltro nessuna delle due categorie. Vedere veramente, al di là di ogni slancio onirico e visionario, comporta una controparte di rischio e di coraggio, una prova del fuoco, una specie di sacrificio per re-inventare la realtà e per approdare al potere illusorio della libertà. Ma il senso di liberazione è contemporaneo allo sgorgare della lacrima. Derrida afferma che una sorta di rivelazione giunge dall’occhio attraverso il velamento lacrimale, come se l’esperienza del “vedere” fosse una conseguenza secondaria rispetto al destino dello sguardo:

Ora, se le lacrime “vengono agli occhi”, se dunque possono anche velare la vista, forse rivelano, nel corso stesso di questa esperienza, in questo corso d’acqua, un’essenza dell’occhio, in ogni caso dell’occhio degli uomini […]. In fondo, in fondo all’occhio, quest’ultimo non sarebbe destinato a vedere, ma a piangere. Nel momento stesso in cui velano la vista, le lacrime svelerebbero il proprio dell’occhio. Ciò che fanno uscir fuori  dall’oblio in cui lo sguardo la tiene in riserva sarebbe niente meno che l’aletheia, la verità degli occhi di cui le lacrime rivelerebbero così la destinazione suprema: avere in vista l’implorazione piuttosto che la visione, indirizzare la preghiera, l’amore, la gioia, la tristezza piuttosto che lo sguardo. Prima ancora di illuminare, la rivelazione è il momento delle “lacrime di gioia”[1].

A volte le parole, le intuizioni degli altri, appena vengono lette accendono visioni e creano dei collegamenti illuminanti. Appena ho incontrato questo passaggio di Derrida, subito le immagini delle donne piangenti nelle scene delle Crocifissioni e dei Compianti hanno preso un senso diverso, profondo, rivelante.

Enguerrand Quarton, Pietà di Villeneuve-lès-Avignon, 1444-1466 circa, dettaglio

Mi sono tornate alla mente, all’istante, le lacrime della Maddalena nella Pietà di Villeneuve-lès-Avignon (1444-1466 circa) realizzata da Enguerrand Quarton, e quelle di Maddalena e Nicodemo nel Polittico di Recanati, dipinto da Lorenzo Lotto tra il 1505 e il 1508. E subito qualcosa di stupefacente è uscito dall’oblio dei miei occhi, si è rivelata una sorta di aletheia che mi ha portato a un’ulteriore lacrima.

In una tarsia simbolica del coro della Basilica di Santa Maria maggiore in Bergamo, Lotto immagina che il grande occhio del Creatore – il primo sperimentatore delle lacrime – abbia mani da artifex, mani capaci di dare forma al cosmo con la mobilità del fuoco, dita che foggiano creature e creazioni, Verbo che, con l’ausilio delle vere parole poetiche, dà inizio alla catena delle visioni e dà corpo alle cose del mondo nominandole. Più precisamente, è un occhio sinistro, che modula i suoi battiti sullo sguardo di ogni possibile fruitore. È una visione che viene incontro portando la forza pulsante delle emanazioni. L’occhio omniscente sta al centro di dieci cerchi di luce. Nello Zohar [2] questo occhio divino è descritto come somma di due occhi, perennemente aperto per garantire la consistenza di tutte le cose:

Qui, due occhi sono ridiventati uno […]. Dal suo mutevole sguardo ogni cosa trae nutrimento […]. Se quest’occhio abbassasse la palpebra, nulla potrebbe più esistere. Per questo è detto occhio aperto, occhio supremo, occhio santo, occhio super-veggente, un occhio che non dorme né sonnecchia, un occhio che è custode e garante della consistenza di tutte le cose.

Lorenzo Lotto e Giovan Francesco Capoferri, Magnum Chaos, 1524, coperto simbolico della Creazione, Bergamo, Basilica di Santa Maria Maggiore

L’occhio divino dei cabalisti ha mani che sanno plasmare e piedi che portano in ogni luogo. È una visione in perpetuo cammino verso sguardi ricettivi. Per capire l’immagine creata da Lotto è utile leggere quello che Ficino scrive nel suo El libro dell’amore, dove immagina l’occhio di Dio – che, in virtù di un amore innato per la luce, “de’ colori e delle figure delle cose si forma” – come un caos ottico ordinato dai raggi solari:

Il perché l’occhio, primariamente oscuro e informe, ad similitudine di caos ama el lume mentre che ei guarda, e guardando piglia e razzi del sole, e quegli ricevendo de’ colori e delle figure delle cose si forma. E sì come quella mente subito che’ell’è sanza la forma nata, si volgea a Dio, e quivi si forma, similmente l’anima del mondo inverso la mente e Iddio, di quivi generata, si rivolta; e benché imprima ella sia caos e nuda di forme, nondimeno inverso l’angelica mente per amore dirizzatasi, pigliando le forme mondo diventa. Nè altrimenti la materia di questo mondo per lo innato amore difacto inverso ardente pensiero, risuscita ancora quando lui nello amato finalmente si riconosce e non dubita sé essere amato. O felice morte alla quale seguitano due vite! [3]

 “L’occhio con cui io vedo Dio è il medesimo occhio con cui Dio vede me; il mio occhio e quello di Dio sono lo stesso occhio, lo stesso vedere e riconoscere e amare” (Meister Eckhart, Deutsche Predigten und traktate,  1314): nell’atto della creazione dei geroglifici presenti nel coro della basilica di Bergamo, Lotto e i suoi committenti sembrano aver condiviso questa citazione del mistico medievale, eleggendo l’occhio della creazione come elemento fondamentale su cui poggia tutta l’arte del vedere. Avviene, così, un rispecchiamento o una sovrapposizione congiunta fra l’occhio dell’uomo e quello del divino evocato: attraverso questa identificazione con la divinità, una persona può cogliere l’invisibile celato nell’apparenza.

Lorenzo Lotto e Giovan Francesco Capoferri, Impresa di Lot, 1527

Siamo allora introdotti nella visione quadridimensionale, dove è necessario avere un’osservazione oculare molto sottile. L’occhio che Lotto pone in otto tarsie del coro è inteso come uno strumento che traccia legami con la verticalità, della stessa progenie di ciò che Leonardo descrive come mezzo indispensabile per elaborare una disciplina dell’osservazione:

Lui [l’occhio, n.d.r.] è capo dell’astrologia, lui fa la cosmografia, lui tutte le umane arti consiglia e corregge […] questo è principe delle matematiche, le sue scienze sono certissime; questo ha misurato l’altezza e le grandezze delle stelle, questo ha trovato gli elementi e i loro siti, questo ha fatto predire le cose future mediante il corso delle stelle[4].

La presenza dell’occhio divino evoca anche quel “mal d’occhi” che, secondo Ficino, è un sintomo dell’inizio d’amore, quando l’oggetto a cui ci si volge si fa da passivo ad attivo e risponde a un’azione con una sua azione, che è “un certo tiramento dell’una cosa all’altra per similitudine di natura”. Il/la fruitore/fruitrice fissa il suo sguardo in quello dell’amato, e in questo atto produce amore e conoscenza dell’amato. Il filosofo neoplatonico afferma che la nostra salute consiste nel lasciarci vincere dalla vera bellezza; diventati suoi devoti si ha la possibilità di ritrovare l’essenza del proprio essere attraverso il totale dono dell’interiorità.

Lorenzo Lotto e Giovan Francesco Capoferri, Coperto simbolico di Enos, 1525

Gli sguardi a perdita d’occhio tradotti formalmente tra Quattro e Cinquecento hanno il desiderio di vedere oltre il velo dell’apparenza e di andare al di là di un guardare anestetizzato, oltre le gramigne radicate nell’intorpidimento e nell’assuefazione.

Lorenzo Lotto e Giovan Francesco Capoferri, Coperto simbolico del Sacrificio di Abramo, 1525

Ora, come in ogni epoca storica che sente di aver perduto qualcosa, pensiamo che sia necessario rieducare l’occhio a cogliere la sottile differenza che intercorre tra i verbi “guardare” e “vedere”, per acuire, forse, una coscienza più lucida della realtà. Perché “vedere” significa innanzitutto cogliere la vera essenza delle cose, ciò che permane; significa entrare, in profondità, nel flusso in divenire dell’esistenza.

“Vedere” vuol dire anche stare dentro il fluire, cogliere un ampio spettro di sfumature, sentire con ogni senso. In questa apertura estensiva è indispensabile educare lo sguardo alla rivelazione, per accendere la visione al contempo esatta e indefinita, nello spazio inviolabile di un incontro che vada oltre la mera impressione.

In questa apertura multisensoriale “a perdita d’occhio” può accadere che si riesca a oltrepassare l’abitudine dello sguardo e degli altri organi della percezione, per cercare di cogliere l’espressione e i segni più profondi presenti nel fluire del tempo e dello spazio.

Lavorare sull’estensione di ogni senso può innescare qualcosa che si può connettere anche con un tipo di arte di matrice brechtiana, in grado di indurre critica sociale, che agisce sulla realtà, contribuendo a formare lo spirito critico delle coscienze.

In copertina: Lorenzo Lotto e Giovan Francesco Capoferri, Magnum Chaos, 1524, coperto simbolico della Creazione, Bergamo, Basilica di Santa Maria Maggiore


[1] J. Derrida, Memorie di un cieco, Milano 2003, p. 152.

[2] Pico della Mirandola ha tradotto, per i circoli neoplatonici di Firenze, i testi talmudici, introducendo la visione qabbalista della creazione biblica.  Si veda: I. Zatelli, F. Lelli, M. Ventura Avanzinelli, Pico, la cultura biblica e la tradizione rabbinica, in “Pico, Poliziano e l’Umanesimo di fine Quattrocento”, Biblioteca Medicea Laurenziana, 4 novembre 1994, catalogo a cura di P. Viti, Firenze 1994 (“Studi Pichiani”, 2), pp. 159-191; 180; P. Kibre, The Library of Pico della Mirandola, New York, Columbia University Press, 1936.

[3] M. Ficino, El libro dell’amore, a cura di S. Niccoli, Firenze 1988, p. 13.

[4] Libro di Pittura, I, cap. 28, p. 152.


 

 

 

 

Mauro Zanchi

è critico d’arte, curatore e saggista. Dirige il museo temporaneo BACO (Base Arte Contemporanea Odierna), a Bergamo, dal 2011. Suoi saggi e testi critici sono apparsi in varie pubblicazioni edite, tra le altre, da Giunti, Silvana Editoriale, Electa, Mousse, CURA, Skinnerboox, Moretti & Vitali e Corriere della Sera. Scrive per Art e Dossier, Doppiozero e Atpdiary.

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