Frontiere umane

17/02/2023

Si è aperta il 24 gennaio a Ginevra, al Centre d’Art Contemporain (dove sarà visitabile sino al 4 giugno), Chrysalis. Le rêve du papillon, a cura di Andrea Bellini con la collaborazione di Sarah Lombardi e Sara De Chiara: «un omaggio alla metamorfosi e alla trasformazione incessante del mondo, e di tutti gli esseri organici e inorganici che vi si trovano […]: ogni essere e ogni oggetto si manifesta mentre diventa un’altra cosa, nel momento in cui assume un’identità multipla». Una metamorfosi che può darsi in modo euforico ma anche inquietante. Come dice il curatore, «questa costante tensione fra gioia e dramma, fra piacere e dolore, attraversa l’intera mostra e ne è la colonna vertebrale, la sua narrazione più intima. Invitiamo il nostro pubblico a vivere la grande avventura della metamorfosi, un invito al viaggio nella carne del mondo che cambia, e che cambiando fa trasformare anche noi, cambia i nostri convincimenti, la nostra visione delle cose». La mostra presenta più di duecento opere di sessanta artisti, in parte provenienti dalla Collection de l’Art Brut di Losanna (una collaborazione che prosegue quella dell’altrettanto grande Scrivere Disegnando di tre anni fa, in molti sensi logico precedente di Chrysalis). Dal catalogo, in preparazione in francese e in inglese presso l’editore Lenz, proponiamo la versione originale in italiano del contributo di Andrea Cortellessa.

Sous ce masque un autre masque
Claude Cahun

Glory and Life to the New Flesh!
David Cronenberg

Je suis l’autre
Gérard de Nerval

Sospeso al soffitto da spesse corde nodose, pende un voluminoso sacco di iuta percorso da grossolane cuciture. Al suo interno qualcosa si muove, si agita, preme per uscire. A un tratto, dal fondo, la lama di un coltello spunta lacerando la tela; dal taglio fuoriesce un dito, poi una mano, una gamba; infine l’essere umano che, madido di sudore, si adagia a terra per riprendere fiato. L’azione è durata complessivamente dodici interminabili minuti, e quello così “partorito” è l’artista che l’ha concepita e realizzata: si chiama Claudio Cintoli e l’opera s’intitola Crisalide.

L’artista marchigiano, dopo una giovinezza dedicata alla pittura, dal ’65 al ’68 ha soggiornato a New York, e al suo ritorno si è dedicato al film d’animazione e a performance spesso ospitate dalla storica galleria L’Attico di Fabio Sargentini (quella che nel gennaio ’69 diventa celebre coi 12 cavalli vivi di Jannis Kounellis). Crisalide però va in scena la prima volta, il 7 dicembre 1972, agli Incontri internazionali d’arte curati da Achille Bonito Oliva per Graziella Lonardi Buontempo, a Palazzo Taverna; l’anno dopo presenta una personale di Cintoli (destinato a una scomparsa precoce, nel ’78, poco più che quarantenne), alla galleria Il Segno sempre a Roma, Alberto Boatto: che ricollega Crisalide a lavori coevi appunto di Kounellis, Vettor Pisani e Gino De Dominicis, accomunati dall’attenzione alle «situazioni limite della vita»: la nuda vita della nascita appunto, della sessualità e della morte. È il palinsesto della mostra più enigmatica, e insieme forse la più seminale, del decennio: quella che nel novembre del ’74 lo stesso Boatto curerà a Bologna, alla Galleria de’ Foscherari, col titolo Ghenos Eros Thanatos.

Nel gelido quanto pirotecnico non-catalogo pubblicato nell’occasione (vero hors d’œuvre “letterario” che prosegue e si annoda alle esperienze artistiche, piuttosto che limitarsi a descriverle o “interpretarle”), Boatto riconduce l’arte del suo tempo a una dominante antropologica: a una «seconda nascita», un «secondo possesso della carne» in cui homo governa il proprio passaggio «dal reale al significativo». La nuda vita si fa processo autogenerativo, auto-poietica messa a morte rituale e non meno rituale rinascita: e l’uomo viene definito «un animale immaginativo che si duplica, che elabora dei doppi». Così, dopo la «soglia» rappresentata da un Grande Bianco Plastica di Burri – la materia in sé – proprio la Crisalide di Cintoli – la materia che si modifica, per nascere a nuova forma – inaugura l’esplorazione di Boatto su come si possa «assumere […] il proprio destino». Cioè, semplicemente, vivere.  

Quasi vent’anni dopo, nel 1991, il film di Jonathan Demme The Silence of the Lambs, basato su un romanzo di Thomas Harris, riprenderà la metafora entomologica della crisalide nel personaggio di «Buffalo Bill», il serial killer che scuoia le sue giovani vittime per rinchiudersi nell’involucro epidermico della desiderata identità femminile. L’autopoiesi anni Settanta, tanto drammatica quanto energetica e vitalistica, passata la decade del “ritorno al privato” e della «cultura del narcisismo» profetizzata da Christopher Lasch nel ’79, si rovescia in un cupo e terrificante apologo psicopatologico (i “buoni” che infine fanno fuori il “cattivo” sono un criminologo antropofago e una poliziotta nevrotica dalla sessualità a sua volta incerta).

La comunità LGBT insorse per l’immagine parodica e fobica che il film dava della transessualità ma l’episodio poteva preoccupare, in effetti, ben più alla radice: il terrore espresso da The Silence of the Lambs era in generale nei confronti delle metamorfosi messe in scena nel ventennio precedente, quando concreti progetti di palingenesi individuale si erano associati a volonterosi afflati di mutamento collettivo (come in fondo si predicava sin dai tempi del surrealismo: «Transformer le monde, à dit Marx. Changer la vie, à dit Rimbaud»).

Non a caso l’anno dopo esce The End of History and the Last Man, fortunatissimo manifesto neoconservatore di Francis Fukuyama, che teorizza il compimento definitivo dell’evoluzione umana nel modello di società capitalistica impostosi in Occidente nel secondo Novecento, così dando spessore epocale allo slogan di Margaret Thatcher che aveva segnato il decennio precedente: «there is no alternative». Non c’è più spazio – così si sostiene – fuori dal «mondo dentro il capitale» che descriverà Peter Sloterdijk (ultimo rappresentante filosofico, di contro, di una genealogia autopoietica, il «principio metamorfosi» che fa capo a Nietzsche, Kafka e Deleuze): né più e né meno di quanto ne permanga, nell’individuo, per percorsi di emancipazione e differenza. L’11 settembre 2001, a New York, questo wishful thinking neoliberista si vedrà traumaticamente smentito dalla storia: eppure i due modelli non cessano di confrontarsi, da allora, nell’agone politico come nel più vasto teatro della società. 

Un paio d’anni prima di quello di Fukuyama era uscito un altro saggio, del suo assai meno mediatizzato, ma che ben più in profondità poneva le questioni che ci stanno a cuore. In Soi-même comme un autre (1990), da una prospettiva fenomenologica ed ermeneutica, Paul Ricœur distingue due diversi concetti (o “pratiche”) dell’identità soggettiva – il même derivante da idem, che designa «il nucleo permanente del sé», da quello che allude a ipse e dunque alla variabilità del nostro riferirci a noi stessi, di volta in volta coi tratti acquisiti nella nostra esperienza di vita – e mostra come ben prima del Je est un autre, lo slogan di Rimbaud ripreso dalle avanguardie del Novecento, l’«alterità» sia «costitutiva» della nostra identità, cioè della nostra «ipseità» (selfhood, in inglese) contrapposta alla «medesimezza» (o sameness):così il filosofo distingue i due diversi concetti di «identità». Colpisce come in tal modo un grande pensatore cattolico quale Ricœur prendesse congedo dalla tradizione “monistica” dell’Io, codificata da Descartes, facendo esplicito riferimento a un pensiero anticristiano (ancorché cristomimetico) come quello di Nietzsche; ma il suo insegnamento è quello che più profondamente pone il «carattere relazionale dell’identità», e in particolare la nostra necessità di «identificarci» ogni volta a modelli esterni, il più delle volte tratti dalla nostra enciclopedia culturale, per foggiarci un “carattere” che è sempre, oltre che una «maschera» (nel senso dato, a questo classico concetto, appunto da Nietzsche), una «narrazione».

Matrici culturali e percorsi diversi (ancorché con passaggi in comune quali l’interesse appunto per i codici narrativi, gli speech acts e quella che Ricœur chiama «azione sensata considerata come testo»), ma esiti in fondo non così dissimili, mostrava un’altra opera fondativa uscita nello stesso 1990 di Soi-même comme un autre: Gender Trouble di Judith Butler prendeva le mosse da un’altra storica lettura di Nietzsche come quella del Michel Foucault dell’Histoire de la sexualité (1976-1984) per mettere a fuoco gli aspetti «performativi» di una «denaturalizzazione e risignificazione delle categorie del corpo», in particolare del genere sessuale. Con tournure esplicitamente politica, frutto della sua storia di attivista nel movimento LGBT (rivendicata, nella premessa all’edizione del ’99, anche per spiegare l’imprevedibile fortuna extra-accademica arrisa al suo saggio), Butler poneva infatti l’accento sulla componente sessuata dell’identità (cioè ipseità, nei termini di Ricœur). Performatività in termini filosofici, ma anche in senso lato: se è vero che fonte-chiave del suo lavoro (e del suo titolo) era dichiarata nel film Female Trouble di John Waters, con protagonista il travestito Divine.

Ma sbagliava chi in Italia, nel 2004, traduceva quel titolo così fortunato come Scambi di genere (il titolo dell’edizione 2013, più correttamente, recita Questioni di genere): perché posta appunto in questione da Butler non è solo la «mascherata» trans-gender ma anche quella, per così dire, intra-gender. Lo mostra il suo recupero del pensiero della psicoanalista inglese Joan Riviere, allieva di Melanie Klein e traduttrice di Freud: Womanliness as a Masquerade è un saggio del 1929, citato a suo tempo da Lacan ma riscoperto solo dalla critica femminista negli anni Ottanta (penso per il cinema a Mary-Ann Doane o per le arti visive ad Amelia Jones e poi a Jennifer Blessing – curatrice nel 1997, al Guggenheim Museum di New York, di una mostra fondamentale come Rrose is a rrose is a rrose. Gender performance in photography), che per primo forse poneva in termini performativi, appunto, l’identità femminile (ma dell’anno prima è il romanzo Orlando di Virginia Woolf, e del 1925 la commedia Nostra dea di Massimo Bontempelli).

Perché insomma anche le donne si travestono da donne: estremizzando tratti culturali più o meno stereotipati come nella tradizione della femme fatale. La critica femminista (penso a Laura Mulvey) sottolineerà l’identificazione coatta del soggetto (femminile) con lo sguardo egemone (maschile), o con la trasmissione culturale (matrilineare, ma in ubbidienza a istanze patriarcali) di modelli univoci e costrittivi; ma in effetti, meno studiata quanto forse più sottilmente operante, esiste anche una mascherata maschile: con la quale il soggetto maschio accentua parodicamente, e a sua volta in modo più o meno coatto, i propri stereotipi di genere. Il che secondo Riviere (riprendendo uno spunto di Sandor Ferenczi) può essere sintomo di una «difesa» della (e dalla) propria dissimulata omofilia, ma non coincide necessariamente con comportamenti od “orientamenti” omosessuali (quale in effetti era quello della paziente dal cui “caso” la psicoanalista prendeva le mosse).

Una soglia, in ambito artistico, si colloca nel 1974 (notevole la coincidenza per cui Butler parla dei quattordici anni da lei vissuti nella comunità gay e lesbica dell’East Coast, prima di metter mano a Gender Trouble). Quell’anno andava in scena al Kunstmuseum di Lucerna (e poi a Bochum e a Graz) la mostra Transformer. Aspekte der Travestie, nella quale spregiudicatamente Jean-Christoph Ammann accostava artisti “veri e propri”, come Urs Lüthi, Pierre Molinier e Luigi Ontani, a rockstar come Mick Jagger e David Bowie. Del resto il titolo della mostra era preso dall’album Transformer, pubblicato due anni prima da Lou Reed: il cui mentore, Andy Warhol, era di gran lunga l’artista più conosciuto tra quelli esposti a Lucerna (il lavoro di Lüthi, I’ll be your mirror, a sua volta prendeva il suo titolo da una canzone nel primo album dei Velvet Underground, pubblicato nel ’67).

Nella hit di Lou Reed, Walk on the Wild Side, faceva scandalo il riferimento esplicito al travestitismo («Holly came from Miami, F.L.A. / Hitch-hiked her way across the U.S.A. / Plucked her eyebrows on the way / Shaved her legs and then he was a she») ma del resto quando esce il citato Female Trouble di John Waters, nello stesso ’74 della mostra di Ammann, nel cinema underground il tema era già stato affrontato proprio nel carnevalesco ambito della Factory: la trilogia di Paul Morrissey (co-firmata da Warhol, sebbene il cineasta ne abbia sempre rivendicato l’autorialità esclusiva), composta da Flesh, Trash e Heat, viene realizzata fra il ’68 e il ’72 e vede protagonisti travestiti come Candy Darling e Holly Woodlawn (è lei la protagonista della strofa citata di Walk on the Wild Side;ma già nel ’66 l’imprevisto successo di Chelsea Girls era stato un trionfo del gusto camp: le celebri Note di Susan Sontag su questa forma di «vita come recita» datavano a due anni prima). Certo a far scalpore è, all’alba dei Settanta, il coming out di una simile sensibilità da un contesto hip e underground,quale era comunque quello della Factory, a una scena mediatica globale come quella della musica pop e del nascente fenomeno del glam rock: un’altra soglia, nel ’71, è rappresentata dalla “scandalosa” cover di The Man Who Sold the World, con un David Bowie en travesti fotografato da Keith McMillan. Proprio Bowie, a chiudere il cerchio, l’anno dopo produrrà Transformer di Lou Reed.

In sintomatica contemporaneità, giusto nel ’72, due fotografe dai percorsi non convenzionali come Nan Goldin e Lisetta Carmi espongono o pubblicano le loro fotografie di Travestiti (così s’intitola, semplicemente, il lavoro di Carmi). Importante la notazione di Jennifer Blessing: secondo la quale lo sguardo di Goldin (il cui lavoro troverà una sistemazione solo nel ’93, nel volume The Other Side) si distingue dalla tradizione precedente, di attrazione maliziosa per non dire morbosa al fenomeno del travestitismo (si ricordano per esempio i ritratti scritti di Jean Cocteau, o quelli fotografici di Man Ray, della superstar Barbette che impazzava nella Parigi notturna degli anni Venti, o le successive foto episodicamente rubate da Brassaï o Diane Arbus), per la «relazione» dell’artista «con i suoi soggetti»: «sono immagini pubbliche ma anche intime, il risultato del tempo passato insieme ».

Lo stesso vale per Carmi, il cui libro – che per anni fa invano il giro degli editori italiani prima che il pubblicitario Sergio Donnabella dia vita a una sigla editoriale, Essedi, al solo scopo di finalmente pubblicarlo – è il precipitato di sei anni di vita in comune nei bassifondi di Genova, nel corso dei quali l’autrice comprende di essere stata «assillata – forse a livello inconscio – da problemi d’identificazione maschile o femminile», e d’essere infine riuscita – proprio grazie a questa esperienza – «ad accettarsi per quello che è: una persona che vive senza un ruolo» (lo stesso abbandono della fotografia da parte sua, cinque anni dopo l’uscita di Travestiti, proseguirà forse questo processo di liberazione personale). Rievocherà Carmi tanti anni dopo, intervistata da Antonio Gnoli: «una persona che conosceva bene quel mondo mi invitò a una loro festa. Andai, con una piccola macchina fotografica. Trascorsi la serata in casa di uno di loro. Non ricordo se era un compleanno, ma c’erano dolci, del vino e un grammofono che suonava canzoni strazianti. Qualcuna ballava con il rispettivo fidanzato, qualcun’altra era mollemente distesa sui divani. Chiesi il permesso di scattare qualche foto. Cominciò così un lungo rapporto che andò avanti per anni. Mi affezionai ad alcuni di loro. Così libere e così indifese. Portavano nomi esotici. La “Gitana” era stata l’amante di de Pisis, la “Morena” aveva ispirato De André per Bocca di Rosa, un giorno mi confessò che avrebbe desiderato farsi suora. E poi c’era la “Novia”, conturbante e ambigua come un androgino. Credo che sia l’unica ancora in vita».

È la conferma di quanto annoterà Judith Butler rievocando la maturazione del suo libro: l’interesse concettuale – nonché quello artistico – per questa dimensione dell’esistenza non può essere disgiunto da una pratica biografica, e insieme da una consapevolezza lato sensu politica. Il ’72 – ha ricordato lo psicoanalista Vittorio Lingiardi presentando la recente riedizione, appena postuma, dei Travestiti di Lisetta Carmi – è anche, in Italia, l’anno della prima manifestazione pubblica di persone omosessuali: in protesta contro un «Congresso internazionale delle devianze sessuali» organizzato dal Centro Italiano di Sessuologia (entro il quale, ancora a quell’altezza, venivano proposte forme varie e strampalate – sino ad apparire buffe, non fossero in effetti state criminali – di “cura” della “devianza sessuale”).

Data al mirabilis 1974 anche un ciclo straordinario di performance inscenate all’Attico da Luigi Ontani (unico artista italiano, s’è visto, a prendere parte quell’anno a Transformer). I suoi avatar sono ispirati all’immaginario collettivo (come già un Tarzan ivi proposto l’anno precedente; mentre allo sbarco a New York, nel ’75, indosserà ovviamente i panni di Cristoforo Colombo): nell’arco di tre settimane l’artista si traveste da Don Chisciotte, Don Giovanni e Superman, così mostrando quel paradigma dell’identità come modellizzazione teorizzato da Ricœur, ma anche evidenziando come quella del travestimento non sia pratica da ricondurre necessariamente, ed esclusivamente, all’instabilità di genere sessuale. Nello stesso ’74 Ontani – riflettendo all’interno del fortunato libro di Lea Vergine, Il corpo come linguaggio,sul suo lavoro archetipico nel quale nel ’70 aveva imitato il Bacchino del Guercino – aveva interpretato la «posa», più in generale, quale «proposizione di imbastire autoideale […] per formulazione diretta o per citazione», e quale «momento sintesi come espressione fotografica e come prelievo del comportamento». Rispetto alla «performance intesa come accadimento», ha scritto Andrea Bellini, «Ontani contrappone un’immagine ferma nel tempo»; infatti alla logica del divenire, propria della tradizione della performance, sostituisce quella del divenuto: che appartiene semmai (ma, vedremo, in forma perversa) a quella dell’autoritratto. Soprattutto mostrando come anche (se non, paradossalmente, soprattutto) in questa immobilità araldica precipiti una concezione dinamica, teatrale, sfrenatamente mimetica dell’identità. Ancora una volta ipse, cioè, in luogo di idem.

Detto di quanto appaia sottovalutata a livello internazionale la precocità della ricerca di Ontani, non si può non confrontarla a questo punto con quella, invece fortunatissima, di Cindy Sherman: che però solo nel 1980, dopo aver praticato la pittura e una simulazione di street photography (nella serie Bus riders, iniziata nel ’76), si presenta al mondo col linguaggio che le dà la fama in Untitled Film Stills: una serie di lavori iniziati tre anni prima, all’atto del suo trasferimento da Buffalo a New York. Anche Sherman riflette anzitutto sul problema dell’identificazione con modelli esterni, anche se nel suo caso il riferirsi in prima battuta a quelli offerti dal cinema (anzitutto quello classico hollywoodiano, anche se un riferimento teorico chiave era stato per lei un capolavoro della sperimentazione europea anni Sessanta come La Jetée di Chris Marker) comporta una riflessione sul tempo e su una narratività abortita che, già nel primo importante scritto a lei dedicato (quello di Douglas Crimp nel catalogo della mostra Pictures, 1977, che pure non la includeva), vi faceva riconoscere una luce drammatica, per non dire traumatica, che col tempo nei suoi lavori verrà sempre più a giorno, ma che si faticherebbe a riscontrare nelle effervescenti opere di Ontani (il cui citazionismo pittorico potrà essere allora accostato, semmai, a quello di un’altra pioniera statunitense, Eleanor Altin, in quegli anni attiva in California); mentre l’evasività rispetto a modelli precisi (le Untitled Film Stills non riproducono mai, in effetti, individuabili scene della storia del cinema) colloca la sua opera in un regime deliberatamente ambiguo.

Solo nei tardi anni Ottanta, con gli History Portraits, Sherman cercherà ispirazione in capitoli puntuali della tradizione artistica: e quando nel ’90, in Untitled # 224, interpreterà l’altro e più celebre Bacchino, quello malato di Caravaggio, la sua potrà apparire un’allusiva “risposta” al lontano precedente rappresentato dal primo Ontani.

Come che sia, se il diffondersi della sensibilità camp o la combattività dei movimenti femministi e queer hanno avuto certo il loro influsso nel precisarsi delle ricerche degli artisti più tipici degli anni Settanta (come ha scritto Laura Mulvey, «la politica del corpo portò logicamente a una politica della sua rappresentazione»), il linguaggio di Ontani e quello di Sherman mostrano quanto preesista a quella temperie sociale e politica un’identità teatralizzata e metamorfica (che in entrambi i casi capovolge la logica classica dell’autoritratto: alla spietata ricerca dell’autenticità, propria di questa tradizione, si sostituisce un’immagine che “diverte” il Sé, proiettandolo in una fantasmagoria di personæ alternative).

L’alterità costitutiva dell’identità di Ontani, e la sua mascherata maschile, fanno infatti pensare, entro la tradizione del moderno, agli autoritratti in costume realizzati a partire dai primi anni Quaranta da Giorgio de Chirico: quando, negli scritti raccolti sotto un titolo allusivo come Commedia dell’arte moderna, questi confessava «noi amiamo il “non vero”. Noi amiamo tutto ciò che ci ricorda la nostra vita, ma che “non è la nostra vita”; noi amiamo la finzione». E aggiungeva: «il travestimento permetteva agli uomini di essere, fino ad un certo punto, quello che non erano, e specialmente quello che, più o meno coscientemente, avrebbero desiderato di essere. Per esempio un pacifico borghese travestito da brigante o da bucaniere» (impossibile non pensare a quadri come l’Autoritratto come torero, del ’41, che del resto illustravano questi interventi su riviste come «L’illustrazione italiana»).

Da Ontani il debito è dichiarato con due diverse rielaborazioni, a trentatré anni di distanza l’una dall’altra, del travestimento più radicale, e più irridente, che mai abbia indossato il Pictor Optimus (proprio Il travestito aveva maliziosamente intitolato «L’Espresso», nel ’62, una piccante intervista fattagli da Camilla Cederna nella casa-museo-in-vita di Piazza di Spagna): quello dell’Autoritratto nudo (realizzato in due versioni, nel ’43 e nel ’45). L’Autoritratto nudo (d’après Giorgio de Chirico) del 1978 e il SenilSemiNudo (d’après Giorgio de Chirico) del 2011 compongono un dittico che, con acuto quanto deliberato paradosso, restituisce al mordere del tempo il sogno di fissità atemporale della «posa».

Una volta Rosalind Krauss ha definito quello di Cindy Sherman un «sé readymade»: così alludendo a un altro archetipo, forse il più alto che si possa indicare nella genealogia abbozzata in questa sede. È il 1920 quando entra in società Rrose Sélavy, l’alter ego femminile di Marcel Duchamp, firmando (ancora nella forma semplice di «Rose Sélavy») un readymade modificato intitolato Fresh Widow; l’anno successivo mostrerà le proprie fattezze (e il nome definitivo di «Rrose») nell’etichetta applicata sulla Belle Haleine, readymade che détournava nome e immagine di un profumo alla moda, e balzerà definitivamente al proscenio con le due serie di ritratti realizzati da Man Ray fotografando Duchamp travestito da femme fatale. Il gender trouble messo in gioco dai due amiconi aveva un precedente ulteriore in L.H.O.O.Q., la famigerata “Gioconda coi baffi” del ’19, che retrospettivamente ci appare leggibile, allora, in senso non solo giocosamente iconoclasta (l’androginia allude anzi, oltre che al precedente dello stesso Leonardo favoleggiato en travesti, ai culti alchemici e misterici ai quali rinviava pure, l’anno ancora precedente, Hermaphrodito: opera letteraria d’esordio del fratello di de Chirico, Alberto Savinio). Molto tempo dopo (a Katherine Kuh, nel ’62) dichiarerà Duchamp: «la mia intenzione è sempre stata quella di fuggire da me stesso, anche se sapevo benissimo che mi stavo servendo proprio di me stesso. Potete chiamarlo un piccolo gioco tra io e me».

La citata mostra al Guggenheim del ’97 s’intitolava all’avatar femminile di Duchamp contaminandolo col celebre verso di Gertrud Stein, «a rose is a rose is a rose is a rose» (dalla poesia Sacred Emily, 1913). A partire dallo snodo rappresentato da Rrose Sélavy rileggeva questa genealogia in avanti, com’è ovvio, con Sherman (ancorché non con Ontani, purtroppo) e con Warhol: il demiurgo della Factory, s’è detto, ma anche l’artista in proprio degli autoritratti fotografici en travesti uno dei quali esposto, nel ’73, giusto alla grande retrospettiva su Duchamp al MoMA e al Philadelphia Museum of Art (già nel ’68, del resto, l’Arbasino frenetico cronista culturale dagli States leggeva Chelsea Girls come «una trovata alla Marcel Duchamp»).

Ma anche a ritroso, o meglio in parallelo, mettendo precocemente a fuoco una figura che, a lungo negletta, negli ultimi anni è stata oggetto di un’importante riscoperta. All’anagrafe Lucy Renée Mathilde Schwob, figlia del giornalista ed editore Maurice Schwob (fratello dell’importante scrittore Marcel, le cui Vite immaginarie del 1896 non saranno state estranee alla sua ispirazione),prende il nome androgino di Claude Cahun e a partire dal 1914 realizza una serie di autoritratti en travesti nei quali assume le sembianze di celebri donne del passato, impiegando maschere e abiti di scena teatrali (il corpus fotografico sarà pubblicato nel 1930 nell’antologia Aveux non avenus, illustrata dai fotomontaggi realizzati con Suzanne Malherbe, alias Marcel Moore, sua sorellastra e compagna di vita): la sua femminilità come mascherata anticipa di quasi trent’anni, dunque, i travestimenti intra-gender di de Chirico, e di una buona sessantina quelli di Ontani e Sherman.

Solo in un secondo momento, e dopo gli exploits di Rose Sélavy (un Autoritratto del ’26, nel quale indossa sul petto una grande stella luccicante, rinvia certo alla Tonsura con la quale Duchamp, nel ’19, cominciava a “rettificare” la propria immagine; mentre i ripetuti auto-foto-montaggi col cranio rasato ripetono forse una meno vulgata immagine duchampiana, che sempre nel ’19 si fece ritrarre col cranio completamente rasato), Cahun preciserà la sua ispirazione travestendosi invece da uomo; e anzi nel suo lavoro forse più inquietante, Frontière humaine (uscito nel 1930 sulla rivista parasurrealista «Bifur», che due anni prima aveva anticipato l’Hebdomeros di de Chirico), da essere di genere (o forse specie) indefinibile.

In un altro fotomontaggio realizzato nello stesso periodo insieme a Suzanne Malherbe, I.O.U. (Self-Pride), che figura quale ultima tavola di Aveux non avenus, le diverse personæ di Cahun si danno convegno nella stessa immagine – l’effetto può ricordare certe foto di gruppo dei surrealisti, oppure l’Io-noi del giovane Boccioni qualche anno dopo rifatto, tra gli altri, proprio da Duchamp – e al suo margine sinistro si concentrano in un disegno approssimativamente fallico, contorniato dal suo motto manoscritto: «Sous ce masque un autre masque. Je n’en finirai pas de soulever tout ces visages».

Sono parole che, direbbe Judith Butler, mettono in crisi quella credenza nella «realtà del genere» che da sempre ispira ogni condotta normativa, ogni caccia alla “devianza”. Una simile molteplicità di “devianze” giustapposte e sovrapposte non solo si contrappone alla «violenza messa in atto dalle norme di genere» ma, più alla radice, mette in questione la presunta “realtà” univoca che, persino al di là del genere e delle sue politiche, rappresenta ancora oggi il massimo feticcio di ogni identità che si pretenda rigida e immutabile. Mentre io, come si vede, è ancora un altro.

Ghenos Eros Thanatos di Alberto Boatto (Bologna, Galleria de’ Foscherari, 1974) è stato riproposto nel 2016 a cura di Stefano Chiodi, accompagnato da una scelta di Altri scritti sull’arte 1968-1985, dalla collana «fuoriformato» dell’editore romano L’orma.

Di Christopher Lasch è citato The Culture of Narcissism: American Life in an Age of Diminishing Expectations, New York, Norton, 1979 (traduzione italiana di Marina Bocconcelli, La cultura del narcisismo, Milano, Bompiani, 1981; Vicenza, Neri Pozza, 2020); di Francis Fukuyama The End of History and the Last Man, New York, Free Press, 1992 (traduzione italiana di Delfo Ceni, La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992); di Paul Ricœur Soi-même comme un autre, Paris, Éditions du Seuil, 1990 (traduzione italiana di Daniella Iannotta, Sé come un altro, Milano, Jaca Book, 1993); di Judith Butler Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, London, Routledge, 1990 (traduzione italiana di Sergia Adamo, Questioni di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Roma-Bari, Laterza, 2013).

Il saggio fondamentale di Joan Riviere, Womanliness as a Masquerade uscì sul numero 10 di «International Journal of Psychoanalysis», nel 1929; è stato raccolto in The Inner World and Joan Riviere. Collected Papers 1920-1958, a cura di Athol Hughes, London, Routledge, 1991 (traduzione italiana di Paola Arfelli, Il mondo interno. Scritti (1920-1958), a cura di Franco Borgogno, Milano, Cortina, 1998). Il suo concetto è stato ripreso per esempio in Mary Ann Doane, Film and the Masquerade. Theorizing the Female Spectator [1982], in Ead., Femmes Fatales. Feminism, Film Theory, Psychoanalysis, New York, Routledge, 1991 (traduzione italiana di Gloria Beltrani, Donne fatali. Cinema, femminismo, psicoanalisi, introduzione di Sandra Filippini, Parma, Pratiche, 1995) e in Amelia Jones, «Clothes make the man»: the Male Artist as a Performative Function, in «Oxford Art Journal», XVIII (1995), 2 (ma si veda ora, della stessa, In between subjects. A critical genalogy of queer performance, Abingdon, Ogdon-New York, Routledge, 2021). Di Laura Mulvey si veda l’influente Visual Pleasure and Narrative Cinema [1975], in Ead., Visual and Other Pleasures, Bloomington. Indiana University Press, 1989 (traduzione italiana Cinema e piacere visivo, Roma, Bulzoni, 2013,a cura di Veronica Pravadelli).

Le due mostre citate sono Transformer. Aspekte der Travestie, a cura di Jean-Christoph Ammann, Luzern, Kunstmuseum, 17 marzo-15 aprile 1974 (catalogo Luzern, Kunstmuseum-W.Staub AG, 1974) e Rrose is a rrose is a rrose. Gender performance in photography, a cura di Jennifer Blessing, New York, Solomon R. Guggenheim Museum, 17 gennaio-27 aprile 1997 (catalogo New York, Guggenheim Museum Publications, 1997). Di Susan Sontag è citato Notes on «camp» [1964], in Ead., Against Interpretation, New York, Farrar, Straus & Giroux, 1966(traduzione italiana di Ettore Capriolo, Contro l’interpretazione, Milano, Mondadori, 1967; si veda ora però Contro l’interpretazione e altri saggi, traduzione di Paolo Dilonardo, con una nota di Daniele Giglioli, Milano, nottetempo, 2022).Su David Bowie si veda Il corpo dell’artista. Omaggio a David Bowie, numero monografico a cura di Silvia Urbini e Alessandra Pedersoli di«Engramma», 141, gennaio 2017 (in particolare i saggi di Giuseppe Virelli, L’arte del dandy, il dandy come (opera d’)arte e Luca Scarlini, Il guardaroba degli abiti sacri).

Le fotografie di Nan Goldin sono state raccolte in The Other Side, New York, Perseus, 1993 (citata è Jennifer Blessing, Rrose is a rrose is a rrose, cit., p. 96); quelle di Lisetta Carmi in I travestiti, Roma, Essedi, 1972 (si veda ora la nuova edizione a cura di Giovanni Battista Martini, Roma, Contrasto, 2022, che riporta immagini a colori in precedenza inedite; si trova qui il saggio citato di Vittorio Lingiardi, A Walk in the Wild Side; l’intervista ad Antonio Gnoli, «Ho imparato che la libertà si può fotografare», è uscita su «Robinson», supplemento de «la Repubblica», il 27 marzo 2021).

Di Luigi Ontani è citata la nota compresa in Lea Vergine, Il corpo come linguaggio (La «Body-art» e storie simili, Milano, Prearo, 1974; poi Milano, Skira, 2000); di Andrea Bellini è citato RivoltArteAltrove. La Patria di Luigi Ontani, a p. 246 del volume a sua cura Luigi Ontani. CoacerVolubilEllittico, Zurich, JRP-Ringier, 2012 (pubblicato in occasione delle mostre dell’artista RivoltArteAltrove, Torino, Castello di Rivoli, 2011; BernErmEtica, Bern, Kunsthalle, 2012; Déjeuner sur l’art, Dijon, Le Consortium, 2012). 

Su Cindy Sherman sono citati Douglas Crimp, Pictures, in «October», 8, primavera 1979 (rielaborazione del testo nel catalogo della mostra onomima a sua cura, New York, Artists Space, 24 settembre-29 ottobre 1977; gli artisti esposti erano Troy Brauntuch, Jack Goldstein, Sherrie Levine, Robert Longo e Philip Smith) e Laura Mulvey, A Phantasmagoria of the Female Body: The Work of Cindy Sherman, in «New Left Review», 188, luglio-agosto 1991, p. 139 (traduzione italiana di Antonio Fedele, Cosmetica e abiezione. Cindy Sherman 1977-1987, in Cindy Sherman, a cura di Joanna Burton, Milano, Postmedia Books, 2019) e Rosalind Krauss, Cindy Sherman: untitled, in Cindy Sherman, 1975-1993, New York, Random House, 1993 (poi in Ead., Bachelors, The MIT Press, 2000; traduzione italiana di Elena Volpato, Cindy Sherman: senza titolo, in Ead., Celibi, Torino, Codice, 2004); ma cfr. pure Amelia Jones, Tracing the subject with Cindy Sherman, in Cindy Sherman: Retrospective, New York, Thames & Hudson, 1997, pp. 33-53 e Jennifer Blessing in Rrose is a rrose is a rrose, cit., pp. 81-6.

Di Giorgio de Chirico sono citati Discorso sullo spettacolo teatrale [1942] e Maschere e travestimenti, entrambi compresi in Id. (con «Isabella Far»), Commedia dell’arte moderna, Roma, Nuove Edizioni Italiane, 1945; e l’intervista Il travestito di Camilla Cederna, uscita su «L’Espresso» il 22 luglio 1962 (ora rispettivamente alle pp. 1203, 1229 e 2256-62 di Id., Scritti 1910-1978, a cura di Andrea Cortellessa, Sabina D’Angelosante e Paolo Picozza, Milano, La nave di Teseo, 2023; rinvio alla mia introduzione a questo volume, Tutto de Chirico, specie alle pp. LXIV-LXXVIII). Si veda anche Gerd Roos, Giorgio de Chirico zwischen Fra Galgario und Cindy Sherman. Notizen zu einigen Selbstbildnissen des «Pictor optimus», in Giorgio de Chirico. A Metaphysical Journey. Paintings 1909-1973, catalogo della mostra a sua cura, Zürich, Galerie Andrea Caratsch, 18 aprile-23 maggio 2008, Köln, Koenig, 2008, pp. 112-21.

Su Marcel Duchamp cfr. Amelia Jones, Postmodernism and the En-Gendering of Marcel Duchamp, Cambridge (MS), Cambridge University Press, 1994 (specie alle pp. 146-90 e 282-300), Jennifer Blessing in Rrose is a rrose is a rrose, cit., pp. 19-23 e Giovanna Zapperi, L’artiste est une femme. La modernitè de Marcel Duchamp, Paris, Presses Uniersitaires de France, 2012 (traduzione italiana dell’autrice, L’artista è una donna. La modernità di Marcel Duchamp, Verona, ombre corte, 2014); ma anche, da una prospettiva diversa, David Joselit, The Self Readymade, in Infinite Regress. Marcel Duchamp 1910-1941, Cambridge-London, The MIT Press, 1998 (traduzione italiana di Rossella Rizzo, L’io come readymade, in Marcel Duchamp. Critica biografia mito, a cura di Stefano Chiodi, Milano, Electa, 2009). L’intervista citata è in Katherine Kuh, The Artist’s Voice. Talks With Seventeen Modern Artists, New York, Harper & Row, 1962, p. 83. 

Su Andy Warhol è citato Alberto Arbasino, Off-off, Milano, Feltrinelli, 1968 (riportato anche in Andy Warhol, numero monografico a cura di Elio Grazioli di «Riga», 22, Milano, Marcos y Marcos, 2012, p. 68; si veda pure, ivi, il saggio di Luca Scarlini, Sono uno schermo d’argento. Andy Warhol attore e personaggio); cfr. Jennifer Blessing in Rrose is a rrose is a rrose, cit., pp. 70-3.

Aveux non avenus di Claude Cahun viene pubblicato dalle Éditions du Carrefour nel 1930. I suoi scritti sono raccolti in Écrits, a cura di François Leperlier, Paris, Jean-Michel Place, 2002 (una selezione in italiano, nella traduzione di Elena Paul, è nel volume Eroine, a cura di Roberto Speziale, Palermo, : duepunti, 2011);cfr. Jennifer Blessing in Rrose is a rrose is a rrose, cit., pp. 37-8; Rosalind Krauss, Bachelors, cit.; Fabiola Naldi, I’ll Be Your Mirror. Travestimenti fotografici, Roma, Cooper & Castelvecchi, 2002; Silvia Mazzucchelli, Oltre lo specchio. Claude Cahun e la pulsione fotografica, Monza, Johan & Levi, 2013, 20222 (utile la bibliografia di Lucia Biolchini in www.claudecahun.org).

Chrysalis: The Butterfly Dream
A cura di Andrea Bellini
con la collaborazione di Sarah Lombardi e Sara De Chiara
Ginevra, Centre d’art contemporain
fino al 4 giugno 2023

In copertina: Luigi Ontani, Bacchino (da Guercino), 1970

Le fotografie dell’allestimento della mostra Chrysalis: The Butterfly Dream sono di Mathilda Olmi © Centre d’Art Contemporain Genève

Andrea Cortellessa

(Roma, 1968) critico e saggista. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma Tre; nel 2018 ha tenuto la «cattedra De Sanctis» al Politecnico di Zurigo. Ha pubblicato saggi, curato testi e realizzato trasmissioni radiofoniche e televisive, spettacoli teatrali e musicali. È nella redazione del «verri» e collabora ad «Alias», «Il Sole 24 ore», «Tuttolibri», «doppiozero», «Le parole e le cose2» e altre testate.

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