“Non voglio avere idee” scriveva Ketty La Rocca nel 1973 (sarebbe morta pochi anni dopo, nel 1976). Perché una giovane artista dovrebbe non volere idee? Che cosa c’è che non va nelle idee? Per formulare un’idea, anche un’idea che prenda la forma di una immagine, servono le parole di una lingua. E una lingua, è questa la ragione per cui Ketty La Rocca diffida delle idee, è portatrice di pensieri e immagini che ‘pensano’ per noi, al nostro posto. Se allora un’artista vuole trovare una strada diversa da quella impersonale dettata dal linguaggio, deve per forza liberarsi delle idee che quello stesso linguaggio le mette in bocca e nei pensieri. Appunto perché la lingua non è mai soltanto un mezzo di espressione, la lingua pensa e immagina, suggerisce e consiglia. E pensa e immagina in modo tanto più invasivo quanto meno ci accorgiamo della sua influenza. Il ‘dispositivo’ generatore dell’operazione artistica di Ketty La Rocca consiste allora nel sentimento di un contrasto insanabile fra il linguaggio da un lato, e il corpo dall’altro. Il tema del corpo, e del corpo di donna in particolare, è la questione di un principio concreto e situato del tutto irriducibile rispetto al principio opposto del linguaggio, che invece è astrazione e distanza dall’esperienza concreta. Basti pensare al meccanismo fondamentale del segno linguistico, una presenza sonora che si riferisce ad un’entità assente: il linguaggio è trascendenza. Al contrario il corpo è sempre e soltanto presenza. Bisogna allora ripartire dal corpo, perché solo attraverso la riconquista del corpo sarà possibile arrivare ad un’espressione che sia altrettanto concreta e immanente. Si tratta quindi, per l’artista Ketty La Rocca, di costruire una propria singolarissima voce, ossia un mezzo espressivo che sia solo suo, e che quindi non si limiti a ‘dire’ (cioè a ripetere) quello che il linguaggio si dice attraverso di noi: “la parola”, scrive in una lettera del 1974, “stringe come in una morsa, l’uomo più che parlare ‘è parlato’, ha perso la dimensione della sua espressività fisica e con questa il valore del gesto” (p. 107).
Come mette in luce Raffaella Perna nella sua illuminante presentazione del volume Ketty La Rocca. Se io fotovivo. Opere/Works 1967-1975 (Silvana Editoriale, 2022), il riferimento esplicito è a Jacques Lacan che, nel Seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), parla infatti del “soggetto supposto parlante”, supposto appunto perché non è il soggetto che parla, è la lingua che lo parla. Il soggetto è parlato, cioè pensato e immaginato dal linguaggio. Artista è chi si oppone a questa situazione, e sente il bisogno di trovare un modo per costruirsi una voce che non sia la voce dell’Altro, quanto appunto la propria indicibile voce. Non è un caso che sia una donna a scoprire questa situazione, perché se c’è un corpo da sempre parlato e detto è proprio il corpo femminile, oggetto del discorso maschile, oggetto descritto e sognato. Per questa ragione, scrive Ketty La Rocca, “non è tempo per le donne di dichiarazioni, hanno troppo da fare e poi dovrebbero usare un linguaggio che non è il loro, dentro un linguaggio che è loro estraneo quanto ostile” (p. 25).

Ecco perché la peculiare voce che Ketty La Rocca proverà a costruire per sé sarà in primo luogo una voce fatta di fotografie più che di parole. Neanche le immagini, tuttavia, sfuggono alla presa del linguaggio, occorre allora costruirne di nuove che combattano al proprio interno le parole e i pensieri già pensati e già detti che si traducono in immagini altrettanto innocue e superflue. Il caso delle fotografie è particolarmente interessante, perché secondo un persistente pregiudizio non cadrebbero sotto l’influenza del linguaggio, e quindi dell’inevitabile conformismo delle parole:
Come strappare l’immagine di Che Guevara a questo processo? Forse l’unico metodo è tentare di demistificare l’immagine così ridotta magari attraverso una serie di deformazioni serigrafiche dell’immagine cristallizzata e museificata e il cui senso potrebbe essere: rifiutiamo un’ennesima violenza fatta sulla storia, rifiutiamo un procedimento riduttivo di questo volto, simbolo di una problematica non risolta, rifiutiamo che voi, ancora una volta, scriviate la storia e pertanto vi rispediamo il prodotto confezionato che ci avete proposto generato dalla vostra visione del mondo che vorreste farci accettare (p. 102).
Quello che serve, prosegue Ketty La Rocca, è “forse un nuovo linguaggio”, un linguaggio, soprattutto, che si renda visibile. In effetti il problema principale del nostro rapporto con il linguaggio è che non ci accorgiamo della sua presenza, lo consideriamo come qualcosa di trasparente, come se non fosse altro che uno strumento a nostra disposizione. Per questa ragione le immagini su cui lavora Ketty La Rocca hanno un doppio, e paradossale, carattere. Devono essere allo stesso tempo “artificiali”, dal momento che sono immagini ottenute attraverso un procedimento tecnico, ma anche “autentiche” perché non nascondono la propria natura artificiale: “che cosa è artificiale e che cosa naturale è un problema che ha creato molte discussioni e, a mio parere, l’artificio è sempre natura se viene vissuto mediante atti di conoscenza e di volontà, quindi di coscienza, cioè l’artificio diviene autentico […]. È ciò che si presenta falsamente naturale che è falso” (p. 104). Se si pensa a come il corpo femminile sia sempre stato raccontato come corpo affatto naturale si comprende l’insistenza dell’artista per liberarsi da una rappresentazione che, in realtà, è solo “falsamente naturale”. Il lavoro sul linguaggio e le immagini serve allora a Ketty La Rocca per attraversare gli schemi espressivi tradizionali e inevitabilmente conformisti.

In questo senso sono particolarmente interessanti i lavori – appartenenti alla serie “Craniologie” – in cui Ketty La Rocca mette in atto una “interferenza” fra due immagini sovrapposte inscritte in una sorta di cornice scritturale, che consiste in nient’altro che nella ossessiva ripetizione del pronome “you”. Come a dire, ogni volta che si parla o si osserva una immagine non dimenticare mai che è sempre di te che si sta parlando. Ketty La Rocca vuole tirare lo spettatore dentro l’immagine, ma non per incantarlo, al contrario, perché si accorga del doppio carattere artificiale/autentico di quella stessa immagine:
Questi crani vivono in maniera autentica e insostituibile attraverso la fotografia e ad essa delegano totalmente il loro potenziale espressivo persino la descrizione di sé stessi attraverso la minima misura di informazione ‘you’. La fotografia usata per sé stessa dato che al di fuori della rappresentazione non esiste precostituita una realtà parallela. Io credo che, paradossalmente, il cranio sia il volto attuale dell’uomo moderno, il suo autentico ritratto. Il cranio assimila l’uomo all’uomo, il cranio non è pantomima, il cranio non ha sesso. La dimensione mistificante del linguaggio ha reso così il volto dell’uomo, l’ha corroso, è per questo che io sovrappongo il gesto della mano in tutta la sua espressività e semplicità comunicativa dentro il cranio laddove il cervello ha partorito la globalità del pensiero umano e del linguaggio umano. Il gesto contrapposto alla parola, il gesto come linguaggio universale e riduco il linguaggio scritto a un semplice ‘bit’ di informazione. […] I miei crani si propongono come specchio per chi li guarda e sono già descritti per rendere chiara come la mente umana ha subito una specie di espropriazione dovuta alla parola e come ne subisce il potere incontrollato (p. 107).
Da un lato l’impersonale astrattezza della parola dall’altro l’assoluta concretezza gesto che si staglia in primo piano sullo sfondo del cranio che “non ha sesso”, perché anche il sesso è un costrutto linguistico artificiale. E poi quello “you” – senza mai dimenticare che “you significa anche io” (p. 22) – che è allo stesso tempo uno svuotamento ecolalico del linguaggio ma anche un’esortazione alla partecipazione e al coinvolgimento. Nell’insieme un’immagine che evoca un fungo atomico, ché in effetti il corpo è sempre potenzialmente esplosivo. Questi tre assi definiscono le coordinate dei lavori che si possono vedere nel volume Se io fotovivo. Opere/Works 1967-1975: il linguaggio, il gesto corporeo, e la rielaborazione di questo contrasto attraverso la costruzione di immagini allo stesso tempo artificiali ma proprio per questo autentiche.
Ma perché il punto di partenza è proprio il linguaggio? Perché è negli anni ’60 del Novecento che diventa evidente l’assoluta centralità della comunicazione e delle immagini nella società occidentale. La formula metafisica che coglie questa posizione è quella resa celebre da Marshall McLuhan, “il medium è il messaggio”, una formula che rovescia una volta per sempre i rapporti fra il soggetto che comunica e il mezzo della comunicazione (si comunica per comunicare, si parla per parlare, si posta per poter fare un altro post). Si scopre infine che la comunicazione sfugge completamente alla presa dal soggetto, e che è piuttosto il medium – cioè il linguaggio, le immagini, oggi i social media – che comunica sé stesso attraverso i suoi “supposti” utilizzatori. L’alternativa è fra lasciarsi parlare dal linguaggio oppure, ed è la scelta di Ketty La Rocca, cercare quello che come abbiamo visto chiamava “forse un nuovo linguaggio”. Un “nuovo” linguaggio che non potrà che partire da quello già esistente, naturalmente, per poi trovare una propria impensabile via espressiva:
le immagini sono ricordi, i ricordi si accavallano, i ricordi inediti non esistono. I cinquanta milioni di immagini di un film ci hanno già espropriato completamente. E io che posso fare, lasciarmi coinvolgere, fabbricarne di più belle o di più interessanti o con maggiori giustificazioni o con insoliti mezzi tecnici, è assurdo, una follia inutile, una paranoia universale. […] Io prendo delle immagini già viste da tanta gente e per tanto tempo, rese insulse da descrizioni assembleari e le rivivo con tutti gli stereotipi di conoscenze che mi sono stati appiccicati finché, per me, diventano un’altra cosa. […] Una salutare rigenerazione che ogni immagine rivive facendo riaffiorare una specie di proprio inconscio e riabilitando in senso autentico perché individuale la traccia che può lasciare di sé (pp. 112-113).

Ketty La Rocca. Se io fotovivo. Opere/Works 1967-1975
a cura di Raffaella Perna e Monica Poggi
Silvana Editoriale, 2022
pp. 128, € 28
Immagini: Courtesy Archivio Ketty La Rocca, Firenze