Come lavorava Trevisan: preliminari

22/02/2023

Ho notato con felice sorpresa che si è scritto molto e bene su Black Tulips, il lavoro postumo di Vitaliano Trevisan. A parte qualche perdonabile sbavatura d’enfasi ascrivibile all’autodeliberata morte dell’autore, la critica militante ha fatto il suo dovere. Inutile continuare con le recensioni e la loro affannata rincorsa del presente in movimento. Ora che quella di Trevisan è definitamente un’Opera e lui è diventato “tel qu’en lui-même enfin l’éternité le change”, si avvicina il tempo, se non dei bilanci, di un’interrogazione più in profondità di cosa la sua scrittura è stata e potrà essere in futuro. Prima domanda a cui rispondere, facendo con scarsa modestia il verso al titolo di un saggio famoso, è come lavorava Trevisan, giusto aggiungendovi per pudore la postilla: preliminari. Il che equivale a mostrare, in primo luogo, su cosa lavorava. Semplificando brutalmente: sulla sua lingua, sul suo corpo e sul suo territorio, tutti e tre intesi, più che come materiali da costruzione, come semilavorati in cui è a fortiori già presente il lavoro (più che la natura) di millenni, e dunque più adatti a essere affrontati in forma di ekfrasis piuttosto che di mera descrizione. Procederò pertanto all’analisi ravvicinata di un brano, scelto quasi ad apertura di pagina da uno dei suoi libri più belli, Tristissimi giardini, in cui quella che Luciano Anceschi chiamava “la poetica implicita” dell’autore, che pure era capacissimo di disseminare i suoi testi di poetica esplicita, risalta con la massima evidenza.

Trevisan sta parlando come sempre del suo odiato Veneto (lo fa anche dalla Nigeria in Black Tulips: tutto il mondo è Veneto), richiestone dalla collana Laterza Contromano. Dopo alcune osservazioni acute ma tutto sommato di mero buon senso sul fatto che categorie come centro e periferia non hanno più un vero significato, e che il centro storico, anche di una città d’arte come Vicenza con i suoi splendori palladiani, diventa sempre più piccolo, stretto e confuso come una periferia, l’autore spicca il volo con un periodo di ampiezza, panneggio, tenuta sintattica e amara consapevolezza storica letteralmente guicciardiniana. Si ascolti oltre che leggere, il ritmo è fondamentale e Trevisan era un discreto batterista, o almeno così gli piaceva sostenere (se vero o no, la questione non rileva).

Ma l’essere umano non ama la realtà, ne è disturbato, addirittura offeso, tende sempre a rifiutarla, a sostituirla con un’altra più rassicurante e che gli faccia più comodo, al punto che nessuno degli umani che abitano il territorio in oggetto sembra cosciente del fatto di vivere in tale periferia diffusa, mentre i vari centri urbani grandi medi piccoli e piccolissimi che la punteggiano si ostinano a pensarsi collegati, mentre sono di fatto inglobati, differenza non da poco, visto che è proprio partendo da questo pensiero che il territorio viene amministrato e ordinato. Una grande, anzi grandissima periferia policentrica, che si pensa ancora come un reticolo di piccole città, e alla luce, ma sarebbe più giusto dire all’ombra, di questo pensiero irrazionale si amministra, si governa, si vive e, più o meno naturalmente, si muore, e così, in questa grandissima periferia policentrica che non ha coscienza di sé, tutto è pensato a pezzi, e fatto e rifatto a pezzi, proprio come le sue strade le sue campagne eccetera; e i pezzi, come è ovvio, sono sempre più piccoli, e rischiano di diventare così piccoli da non permettere di esser fatti ulteriormente a pezzi, un po’ come questa frase; rischio che comunque non sembra influire minimamente sulla prassi: il processo di frammentazione continua senza sosta con la stolidità, la sciatteria e la mancanza d’amore, se si eccettua quello per il denaro, di cui l’essere umano, e veneto in particolare, e vicentino ancora più in particolare, e per nessun’altra ragione se che è proprio di questo che siamo chiamati a parlare, ha dato ampia e convincente prova per come e quanto ha modificato il paesaggio, esteriore e interiore, privato e pubblico, dal dopoguerra a oggi.

Esaminiamo il campione dalla distanza più ravvicinata possibile. A cominciare da quello che Spitzer, Auerbach e forse anche Barthes avrebbero chiamato il punto attorno al quale tutto l’intero si suppone ruotare: “un po’ come questa frase”.  Tra il territorio inquadrato e giudicato, più che descritto, e le frasi, non si instaura un rapporto di mera rappresentazione, ma piuttosto di omologia e di isometria. Il periodo non imita il territorio, lo mima, lo scimmiotta e lo incorpora, un po’ come il nipote di Rameau, che respingeva e affascinava Diderot come un basilisco, era capace coi movimenti del corpo di mimare l’intera orchestra. Scomponiamo il suo periodare, fissiamone i procedimenti, e anche il territorio sarà fisicamente, dolorosamente e non solo intellettualmente nostro.

Il brano inizia con una degnità non sua (a nulla teneva di meno Trevisan che a essere considerato originale). Con pochissimo sforzo occorrono alla memoria menzioni analoghe in Montale, Morante, Ottieri e tanti altri. Per poter abitare il mondo che lui stesso ha costruito, homo faber che non capisce ciò che fa ed è ridotto perciò ad animal laborans, l’essere umano deve continuamente derealizzarsi. La letteratura stessa, per inciso, è parte di questo processo, e ci ritorneremo. Per precisare il concetto, Trevisan ricorre a una increspatura lessicale che prima sembra nobilitare e poi squalificare definitivamente il soggetto presunto protagonista del processo: “disturbato” (beh, è un diritto); “offeso” (si offende solo chi ha una qualche dignità da difendere), da cui il rifiuto (gesto assertivo e volitivo anche se nega) che sfocia però nel sostituire la realtà con un’altra “che gli faccia più comodo” (sbraco e poltroneria, ignavia e vigliaccheria, che manda in vacca quelli che potrebbero essere tutti onorevoli propositi). Qui ci starebbe bene un punto fermo, ma Trevisan, mettendo a dura prova l’apparato respiratorio di chi legge, rincara la dose con una virgola seguita da un “al punto che”, dove si profetizza e quasi si ingiunge un progressivo e inarrestabile peggioramento, e l’agudeza di due /mentre/, perfettamente uguali quanto a sostanza verbale ma opposti nella loro funzione sintattica, la prima temporale, la seconda avversativa (“/mentre/ i vari centri urbani … si ostinano a pensarsi collegati, /mentre/ di fatto sono inglobati). Dopo aver accordato a se stesso e chi legge un punto fermo, Trevisan, che finora ha sballottolato quest’ultimo con una variatio crudele e stordente, torna senza preavviso al suo vecchio cavallo di battaglia stilistica, la ripetizione (eredità dei suoi esordi, in cui si era fatto volontariamente possedere dall’anima inappagata di Thomas Bernhard): “amministra”, “governa”, “grandissima periferia policentrica”, “coscienza”, lessemi cui non sarebbe stato difficile, al massimo liceale, trovare un buon sinonimo, fino a un ironico “si vive” (descrizione) e a un tautologicamente tombale “si muore” (giudizio, palesemente retrodatato al “si vive” che gli fa da antonimo). Ma non basta morire, e vivere morendo, in questo spazio devastato: tocca subire anche la sorte di essere fatti a pezzi, pensati a pezzi, rifatti a pezzi, che diventano sempre più piccoli così da rischiare di non poter essere più ulteriormente fatti a pezzi (il nulla, dunque). E poi, il colpo d’ala della metalessi che risale come un contagio fulminante dal territorio alla lingua: “un po’ come questa frase”. Per continuare a pestare nel mortaio l’umanità come uva nei tini (fonte: Isaia, incazzoso almeno quanto Trevisan), bisogna per forza concederle il privilegio di una nominazione, non dopo ovviamente aver messo in chiaro che “stolidità” e “sciatteria” sono frutto di mancanza d’amore, a parte per il denaro (e c’è colpa, dunque, giacché qualcosa si può amare), specialità in cui eccellono, in anticlimax, “l’essere umano italiano, e veneto in particolare, e vicentino ancora più in particolare”. Il che sarebbe un’ingiustizia bella e buona, e venisse a farsi un giro in Lombardia, gli si sarebbe voluto dire quando ancora poteva, se non fosse che, nuovo embrayage verso il soggetto che scrive, ciò accade “per nessun’altra ragione se non che è proprio di questo che siamo chiamati a parlare”, e dunque il particolare e l’universale coincidono, anche se non riconciliati ma piuttosto resi equivalenti dal loro essere stati fatti a pezzi, nella realtà e sulla pagina, alla stessa stregua dal capitalismo e dall’autore. Dopo di che, momentaneamente placato, Trevisan può distendersi i nervi con una rilassante terna di coppie a basso contenuto informativo (“esteriore e interiore, privato e pubblico, dal dopoguerra a oggi), mormorio sempre più indistinto nella sua genericità.

Genericità che peraltro potrebbe essere rivolta in forma di accusa al brano intero da parte chi intendesse ricavarne soltanto il cosiddetto “contenuto”. Non gli resterebbe tra le mani che un pugno di topoi di cui sono pieni quotidiani e settimanali: il degrado delle periferie, il “disagio del nordest” (come se invece a nordovest si sgavazzasse allegramente), la vetrinizzazione dei centri storici eccetera, quell’eccetera di cui non si perita di servirsi anche l’autore, come a ostentare la sua noia per il tema di cui è però costretto, necessitato a parlare.

Ma necessitato da chi? Dall’editore? Dall’anticipo? Dal narcisismo, dall’esibizionismo? Dal desiderio di denuncia? Tre ipotesi da escludersi immediatamente, l’ultima per prima. Non è intenzione di Trevisan denunciare alcunché, nutrito com’è di una conoscenza dei meccanismi del capitalismo pari a quella del Dottor Karl Marx. Laddove però, se quest’ultimo il capitalismo lo vedeva trionfante e insieme minacciato dall’antagonista che si era cresciuto in seno, il proletariato, Trevisan lo vede minacciato soltanto da sé stesso e dalla stolta umanità, non solo vicentina, o tutta vicentina, poco importa, che gli ha offerto la gola, e non è un bel vedere. Chi denuncia coglie solo i fenomeni. Chi sa è in grado di andare alle radici. Che Trevisan sia uno scrittore radicale è fuori dubbio. Ma anche quelle radici sono note da tempo. Perché scriverne, allora?

È una domanda senza senso, e peggio ancora sarebbero le eventuali risposte. L’unica sensata è quella sfacciatamente, abissalmente tautologica: si scrive, verità non molto tempo addietro enunciata con chiarezza incontrovertibile da autori come Maurice Blanchot e Roland Barthes, e oggi in discredito un po’ per l’abuso che ne hanno fatto gli epigoni, un po’ per i barili di melassa che le ha versato sopra l’industria culturale. Più promettente è la domanda che si poneva nella terza parte di Che cos’è la letteratura il vecchio Sartre, “per chi si scrive” – anche se la risposta di cui si accontentava era un po’ ingenua. Per chi si scrive, e qui, nella fattispecie in tutta la sua accidentalità, per chi scrive Trevisan?

Per noi no di certo. Tutto il profluvio di snodata retorica che ha dispiegato sotto i nostri occhi non è certo fatto per sedurci, commuoverci o farci incazzare. Per sé stesso, allora? Neanche, giacché troppo mondo e non solo il suo sguardo saturnino resta impregnato in quei periodi, interamente fagocitato com’è da una scrittura che si propone il compito di mimarlo e insieme di annientarlo o almeno di renderlo meno e non più confortevole. Si potrà dire semmai che Trevisan offre sé stesso e il proprio territorio come animale da macello per un sacrificio: sacrificio a che cosa, però, non è dato sapere. Alla letteratura? Come istituzione, Trevisan la detestava non meno del mondo e dell’umanità. Come processo di salvazione individuale, peggio che andar di notte. Come strumento non menzognero di comunicazione? Nei suoi libri sono disseminati tanti di quei caveat in contrario da dissuadere immediatamente chi volesse seguire questa pista. Di negazione in negazione, si torna scornati alla tautologia iniziale. Trevisan scrive perché si scrive. Ogni tanto qualcuno lo fa. Non sono in molti. Riesce a pochissimi. In molti “scrivono” e hanno “scritto”, come no, da sempre. Trevisan, però, è stato capace di togliere le virgolette, ed è questo che lo distingue da un ex tossico autodidatta, per di più coltissimo, che ha fatto cento mestieri come se andasse a caccia di delusioni per poter abbaiare alla luna e affliggere il prossimo con le sue rimostranze. Si dice spesso, con una spensieratezza che sorprende, che ogni scrittore costruisce un mondo. Sarà. Certo è che Trevisan il suo lo voleva distruggere, e che la sua atrabile stilistica non ha nulla del collaborazionismo, per esempio, di un Houellebecq.  

Non impossibile, invece, come spero di aver mostrato, è capire come scrive. Il meno alienato dei tanti Works che gli è capitato di svolgere nella sua vita. O forse, al contrario, il più alienato, perché l’aggressività che pervade ogni sua pagina non è volta appunto a correggere, a migliorare, a rendere più praticabile né il linguaggio né il mondo. Trevisan non possedeva quello che Walter Benjamin ha chiamato una volta splendidamente “il carattere distruttivo”. Il suo mimare rovine non è mosso dall’amore “per la via che vi passa attraverso”. A un mondo rovinato dal più ingegnoso modo di vivere, il capitalismo, che l’umanità ha saputo estrarre da sé stessa, Trevisan ha risposto creando splendide rovine, le sue opere, che non conducono da nessuna parte oltre sé stesse. Non è un maestro né una guida. Il suo Trauerspiel non ha niente da insegnarci. Ma è proprio questo, forse, o forse di sicuro, a farne una figura inimitabile, e proprio perciò esemplare.

Conclusione suggestiva, forse, nella sua forma un po’ spocchiosamente oracolare. Ma convincente? Non si può fare di meglio? Riandiamo per un attimo alla titolazione che abbiamo voluto dare a queste pagine: Come lavorava Trevisan. E non dimentichiamoci l’avvertenza: preliminari. Senza ancora poter intravedere ed esporre con chiarezza tutti i nessi, l’ipotesi è che Trevisan approdi alla posizione del “si scrive” così come l’umanità sottomessa al capitale è approdata a quella del “si lavora”. Ovvero, non è più Vitaliano, Tizio o Caio che lavorano, ma le facoltà generiche e specie-specifiche dell’umanità, prima fra tutte la capacità simbolica, che ha come base e paradigma il linguaggio verbale, a essere messe al lavoro, restringendo il singolo in una condizione di totale fungibilità, nell’attesa messianica dell’algoritmo. Chiedendo alla logica un sovrappiù di tolleranza, procediamo per analogie, il che ci permetterà di comprendere meglio le differenze. Vitaliano autore (si) scrive, e crea attraverso di ciò, con gli stessi identici medesimi mezzi di produzione, qualcosa di inimitabile, prova ne sia l’attribuibilità immediata, stilistica prima che tematica, di ogni sua pagina. Vitaliano persona, che con sicuro istinto d’artista ha intuito, come diceva Merleau-Ponty, che “quell’opera esigeva quella vita”, sgobba la sua esistenza in una serie di lavori, cosiddetti manuali, come tutte le altre bestie da soma vicentine in attesa di essere fatte a pezzi e consegnate poi alla pattumiera del nulla. C’è omologia tra le due pratiche? Senz’altro sì, ma più ancora c’è contraddizione. Al Vitaliano che si spersonalizza nel “si scrive” tributiamo gloria e onori. Al suo omonimo che si guadagna la mera riproduzione dell’essere in vita facendo il magazziniere riserviamo invece compassione, indignazione, sempre più vaghe fantasie di una trasformazione sociale che “offende” noialtre anime privilegiate, le sole in grado di degustare le sue prelibate prestazioni. Che Trevisan ne fosse consapevole è attestato nelle opere. Che lo si sia noialtri molto meno. Ma se tutto questo è vero, non sarà anche l’opera d’arte un modo per procurarci una realtà un poco più comoda? E non sarà questa la ragione più profonda della rabbia di uno scrittore dedicatosi a un compito impossibile? Mi hai dato fango e ti ho restituito oro, provava, per fortuna senza riuscirci, a consolarsi Baudelaire, che non per nulla tacciava di ipocrisia il suo lettore suo simile e fratello.

Nel Novecento si credeva (e sottolineo credeva: atto di fede) che l’opera d’arte costituisse un’anticipazione, tanto più losca quanto più riuscita, di cosa avrebbe potuto essere un’umanità non alienata. Non credo (e sottolineo credo) che Trevisan ci abbia mai creduto, e non a caso i suoi autori preferiti erano quelli “no way out”, Beckett, Bernhard, forse Céline e simili. Nessuna consolazione, nessun appello al meglio. Lo splendore, piuttosto, che si fa tanto più splendido quanto incorpora, nel senso mimetico/gestuale di cui si è detto sopra, lo squallido, l’irrazionale, il “si vive” e il “si lavora” che altro non è se non una “morte-in-vita” dalla quale si leva come un superbo vampiro la meraviglia dello stile, la lucidità spietata del pensiero, l’orgogliosa assenza di qualunque moralismo parenetico buono a consolare il filisteo estetico che sonnecchia e anzi non dorme mai in ognuno di noi. Trevisan ha sofferto tanto, ma scriveva così bene… No, non c’è modo di ricongiungere la moneta spezzata. Trevisan non lo ha voluto. Ed è così che dobbiamo leggerlo, almeno per ora, esiliati da ogni soluzione anche se non esentati dal cercarla. È una fortuna, da questo punto di vista, che siamo ancora ai preliminari su come lavorava, in tutti i sensi, Trevisan. Più ci spingeremo avanti, più capiremo meglio come lavorano tante altre cose.

Daniele Giglioli

(Roma, 1968) insegna Letterature comparate presso l’Università di Trento. Collabora con il “Corriere della Sera” e la “Neue Zürcher Zeitung”. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo “Senza trauma” (Quodlibet 2011), “Critica della vittima” (nottetempo 2014) e “Stato di minorità” (Laterza 2015). Con il Saggiatore ha pubblicato “All’ordine del giorno è il terrore” (2018).

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