«L’arte di punta ha smesso di operare mediante schieramenti e fronti contrapposti, ha superato le vecchie contrapposizioni […]. Ormai sono vietati gli assembramenti, si lavora a gruppi di uno, attraverso una disseminazione di iniziative e di gallerie affollate come rifugi antiaerei». È Achille Bonito Oliva a parlare: segnalando sulle pagine romane del «Corriere della Sera», il 16 marzo 1978, la nuova mostra di Mario Merz aperta il giorno prima alla Galleria dell’Oca, diretta da Luisa Laureati Briganti in collaborazione con due altri giovani ma già celebri galleristi, Luciano Pistoi e Gian Enzo Sperone. In parallelo, nella sede romana di Sperone, vengono presentate altre opere di Merz: come a sottolineare, con la diversa selezione, una specificità della mostra di Via dell’Oca. E infatti questo allestimento – non manca di segnalarlo malizioso, A.B.O., riportando le voci fra gli altri di Goffredo Parise e Jean-Christophe Ammann in una “ribattuta”, sulle stesse pagine, qualche giorno dopo – solleva «salutari discussioni tra gli artisti, critici e pubblico» (il titolista del «Corriere» parla addirittura di «scandalo»).
Non è un caso che proprio questa mostra abbia scelto Daniela Lancioni, instancabile anima filologica del Palazzo delle Esposizioni, quale seconda tappa di un progetto a lungo termine, e dalle niente affatto celate ambizioni metodologiche: l’esordio di Mostre in mostra, col sottotitolo «Roma contemporanea dagli anni Cinquanta al Duemila», risale all’estate del ’19 ma prendeva le mosse dalla seminale Anni ’70. Arte a Roma, che alla fine del 2013 già Lancioni aveva ambientato nei locali a loro volta storici, tante volte in passato strategicamente ristrutturati, del buon vecchio Palazzo umbertino di Via Nazionale. Se in quell’occasione le mostre ri-mostrate erano episodi celebri e celebrati della storia espositiva del nostro paese (dalle due storiche proprio di A.B.O., Contemporanea e Vitalità del negativo, a Ghenos Eros Thanatos di Alberto Boatto), già nella prima serie contrassegnata da promettente numero d’ordine, quella del ’19, si andava a scavare nelle pieghe di questa stessa storia: dalla prima personale di Giulio Paolini, alla Salita di Gian Tomaso Liverani nel ’64, a quella di Luciano Fabro agli Incontri internazionali d’arte di Graziella Lonardi Buontempo, nel ’71. Ma ormai anche il re-enactement espositivo ha una sua storia: sempre nel ’19 a Baden-Baden s’è tenuta Exhibiting the Exhibition, cioè una meta-meta-mostra; e quell’anno un convegno, alla Biblioteca Hertziana, s’interrogava su problematiche e opportunità di questo atteggiamento. Evidente, in generale, la sua matrice postmodernista, se è vero che già nell’81 al Beaubourg venne riproposta la grande mostra surrealista del ’38; ma un turning point si colloca appunto nel 2013: quando a Venezia Germano Celant ricostruiva nel dettaglio When Attitudes Become Form, messa in scena da Harald Szeemann a Berna nel ’69; mentre alla Biennale Massimiliano Gioni di Szeemann mutuava più in generale l’impostazione outsider.
Diversissime fra loro, peraltro, le attitudes con le quali è possibile interpretare questo spirito del nostro tempo: il filologismo celantiano può ricordare le edizioni restaurate dei classici del cinema, come quelle sempre preziose della Cineteca di Bologna, mentre l’atteggiamento en artiste di Gioni è più simile a remakes spericolati à la Claude Chabrol o Brian De Palma. Il temperamento di Lancioni è, dicevo, inappuntabilmente filologico (in catalogo le fotografie prese all’inaugurazione di Via dell’Oca vengono scrutate con la lente d’ingrandimento, come farebbe un detective sulla scena del delitto, per identificare con assoluta precisione le opere allora esposte; e utilissima vi è compresa, a cura di Giulia Lotti, una cronologia-regesto dell’attività dell’Oca dal ’65 al 2008) con un di più di vigoroso, febbrile empirismo. Ma stavolta con un decisivo giro di vite concettuale: perché nel vasto pelago del repertorio espositivo della Capitale (ora consultabile in un apposito data-base sul sito del Palazzo, realizzato in collaborazione con la Quadriennale) Lancioni ha individuato – posso immaginare con un accenno di sorriso di trionfo dei suoi – una specie di archè che è insieme una mise en abîme: se la mostra di Merz faceva tanto discutere, nel ’78, è perché i suoi soli quattro lavori esposti coesistevano con undici opere storiche che componevano una «scintillante pleiade della pittura italiana alla prima metà del secolo», come scrisse Enzo Siciliano: de Chirico (giunti sino all’appuntamento a Palazzo sono due Cavalli che s’impennano dagli insoliti, per quel repertorio, colori scuri e quasi minacciosi), Savinio (un’imponente e a sua volta minacciosa Sodome del ’29, dove il solito trofeo di giocattoli sovrasta la biblica città in fiamme), Carrà (un’archetipica marina del ’23, ghiacciata d’azzurri e verdi), de Pisis (una Natura morta del ’32 di sconfinata desolazione), Morandi (bottiglie del ’46 anche più spettrali del consueto) e, a parziale eccezione a questo clima decisamente invernale, dagli ultimi fuochi del ’18 uno studio cubisteggiante di Gino Severini e i verdi più avvolgenti delle Morbidezze di primavera di Giacomo Balla.

L’antipatizzante Siciliano ne deduceva che l’«artigianato quaresimale» di Merz, «profeta nostrano dell’arte povera», venisse reso «balbettante» dalla prepotenza delle all stars concentrate dai tre proverbialmente abili galleristi, per l’occasione coalizzati; mentre il simpatizzante Bonito Oliva vedeva nell’iniziativa lo «sforzo d’individuare la grande continuità dell’arte italiana» (l’anno dopo infatti l’«autocritico automobile» – quale si professava nel titolo ineffabile d’un libro di quegli anni – scavalcherà tutti, non so dire se a sinistra o a destra, col lancio della Transavanguardia). Ma non era, come scrissero altri commentatori, la volontà di ricollegare la nuova avanguardia poverista alle prime avanguardie (come – ricostruisce bene in catalogo Paola Bonani – aveva provveduto a ricostruire la nostra critica migliore tra fine Sessanta e primi Settanta). Bensì, quasi al contrario, quella di trovare in pieno Novecento “eroico” quello stesso «ritorno al museo» (come fra i primi Renato Barilli, allora, indicava proprio in de Chirico il caposcuola: citato infatti nell’impiantito “teatrale” alla base dell’igloo allestito da Merz nel ’78, il Pictor Optimus sarà il primo degli «antenati» esposti da Szeemann alla Biennale dell’80), quei brividi gelati di nuova classicità nei quali cercava rifugio, dopo i fuochi di guerriglia del decennio precedente, l’arte di allora.

Aveva un bel dire allora, Merz, che i suoi iconici Igloo non avessero connotazioni politiche (a dispetto delle citazioni dal comandante Giap che all’inizio li ornavano…): un titolo come Vento preistorico dalle montagne gelate – la più forte delle sue opere in mostra all’Oca e ora a Palazzo, del ’76 – opponeva una barriera di fascine a un quadro dipinto a onde di colori a loro volta freddi e impietosi; e (come rivela Francesco Guzzetti in catalogo) veniva da un angoscioso racconto di Kafka, Il cavaliere del secchio. Da quelle montagne monitorie all’orizzonte spirava un’aria di tempesta dalla quale i cavalieri coraggiosi dell’avanguardia dovevano trovare ricetto: nel rifugio antiaereo della tradizione, evocato da Bonito Oliva, che l’igloo di Merz così ben rappresenta. E magari l’insolito assemblaggio associato al suo nome, in quell’occasione, avrà strizzato l’occhio a quelli di un altro grande delle avanguardie, i Merz di Kurt Schwitters (come quello, finito distrutto al pari degli altri, che il dadaista in fuga dal nazismo si costruì fra i ghiacci nella Norvegia).

Ma da dove veniva, al tramontare dei Settanta, quel vento di tormenta? Ricorda Lancioni che nel ’77 in Via Cavour venne aperta una galleria, La Stanza, con l’esplicito intento di trovare rifugio dai cortei più violenti di quella stagione (lo stesso avveniva in poesia nelle stesse settimane coi reading del Poeta postumo, ideati da Franco Cordelli al Beat 72). E in effetti certe volte gli appuntamenti della storia sanno essere di una precisione inquietante: giusto la mattina dopo l’apertura della mostra in Via dell’Oca, in Via Fani, il vento del tempo si faceva, per tutti, di un gelo intollerabile.

Mario Merz. Balla, Carrà, De Chirico, De Pisis, Morandi, Savinio, Severini. Roma 1978. Mostre in mostra
a cura di Daniela Lancioni
Roma, Palazzo delle Esposizioni
fino al 26 febbraio 2023
Una versione più breve di questo articolo è uscita sul «Giornale dell’Arte» di febbraio
In copertina: Luisa Laureati Briganti all’inaugurazione di Mario Merz. Balla, Carrà, de Chirico, de Pisis, Morandi, Savinio, Severini, Roma, Galleria dell’Oca, 15 marzo 1978