In principio ovvero delle tenebre
In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano la faccia dell’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno. (Genesi 1, 1-5).
All’inizio, prima di ogni immagine, di ogni visione, di ogni cosa, è il nero primordiale, la tenebra. Il nero, il colore delle tenebre che ricoprono la faccia dell’abisso, è prima dell’inizio. La luce viene dopo.
Al principio è il vuoto, il caos, l’abissale assenza di senso. C’è cielo e c’è terra ma nell’indistinzione dell’uno dall’altra, perché entrambi sprofondati nel nero delle tenebre. Lunga (sette giorni, sette millenni, Salmi 90, 4) è la via per l’instaurazione del Regno, per la creazione di un mondo di senso. Il nero delle tenebre cela la luminosità di un senso, di una direzione del mondo. La religione del Libro è una religione storica, di una storia lineare che va da un’origine, sprofondata nell’oscurità, a una fine, un’apocalisse, in cui regnerà solo la luce. In questo la Genesi non è solo una teogonia, ma anche una cosmogonia e un’escatologia.[1]
E il nero si pone all’origine di questo percorso, di questo cammino che coincide con la storia dell’Occidente.
Per quella cosmogonia secolarizzata in cui le tavole della Legge sono state sostituite dalle leggi della fisica il nero è un colore con luminosità teoricamente nulla; un colore dato dalla sintesi sottrattiva di tutti gli altri colori dello spettro visibile (mentre il bianco è dato dalla sintesi additiva di tutti i colori).
Per noi, oggi, anticolore, caratterizzato dall’assenza (di colore). Nella parola aprente e originaria della Genesi, antiprincipio che viene prima della luce. Origine di ogni dualismo.[2] Il nero e il bianco. La tenebra e la luce. La notte e il giorno.
Eppure, è forse solo guardando da un’errata prospettiva, come il libro della Genesi sembra suggerire, che possiamo dire del nero che sia l’assenza di luce. È solo dopo il principio, dopo il fiat lux, che il nero si caratterizza come un’assenza. Il nero, in realtà, viene prima, è prima dell’origine o, quanto meno, vi co-appartiene. Tutto lo gnosticismo non è altro che una interminabile interpretazione della priorità ontologica tra Dio, l’Abisso (tohuwabohu), l’Oscurità e l’Acqua primordiale (vista dagli gnostici come la materia, cioè l’origine di ogni male). Nella tradizione cabbalistica – che, secondo Gershom Scholem, è perfetto tentativo di sintesi tra Gnosi e Torah – l’abisso primordiale si radicalizza ancor più, alludendo a una sua coincidenza con un dio impersonale, senza qualità né attributi, un Ein Sof, un dio nascosto nelle “profondità del nulla”. La Qabbalah analizzerà in un moltiplicarsi di piani, proprio ripensando la Genesi biblica, il complessissimo rapporto tra il Nulla (אין), l’Ein Sof (il Nulla limitato, “ciò che non ha fine”, אין סוף), l’Ohr Ein Sof (la “Luce infinita”, אור אין סוף) e, attraverso il movimento di ritrazione divina dello tzimtzum, le emanazioni delle Sefiròth. Il nero è il colore sia del Nulla cosmico sia dell’Ein Sof, dell’abisso primario, quello in cui, se così possiamo dire, sta Dio prima della creazione, prima di essersi auto-limitato ed essersi, quindi, manifestato come “Luce infinita”, Ohr Ein Sof. O in cui si concentra forse, per venire a latitudini a noi più prossime, l’universo prima del Big Bang.
Il nero resta, in ogni caso, l’enigma: non è propriamente solo un colore ma una questione ontologica.
La notte oscura ovvero della mistica
Alla “notte oscura”, alla faccia senza tratti riconoscibili dell’abisso, farà riferimento quasi tutta la grande mistica. Il mistico, infatti, fa esperienza di un Dio che è assai prossimo al nulla (Meister Eckhart dirà “Dio è nulla”). Non si tratta certo, come alcuni hanno creduto, di una prossimità tra il misticismo e il nichilismo, ma di un tentativo, incerto, oscuro e spesso disperato, di raggiungere il Dio primordiale, quel Dio informe che sta prima della creazione, prima della parola (la davar ebraica, così differente dal logos greco) che crea “cose” (davar significa sia “parola” sia “cosa”) e non “idee” (come, invece, è peculiare del logos). È il Dio della Genesi, il Dio del fiat che, tramite il verbo, crea il mondo. Ed è un Dio oscuro, abissale. Un Dio che vive nell’informe e contempla, come un cieco, la faccia dell’abisso.
Se ci pensiamo, questo non è solo il Dio dei mistici ma è anche il Dio degli artisti (non quello dei filosofi). Si tratta di un Dio che dalla “terra informe”, sempre attraverso una parola performativa, crea un mondo. E cos’altro fa l’arte, in tutte le sue sfaccettature, se non imitare questo gesto creatore? Cos’altro è l’arte se non il tentativo infinito di far emergere dalle tenebre, dal nero primordiale, una figura di luce? E quanta e quale sapienza porta in sé l’arte nel suo non separare la luce dall’ombra, il chiaro dallo scuro, il nero da tutti gli altri colori? L’arte dà ombra. Basti qui richiamare alcune note di Paul Celan al capitolo “Oscurità” del Meridiano, in cui più che mai evidente ricorre il legame tra buio (Dunkel), oscurità (Dunkelheit) e atto creativo, nel suo caso poetico. “Origine comune del buio nella poesia […] il buio congeniale alla letteratura […] origine comune del buio nella poesia / l’immagine qui non è metafora, questo modo di fare poesia non sta nell’emblematico, non è una poesia di atmosfera, l’immagine ha carattere fenomenico – appare – la visione –/ [non da ultimo] Da questi strati di tempo, da questo rivolgersi alla terra nera: il ‘buio’ congenito, costitutivo della poesia. […] Il Dio della poesia è incontestabilmente un Deus absconditus.”[3]
La poesia, l’arte, è il tentativo di una parola che si inoltra nella “terra nera”, la terra informe e deserta della Genesi, nella speranza, speranza cieca, brancolante nell’oscurità, di incontrare tracce di un dio nascosto, un dio che si è ritirato dal mondo, come nella creazione, tramite tzimtzum (ritrazione), della tradizione cabalistica. Il buio, il nero della notte, è il luogo dell’inno (come ben sapeva Novalis), lo spazio di una parola che fa cose, che non si destina al gelido mondo dei concetti, ma alla calda e incerta materia delle cose. Parole che fanno cose.
È a questa stessa parola che, probabilmente, pensava anche Wittgenstein quando, alla fine del suo Tractatus, indicava nella direzione del “mistico”,[4] che solo le arti e, per lui, l’etica erano in grado, non di spiegare, ma di mostrare. Non si spiegano le cose, si vivono. Non si spiega l’arte, se ne fa esperienza. La grande differenza tra il mistico e il religioso stricto sensu è che il mistico non crede che la rivelazione si sia data, storicamente, una volta per tutte e in modo irripetibile. Questo non si deve interpretare come negazione dell’importanza della rivelazione o del suo contenuto di verità, ma come la necessità di una sua ripetizione o ripresa, per dirla con Kierkegaard.[5] In un modo misterioso, forse potremmo o dovremmo dire oscuro, il mistico riattiva, rende alla sua potenza, al suo essere sempre in atto, l’azione rivelatrice, creatrice, poietica in cui il senso si dà, si dona, c’è (es gibt, direbbe Heidegger). In fondo, il mistico rinnova senza fine il miracolo che è l’esistenza del mondo; il miracolo che ci sia qualcosa e non piuttosto il nulla. Che ci sia la luce e non solamente la tenebra. Che vi siano colori e non solo il nero. Ma sa, allo stesso tempo, che tutto ciò può emergere solo scrutando il volto dell’abisso, solo errando nella notte oscura. Solo permeando di nero lo sguardo.
Ed è proprio quest’errabondo vagare nella notte – attraverso l’esperienza singolare di un’anima e di un corpo, con lo sguardo rivolto alla stella più lontana[6] – che rende così prossima l’esperienza mistica a quella artistica. L’artista entra nella “notte oscura”, corre il rischio di approssimarsi e perdersi nel “nulla”, a differenza del religioso che vive nella certezza di una parola – che è sempre anche una visione – data in modo indubitabile, una volta per tutte.
Mundus imaginalis ovvero dell’estasi della materia
Henry Corbin è stato forse il più grande studioso della tradizione sufi e della sua complessissima cosmologia metafisica, tra le più sofisticate reinterpretazioni della cosmogonia del Libro. In un passo abbastanza noto, dedicato alla tripartizione del mondo, Corbin giunge ad individuare la necessità di un mondo intermedio tra quello materiale e quello della pura trascendenza. Un mondo intermedio, cioè, nel quale si aprirebbe la possibilità di una forma di conoscenza che non sia né solo affidata ai sensi né solo all’astrazione intellettuale. Il mondo intermedio sarebbe, dunque, “un mondo soprasensibile, che non è né il mondo empirico dei sensi né il mondo astratto dell’intelletto”.[7] Un tale mondo, frequentato solitamente dai poeti e dai saggi, è uno spazio definito dalla dimensione dell’immaginale, cioè da una visione che non si esaurisce né nella semplice immagine né in un vago uso dell’immaginazione.[8] L’immaginale si rivelerebbe piuttosto come il luogo dell’apertura dell’immagine a ciò che va oltre di lei. È come se nella terra di mezzo, detta anche mundus imaginalis, il mondo materiale iniziasse il suo processo di smaterializzazione per inoltrarsi verso ciò che va oltre la materia, quasi che la materia si trascendesse dal suo interno dando origine a una sorta di materialismo estatico. Chiaramente, un tale processo di liberazione avviene attraverso una disciplina molto rigida, quella che potremmo definire una vera e propria arte dell’immaginale, un addestramento dello sguardo capace di portare gli occhi oltre la semplice percezione in direzione di un’autentica visione.
Ora, la questione che potremmo porci è se l’arte visiva, così come la grande poesia o i testi estatici della mistica di ogni epoca e di ogni latitudine, non sia costituita, anzi, non si presenti proprio come un insieme di fantasmi, di figure spettrali di questo mondo intermedio, di questa terra di mezzo o, detto altrimenti, di quel che diviene la terra quando, da informe e deserta, si fa mondo (con tutta la difficoltà di definire cosa sia il mondo e dove risieda il suo senso – sarebbe molto lungo da mostrare, ma è proprio questo il problema del Tractatus Logico-Philophicus di Wittgenstein).
Potremmo dire così: l’arte, in tutte le sue forme, è ciò che si deposita, ciò che resta della terra quando la terra si apre alla sua dismisura, alla sua trascendenza, al suo eccesso di senso. Prestando, però, attenzione in questa formula – che, come tutte le formule, vive della sua inadeguatezza – a non pensare che il senso di cui l’arte testimonia sarebbe qualcosa che si aggiunge alla materia, al mondo, alla “terra nera”. Il senso va, piuttosto, inteso come qualcosa che fuoriesce dalla materia, liberando la luce che già è contenuta nella materia oscura, della luce che è nel nero. L’arte è la forma di una luminosa oscurità.
In fondo, è come se l’arte non facesse che ritornare incessantemente al momento originario, a quel caos informe di cui parla la Genesi e ricominciasse a scrutare il volto dell’abisso. In questo senso, e spero ora si possa comprendere meglio cosa intenda, la grande arte porta dentro di sé qualcosa della mistica.

Sophie Ko, ormai da diversi anni, cerca di darci immagini di questa apertura iniziale, di questo principio che sottende ogni possibile visione, ogni possibile luce; cerca di darci immagini di questa estasi della materia. E lo fa inserendosi nella deriva di tanta arte contemporanea che per lei si individua, soprattutto, nell’opera di Claudio Parmiggiani, il quale, a sua volta, è sicuramente debitore di un’opera come quella di Alberto Burri – proprio di quel Burri autore di Nero con punti (1958 – fig. 1), da cui prende le mosse il nostro essere qui oggi – ma che potrebbe anche rendersi visibile nei nero su nero di Ad Reinhardt[9] o, per venire ai giorni nostri, in alcune opere, ottenute tramite l’utilizzo del Vantablack S-VIS, come in Descent into Limbo (1992 – fig. 2), di Anish Kapoor, opere capaci di assorbire quasi completamente la luce che colpisce la loro superficie.

Da Parmiggiani, l’artista georgiana riprende l’attenzione per l’effimerità dell’esistente. In particolar modo, la presenza della cenere (fig. 3) incarna questo sentimento di fragilità che passa attraverso una combustione, cioè un eccesso di luce, una volontà di luce. Da Parmiggiani riprende anche l’utilizzo del pigmento puro (fig. 4). Dimensioni espressive che, non certamente per accidente, in Parmiggiani assumono la fisionomia di un ripensamento della Croce e del Nulla, nella loro oscillazione, attraverso una “fede in niente ma totale”[10], che diviene la cifra poetica dell’artista di Luzzara.

In Sophie Ko le due dimensioni, quella del pigmento e quella della cenere (che, nel suo caso, è sempre e solo cenere di libri di immagini), si mescolano dando origine a una riflessione sul tempo, sulla caducità e la metamorfosi senza fine, che straborda, incessantemente, verso una visione estatica dell’esistenza, verso una transimmanenza radicale.

Icone di questa mistica dell’arte siano tre opere, qui scelte, tra sue molte altre possibili, per il loro isomorfismo, per quella dimensione ovale che ricorda tanto l’ellissi cosmica quanto l’uovo originario da cui tutto ha origine.

La prima è completamente nera. Incarna il ritorno al nero originario (Geografia Temporale. Back to Black – fig. 5), alla vertigine dell’abisso. Il suo titolo potrebbe essere “davanti all’abisso”, al suo imperscrutabile mistero, che è lontano da ogni immobilità, ma rende, anzi, il senso di un eterno divenire, di un infinito smottare del fondamento, di ogni fondamento possibile.

La seconda (Geografia Temporale. E quando miro in cielo arder le stelle – fig. 6) è popolata di presenze bianche. Il nero originario è rotto, interrotto, sospeso e assume i tratti di un enigma, in cui lo sguardo umano naufraga. Ricorda quel che scrive Matteo per indicare il miracolo epifanico. Ben lungi dall’indicare una cometa, come nota con finezza Guido Ceronetti,[11] l’illetterato Matteo usa l’espressione néhar-di-nûr, che significa “fiume-di-luce”, cioè Via Lattea. L’epifania è data dalla potenza del cielo che ci sovrasta, dalla sua infinita estensione sopra le tenebre dell’abisso, cioè quello che noi contemporanei chiamiamo lo spazio cosmico. Quella volta celeste a cui tenderebbe ogni sguardo, se solo potessimo ancora vederla. Quella volta, a cui il titolo dell’opera di Sophie Ko, esplicitamente, si richiama: la volta del pastore errante leopardiano che intona un canto notturno. È l’immagine della poesia, dell’atto poietico, come canto, come inno alla notte, alla sua dismisura, alla sua oscurità; oscurità che solo attraverso la luce delle stelle assume tutti i tratti della sua profondità, della sua immensità, della sua enormità.
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?[12]
L’ultima immagine è il “mezzogiorno” (Geografia Temporale, Rondello (il mezzogiorno) – fig. 7), è l’immagine di una creazione ormai compiuta, di una terra in cui l’eternità delle tenebre è sospesa e in cui “fu sera e fu mattina”, il primo giorno. Il tempo ha inizio con l’alternarsi, con il rincorrersi, di luce e tenebra. Vivere è oscillare dentro la notte fino all’albeggiare del giorno e transitare dalla luminosità dello zenit (il samt al-ru’ūs, la “via delle teste”) solare verso il tramonto – e così via, in un rondello senza fine, da tempo immemore e sino alla fine dei tempi.

Ma non è sempre un oscuro scrutare quello a cui è destinato l’umano, nella sua solitudine immensa. È, talvolta, nelle giornate di grazia, anche un luminoso splendore, un’aurea epifania (di cui la polvere d’oro è inconfondibile emblema), il cui senso non è meno enigmatico di quello del nero della notte, ma che riscalda il cuore, l’anima e trafigge gli occhi (come quelli della Teresa d’Avila del Bernini, inondati dai raggi dorati della luce divina – fig. 8).

Oscillare tra questi tre mondi, proprio come tra i tre mondi della mistica sufi (materia, immagine, trascendenza), è forse quel che di meglio è dato all’umano. La sola possibilità data ai mortali di sentirsi parte di un destino di luce, per sempre sospeso sulla tenebra dell’abisso.
Quello qui riprodotto è il testo di un intervento all’interno della la Giornata di Studi ALBERTO BURRI. LUCE SUL NERO, tenutasi il 3 febbraio, a Bologna, presso CUBO-Museo d’impresa del gruppo Unipol. Si ringraziano Angela Memola e Ilaria Bignotti per la gentile concessione a riprodurlo.
[1] Cfr. S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, Adelphi, Milano 1972-76.
[2] Cfr. I. P. Culianu, I miti dei dualismi occidentali. Dai sistemi gnostici al mondo moderno (1987), tr. it. di D. Cosi e L. Saibene, Rusconi, Milano 2022.
[3] Qui nella traduzione di Anna Ruchat apparsa, con il titolo di Si lasci alla poesia il suo buio, in www.antinomie.it, il 19.04.2020.
[4] “6.44 Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è” e “6.522 Vi è davvero dell’ineffabile: esso mostra sé, è il Mistico”, in L. Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus (1921), tr. it. di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1968, p. 81.
[5] Cfr. S. Kierkegaard, La ripetizione, a cura di D. Borso, BUR, Milano 2008. Più in generale sul rapporto tra mistica e rivelazione, si vedano, tra molti altri testi possibili, E. Zolla, I mistici dell’Occidente (1963), Adelphi, Milano 1997, G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica (1941),tr. it. di G. Russo, Einaudi, Torino 1993, M. Idel, Mistici messianici (1998), Adelphi, Milano 2004 e S. Quinzio, La croce e il nulla, Adelphi, Milano 1984.
[6] “Dunque / resistono ancora dei templi. Una / stella / manda certo ancora luce. / Niente, niente è perduto”, verso tratto dalla poesia di Paul Celan “Stretta” (Engführung), pubblicata per la prima volta in Sprachgitter (Grata di linguaggio) nel 1958, e qui riproposta nella traduzione di Anna Ruchat, apparsa nel n.51 di “Poeti e Poesia” e in www.antinomie.it il 05.12.2020.
[7] H. Corbin, Corpo spirituale e Terra Celeste. Dall’Iran mazdeo all’Iran sciita (1960-1979), tr. it. G. Bemporad, Adelphi, Milano 1986, p. 14.
[8] Harold Bloom, nella sua lettura neo-gnostica dell’atto poetico, ha sottolineato l’importanza di questo vedere visionario in ogni gesto fortemente creatore. Memorabili le pagine che vi dedica in Visioni profetiche (1996), con uno scritto di F. Ferrari, tr. it. di N. Rainò, SE, Milano 2022.
[9] Su Reinhardt e i suoi “nero su nero” si veda R. Venturi, Black paintings. Eclissi sul modernismo, Electa, Milano 2008.
[10] C. Parmiggiani, Una fede in niente ma totale, a cura di A. Cortellessa, Le lettere, Firenze 2010 (2a ed. 2019).
[11] G. Ceronetti, Cara incertezza, Adelphi, Milano 1997, p. 13.
[12] G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1829-30), in Tutte le Opere, a cura di W. Binni, Sansoni, Firenze 1969, vol. III, p. 29.
In copertina: Joseph Uhl, Das Heilige Feuer, tavola IX dalla serie “Per aspera ad astra”, acquaforte e puntasecca, 1921