Il versetto 1-26e la sua rifunzionalizzazione
Come preliminare a un piccolo viaggio intorno a due re-immaginazioni del versetto 1-26 della Genesi, diamo un’occhiata a come si presenta nella versione CEI del 2008: «Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: dòmini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra’». Il pastore evangelista Myles Munroe (1954-2014) ha proposto tre soluzioni per sostituire quel verbo declinato all’imperativo, «dominare», che regge tutto il versetto: «controllare, amministrare, legiferare con autorità sovrana». Non sugli altri uomini si applica il dominio, specifica Munroe, ma sul creato altro, le «risorse».
L’immagine veterotestamentaria dell’umano come amministratore legittimo e illuminato del non-umano rappresenta un formante culturale fondamentale, nonché una delle fonti più importanti alla base del meccanismo di esclusione delle creature altre dalla tutela e dalla cittadinanza. Il meccanismo opera, semplificando ancora, secondo due logiche principali: quella della teriantropia – animalizzazione, riduzione del barbaro a mezz’umano – e, su un piano più profondo, quella della desoggettivazione – l’animale non è un soggetto, non percepisce e/o non ha coscienza e quindi non è un chi, è una cosa. Parallelamente, queste logiche hanno contribuito a un processo narrativo di antropogenesi, costruzione di un’idea di umanità dalla quale escludere alla bisogna tratti e creature.

Debole? il dominatore umano in Robert Lowell
Avanti veloce adesso, fino a un primo caso di riuso del versetto 1-26. Cosa succede al dominatore umano nel poemetto The Quaker Graveyard in Nantucket dell’americano Robert Lowell (1917-1977)? Consideriamo innanzitutto che la Natura non-umana, al di là dell’archetipo di docilità implicato dalla Genesi, ha un contro-archetipo altrettanto forte nel luogo orrido, caratterizzato dalla rappresentazione di una Natura contrapposta o ribelle. In alcuni casi, la potenza del non-umano si accresce fino a spezzare la gerarchia in cui era stata iscritta, diventando un’entità indifferente che trascende infinitamente l’umano e può schiacciarlo. Tuttavia, per quanto il rapporto di forze appaia mutato, l’eroe tragico umano e perdente non necessariamente abbandona i suoi desideri di sopraffazione che, anzi, possono risultare addirittura magnificati dal fatto che il non-umano non si sottometta e si trovi in una posizione di superiorità. Questo vale, ad esempio, per il poemetto in questione.
Non è un caso, credo, che Lowell abbia posto in epigrafe proprio il versetto 1-26. E non è un caso nemmeno che utilizzi Moby Dick come citazione e puntello paratestuale. La rappresentazione dei rapporti fra umano e non-umano è infatti al centro della relazione fra il Capitano Achab e la Balena bianca, che ingaggiano una lotta all’ultimo sangue in cui perderanno entrambi la vita. The Quaker Graveyard in Nantucket è composto di sette sezioni, e originariamente faceva parte della raccolta Lord Weary’s Castle (1946). Nell’opera, Lowell sovrappone le figure metaforico-allegoriche della “funzione Achab” alla vicenda della morte del cugino Warren Winslow, tenente del cacciatorpediniere americano USS Turner, morto per l’esplosione accidentale della nave stessa nel 1944. La sorte del cugino è poi trasformata in emblema metastorico della figura del marinaio, come si può osservare nell’ultima parte della terza sezione:
III.
[…]
Whatever it was these Quaker sailors lost
In the mad scramble of their lives. They died
When time was open-eyed,
Wooden and childish; only bones abide
There, in the nowhere, where their boats were tossed
Sky-high, where mariners had fabled news
Of IS, the whited monster. What it cost
Them is their secret. In the sperm-whale’s slick
I see the Quakers drown and hear their cry:
“If God himself had not been on our side,
If God himself had not been on our side,
When the Atlantic rose against us, why,
Then it had swallowed us up quick.”
III.
[…]
Qualunque cosa abbiano perso questi marinai quaccheri
Nella corsa folle delle loro vite. Morti
Quando il tempo teneva gli occhi aperti,
Legnoso e infantile; solo le ossa restano
Là, da nessuna parte, dove le loro navi furono scagliate
verso il cielo, dove i naviganti raccontavano leggende
Su IS, il mostro bianco. Quanto sia
Costato loro è il loro segreto. Nella chiazza di sperma di balena
Vedo i quaccheri affogare e sento il loro grido:
“Se Dio in persona non fosse stato con noi,
Se Dio in persona non fosse stato con noi,
Quando l’Atlantico ci si rivoltò contro, perché,
Ci avrebbe allora ingoiati [così] in fretta.”

Per quanto il non-umano colpisca i marinai e li affoghi, Dio in persona starebbe ancora dalla loro parte, pronto a concedergli una morte rapida. In «IS, il mostro bianco», probabilmente un riferimento ulteriore a Moby Dick, si cristallizza una forma estrema di Natura ostile, antonomasia dell’orda bellicosa dei nemici non-umani. Lowell tifa e parla ancora per noi, il suo posizionamento è rivelato sia dalla partecipazione tragica alla sorte dei tanti marinai evocati sia dall’ambiguità dell’epigrafe: se infatti il versetto 1-26 viene contraddetto dal ridimensionamento fattuale della debolezza umana, comunque può rimandare a una condizione ideale perduta/precaria o, e sarebbe lo stesso, un desiderio proiettato nel futuro, da realizzare attraverso la forza e la conoscenza.
Pochi decenni più tardi, la posizione della grande letteratura tragica e antropocentrica, di cui Lowell è uno degli esponenti novecenteschi, avrebbe iniziato a stridere con la crescente comprensione dell’umano come forza specista, climatologica e geologica. Se non il dominio, la pervasività tecnica dell’umano occidentale verso le creature altre ha imposto una riflessione intorno alle responsabilità, e alle colpe, nei confronti degli Altri. Curiosamente, anche quando si cerca di mettere in discussione le radici dell’antropocentrismo, il nostro posizionamento ci condanna spesso a un certo grado di ambiguità. Per spiegarmi meglio mi concedo un ultimo salto spazio-temporale fino a Genesis (1998-1999), opera d’arte transgenica di Eduardo Kac (1969-).

Genesis: consapevolezza senza cambiamento
Il funzionamento di Genesis, secondo caso di rifunzionalizzazione, è molto complesso. L’autore l’ha descritto nei dettagli in un articolo online, quindi ne illustrerò soltanto gli elementi fondamentali per questo discorso. L’autore è fra i fondatori dell’arte transgenica, e si è dedicato soprattutto all’utilizzo dell’ingegneria genetica per fini artistici, evidenziando il grado di mutabilità a cui si possono esporre l’immagine e la sostanza degli esseri viventi. Anche Kac è partito dal versetto 1-26, lo ha tradotto in un codice morse che ha ulteriormente tradotto in una stringa di DNA sintetico. Una volta creato, il DNA sintetico è stato aggiunto ad altre stringhe e usato per generare due colonie di batteri fluorescenti (gialli e ciano), lasciate libere di mischiarsi fra loro e riprodursi, dando vita ad altre varianti (batteri verdi, batteri non fluorescenti). Per la durata dell’esposizione, il pubblico in sala e da remoto aveva la possibilità di accelerare le interazioni fra i batteri accendendo e spegnendo una lampada UV posta di fronte alla coltura, essendo gli organismi sensibili a quel tipo di illuminazione. Alla fine dell’esibizione, la stringa alterata dalle mutazioni e dalle riproduzioni è stata recuperata dai batteri, trasferita di nuovo in codice morse e infine riportata in inglese. Questo il risultato (fonte):
«Let aan have dominion over the fish of the sea and over the fowlof the air and ober living thing the ioves au eon the earth»
Nonostante Kac abbia dichiarato che il suo intento era quello di mettere in discussione la lezione della Genesi da cui siamo partiti, la sua pratica artistica è collusa con le tecnologie legate al perfezionamento e all’estensione della vita che hanno generato i sogni di iperpotenza cyborg e transumana. In più, in Genesis il non-umano batterico è trattato come un mezzo, mai come un fine, critica che è stata rivolta a Kac anche in occasione di suoi interventi genetici su organismi più complessi. Genesis sembrerebbe dunque voler invitare all’acquisizione di un potere sempre maggiore sulla materia: il problema fondamentale resterebbe il «dominion», fatalmente escluso dal glitch delle ricombinazioni del gene d’artista in Genesis, così atavico e difficile da pensare, rischioso tanto per i non-umani quanto per gli umani ridotti in «aan».
Essere «aan»: una microguida
Il passaggio da «umani» ad «aani» avvenuto durante lo svolgimento di Genesis si può considerare a piacere un segno o una pura casualità, rispetto allo stato attuale dei concetti di umano e umanesimo in Occidente. Cedendo per gioco alla prima ipotesi, si potrebbe azzardare allora che si stia verificando una contrazione più mutazione di tali concetti. Per quanto riguarda la contrazione, prima di tutto si rivolge all’immaginazione ingenua, ed è determinata da un aumento vertiginoso di conoscenze specifiche e verificabili, con relativo appesantimento delle responsabilità della nostra specie. Per ogni processo individuato muore un pezzo di magia – e allora si parla di noto e ignoto, buoni o cattivi modelli, non di più. Contrazione del senso di appartenenza, anche: nei confronti degli altri umani come organismi biologici singolari, governati da un numero impensabile di variabili e formazioni d’identità – e nei propri confronti; non sovrapponibilità fra la persona e gli eventi che la determinano. Contrazione delle narrazioni al rialzo come di quelle al ribasso: quello che si è detto per il rapporto ai non-umani è paradigmatico – da una parte l’agibilità crescente sulla materia, la maggior disponibilità di vita da vivere, dall’altra l’incapacità di controllare l’effetto farfalla, così come l’accumulazione delle azioni individuali o la comparsa dei cataclismi. Contrazione del contesto tangibile, quindi, ed espansione vertiginosa della sua complessità misurabile: non poter dire fa lo stesso, non poter dire di sapere qualcosa davvero.

Riguardo invece alla mutazione, la faccenda è più complicata. Forse la sua forma più interessante è una ridefinizione delle facoltà umane sul piano della quantità, piuttosto che su quello della qualità. Se la diversificazione e lo studio della differenza nei soggetti, anche biologicamente parlando, ci rende sempre più difficile definire cosa sia propriamente umano, cosa sia naturale, condiviso – allo stesso tempo iniziamo a comprendere che ci sono forme di organizzazione intersoggettiva che non hanno bisogno del concetto di intelligenza, come nel caso della vocalizzazione animale coordinata nella foresta amazzonica, studiata da David Monacchi e presentata nel documentario Dusk Chorus. Per non parlare della presenza di soggettività e linguaggio almeno nei mammiferi complessi. Insomma: molte delle facoltà che rendevano «human» l’umano, separato dal resto, hanno perso la loro patente di esclusività. L’«aan» non è Creatura fra le creature, ma semplice apparato con una serie di facoltà, funzioni e possessi, il cui desiderio si attacca all’immaginazione di maggiori facoltà, funzioni e possessi. Le teleologie del passare da una qualità ad un’altra – diventando santi, etici, adulti, migliori – sono oggi le teleologie del potenziamento cyborg, del «dominion». Intorno a questo «dominion» si condensano infatti le nostre ansie: determinare tutto di noi, allontanarci dai bisogni primari, acquistare potere simbolico e non, saper fare. E, come nella serie animata Cyberpunk Edgerunners, ad ogni ansia corrisponde una fatica: sapere che un potenziamento non può avvenire se non tramite un costo, temere di restare indietro, essere stanchi di performare tutto, non conoscere più il riposo, l’ingenuità o il miracolo. Che cos’è il miracolo se non l’incontro armonioso fra più ingenuità? Ad ogni modo le ingenuità non sono recuperabili, e nonostante la consapevolezza non riusciamo a frenare, abbandonarci; sembreremmo credere, a livello collettivo, in una vita determinata interamente.