Dirty woman and criminal baby. Marlene Dumas

06/02/2023

Vito Teti, alcuni anni fa, ha ideato una collana, presso l’editore Rubbettino, dal titolo “che ci faccio qui”. Il qui a cui fa riferimento resta indefinito. Per tanti versi, viene da pensare che si alluda alla terra di Teti, che è poi anche quella dell’editore, la Calabria. Questa ipotesi sembrerebbe essere avvalorata da uno degli ultimi titoli che vi sono apparsi: La mano bruciata di Jonny Costantino, a sua volta calabrese, profondamente legato alla sua terra, sulla quale ha realizzato un cortometraggio esemplare (“Le Corbusier in Calabria”, 2009). Eppure, sfogliando il libro di Costantino si è più propensi a rileggere quell’avverbio come il più ampio possibile, come esteso oltre uno spazio specifico e, se possibile, anche oltre un’epoca determinata. Costantino intesse, infatti, la trama di una scena dell’anima, di un’anima carnale, i cui attori sono scrittori e pittori provenienti dai più svariati luoghi e tempi. Tutti, però, sono egualmente vivi nella sua scrittura. A tutti, in qualche modo, dà del tu, in nome di un’elezione e di una comunione in cui lo spazio dell’opera, continuamente, sconfina in quello della vita, in quell’unico flusso che Costantino chiama vitarte . Il qui diventa, in questo modo, quasi lo spazio di un’utopia, di una terra dei figli (in cui la nozione di padre diventa obsoleta, se non retrograda), una Kinder Land, ancora mai davvero scoperta, e di nietzscheana memoria. Si tratta, come ha recentemente notato Antonio Moresco, di una costellazione che Costantino indica per far segno verso una pratica del gesto artistico, nel suo più ampio significato. È una pratica – quella del pensiero, della scrittura, delle arti tutte – che si fa insieme, in una sorta di comunione senza chiese possibili, in una serie ininterrotta di riprese e di rimandi all’interno della comunità di coloro che non hanno comunità. Di volta in volta, l’autore intraprende, così, un dialogo o, meglio, un corpo a corpo, spesso serrato, a volte sofferto, con Lispector, Bernhard, Kristof, Ceronetti, Bolaño, Moresco, Ivano Ferrari, Brancale, Flaubert, Bachmann, Samorì, Mattotti, de Marco e, infine, Marlene Dumas (di quest’ultimo qui proponiamo uno stralcio).

Costantino ha il pregio di riportare la scrittura e l’arte alla loro dimensione primaria, alla fonte di quel coacervo di passioni, spesso torbide, da cui prende forma, attraverso il lavoro sulla lingua, uno stile, una figura. Gli esiti sono, assai sovente, distanti dalla postura di chi qui lo presenta. Distante è la fascinazione di Costantino per l’eccesso, anche linguistico, per un “parlato” céliniano, per una visceralità fin troppo esposta. Ma questa distanza non impedisce una prossimità che si esprime come una marcata allergia all’asfittico conformismo accademico di buona parte della saggistica odierna, nella quale, alla fine, si percepisce solo esibizione sterile e solipsistica di erudizione. In fondo, l'”io” di Costantino, il suo indirizzarsi in prima persona, la sua scurrilità adolescenziale, il suo richiamo all’impossibilità di occludere i vasi comunicanti tra vita e arte, la sua parola portatrice anche di dolcezza disarmata, dicono molto più dell’altro di quanto il presunto soggetto universale del sapere, che guiderebbe il discorso critico corrente, vorrebbe farci credere abolendo l'”Io”. Costantino rifiuta un sapere mondato dall’inestricabile rapporto vita/arte, io/noi, biografia/storia; detto altrimenti, rifiuta un sapere scollato dal tutto. Costantino chiede tutto, vuole tutto, dall’arte e dalla vita; non lo nasconde e non si nasconde. Si mostra, con onestà e senza finzioni, esponendosi al proprio limite. A me, pare già molto. Per questo, dall’altra sponda del tempo, ma proprio qui, in questo preciso momento e in questa terra di figli, credo possa valere la pena ascoltarlo con attenzione.

Federico Ferrari

Lucori tenebrosi 

Marlene Dumas restituisce alla figura una freschezza smarrita dall’arte contemporanea. Ha visto tutto quello che c’era da vedere, non smette di assimilare la lezione di chiunque abbia qualcosa da insegnarle, eppure dipinge con la scioltezza del primo pittore. No, non il primo pittore apparso sulla Terra. Non colui che ritrae sulle pareti della caverna le belve pronte a sbranarlo, che è costretto a uccidere per sopravvivere, che graffia la roccia per studiarsi la silhouette del nemico, per assorbirne magicamente la forza, per esorcizzare la paura, per prepararsi alla lotta. La lezione che Marlene fa sua è quella del primo pittore consapevole del proprio gesto creativo, quel tenace che non ha perso, dell’avo paleolitico, il senso del pericolo e del combattimento, il tremore e il desiderio, il coraggio e la crudeltà, la commozione e lo stupore: la fame. 

I corpi di Marlene Dumas affiorano da un’oscurità dalla quale non si emancipano, al pari dei Prigioni di Michelangelo che non si distaccano dalla pietra di cui sono fatti. Nei dipinti dumasiani il lato luminoso non è una forza che si oppone al lato oscuro: la luce è nelle tenebre. La luce è una vena che scorre tra figura e sfondo. Incisa zampilla in superficie. La luce è una ferita nel corpo della notte. 

I corpi di Marlene sono lucciole inchiodate a Madre Notte, la notte della materia e dell’anima. Il loro retro è molle: mentre le scrutiamo, la parte che non vediamo si decompone nella tenebra. La loro opalescenza è tale che l’oscurità retrostante, per contrasto, appare più scura di quel che è. Temo però che la lucciola non sia l’animale giusto per il paragone. Forse i corpi di Marlene sono zecche: zecche temerarie che succhiano il sangue del buio, zecche il cui turgore non subisce attenuazioni d’intensità luminosa, a differenza delle lucciole il cui brillio è intermittente. No, non ci siamo, non sono ancora soddisfatto: più che zecche – le quali hanno pur sempre una vita propria per quanto parassitaria – i corpi di Marlene sono croste, escrescenze dirette dell’oscurità, indurimenti epiteliali di una ferita cronica: a staccarle sarebbe tutta un’iridescenza filamentosa. 

Lucciole zecche croste, comunque la si metta: luce. La luce in pittura è questione di colore. Luce temperatura calore: colore. Il colore, nei quadri di Marlene, irradia e cola. Irradia perché non può farne a meno: l’elemento della pittrice è il fuoco. Cola perché la vita è fluida, perché il desiderio è umido. Marlene predilige, insieme alla pittura a olio, l’acquerello: l’acquerello asseconda il movimento liquido del desiderio, laddove l’olio obbedisce a una volontà di maggiore controllo nel verso del progetto iniziale. Se l’olio, corposo e malleabile com’è, consente più polso demiurgico nella ricreazione del mondo fenomenico, l’acqua liquefà l’intenzione nell’emozione. 

I colori di Marlene Dumas sono le bave che la luce secerne emergendo dalla tenebra, bave che si raddensano in forma di corpi. A pensarci bene, la pittrice non fa che alzare il livello di evidenza di qualcosa che è valido in generale: il colore è la bava della luce. 

Marlene Dumas è una manovale della luce che fa la pendolare tra il buio fuori e il buio dentro. I suoi artefatti sono impasti ubicati in una promiscua zona di confine dove si sono date appuntamento particelle di luce e particelle di tenebra. Sì, impasti: la notte ha versato le sue lacrime nella calce viva del giorno. 

Marlene Dumas, Feathered Stola, 2000

Pelli profonde 

Fidiamoci, ma non troppo, della pelle. 

È per sua natura una birichina, una voltagabbana, in balia com’è delle sbandate del desiderio. Spesso e volentieri c’inganna. La pelle inganna anzitutto quando, lei per prima, è presa in contropiede dal desiderio che la guida. Alle volte la pelle assomiglia a quella fanciulla condotta a una festa dove, sparito il suo volubile accompagnatore, deve restare controvoglia e allora resta facendo finta di divertirsi, simulando una partecipazione che non c’è, illudendo con una moina di troppo qualche malcapitato sognatore che in men che non si dica si ritrova irretito. Quali e quanti danni può fare la pelle. Occhio dunque: l’occhio che non rispetta la distanza di sicurezza, che fa incauta pressione sulla pelle, cade in trappola, come un predatore che metta la zampa sopra una buca coperta di foglie. Mai pendere dalle labbra della pelle! 

Fidiamoci, ma non troppo, della pittura. 

La pittura è pelle: la pelle dell’immagine. Dell’immagine la pittura non è soltanto la pelle ma è in primo luogo la pelle, non scordiamolo. Come l’epidermide, la pittura si screpola e si rigenera, si trucca e si strucca, presenta punti neri e inestetismi, richiede interventi di mantenimento e recupero, si scotta e ci scotta. C’è pittura viva e c’è pittura morta: come la pelle. La pittura è una pelle che presenta diversi spessori e gradi di trasparenza. Tanto più è sottile, quanto più ci lascia intravedere i nervi della figura e con essi le venature dell’anima dell’artista. Tanto più è traslucida, quanto più si espone e ci espone al mistero di birifrangenze che rimbalzano tra materia e spirito. Occhio alla pittura: persino quando si sbottona, quando qualcosa rivela, non possiamo mai dire quel che non svela. Teniamo le antenne alzate soprattutto con la buona pittura: essa sa mantenere il segreto e quanto sacro è secretato nei suoi secreti! 

La pittura è la pelle della luce. 

La pelle in Dumas è intimità ed esteriorità al contempo. È sia un séparé sia un lenzuolo: da una parte il fisico, dall’altra il metafisico. Il séparé è scostato: separa e non separa. Zuppo di umori notturni, il lenzuolo è strappato: copre e scopre. Traversando la pelle, intridendola, il fisico e il metafisico celebrano le loro fusioni, ora rapinose, ora sontuose. La pelle assorbe e custodisce e, non meno di un prisma, rifrange. «La carne è la pelle dell’ignoto», scrive Victor Hugo nell’Uomo che ride (1869). Potremmo variare così pensando a Marlene, alla pittura visceralmente cutanea di Marlene: la pelle è la carne dell’ignoto. 

La pelle delle creature di Marlene è il pelo di un’acqua resa torbida da guizzanti profondità carnali. È amnio increspato da lotte intestine tra entità che, se fossimo in Cielo, chiameremmo angeli e diavoli. Siamo però sulla Terra – ci stiamo quali organici ossimori lussati da spinte antagoniste – e conosciamo la lingua che parlano queste diafane pelli chiazzate d’ombra. Sappiamo fin troppo bene di cosa va almanaccando questa pittura per pelli graffiate da mille unghie, per carni manomesse, per cervelli sverginati, per sangui adoratori. Intuiamo le latitudini del vissuto emotivo che origina questa pittura per corpi che non dimenticano di essere corpi: grovigli antropomorfi di vitalità e mercificazione, violenza e fascinazione, abbandono e adescamento, ironia e dramma. 

Marlene Dumas, Mamma Roma, 2012

Marlene’s Angels 

La pittura di Marlene Dumas non tollera distrazioni dal corpo: è pittura di pelle nutrita di corpi corpi corpi e ancora corpi. 

Corpi di santa e puttana: le sante puttane di Caravaggio e le puttane sante di Lautrec, beatificate dalla strada e dal bordello. Corpi di morti: il Cristo di Holbein e il torero di Manet, stesi da una morte violenta, quasi dormienti. Parti di corpo: i testicoli pesanti di Dürer che si autoritrae nudo e la vulva immortalata in primo piano da Courbet. Corpi impossibili: la seminuda impellicciata di Rubens e Le Parche di Goya, così schiacciate ma dense nella loro cupa fluttuazione, forze nerissime che al Prado sconvolgono il cuore di Marlene, arrivando fin dove non riesce il sommo Velázquez: alle lacrime. Per non parlare dei corpi crocifissi e macellati di Bacon. Tutti corpi con o senza organi i cui spasimi e spasmi e sbuffi e sbaffi – ante post ultra mortem – si sono cristallizzati in complessioni aliene, in posture sovrumane. Corpi che fanno strada alla pittrice in un luogo dove persino il dolore è fulgore. 

Terribile è la beltà dei lavori in pelle umana di Marlene Dumas. Sublimi oggetti e soggetti del desiderio, questi corpi cavernosi e stellari ci rivolgono avance tra l’allusione e l’osceno, tra il gioco erotico e l’evidenza pornografica, sotto le pressioni di un’impellenza scopica che privilegia il vedo al non vedo. 

Ho trascorso ore e ore in compagnia delle donne di Marlene Dumas e ho imparato a conoscerle. Vi riferirò due o tre cose che so di loro. Comincio dicendo che esse posseggono tali riserve di spirito che devono prendersi cura innanzitutto di quel che hanno di più deteriorabile: il corpo. Devono perché la manutenzione dello spirito passa attraverso il corpo e perché il corpo è il loro strumento di lavoro. Il loro lavoro è sedurti, per prima cosa sedurti. La loro seduzione non è aggressiva: è una seduzione passiva, con una spiccata attitudine contemplativa. Queste monelle non si contorcono come menadi per farti ingrifare, non è nel loro stile. Né fanno le gatte morte, non vogliono fregarti con quello che per certi occhi è come la carta moschicida per gli insetti: il languore. Costoro non si limitano a ricambiare il tuo sguardo. Placide ti studiano come fossi tu a doverle convincere. Ti scrutano per capire – e per mettere te in condizione di capire – quanta voglia hai di flirtare con loro a dispetto della solitudine, della discriminazione, del pregiudizio, della sopraffazione, della malattia, dell’alienazione, dell’umiliazione, della morte di cui portano sulla pelle – lampanti – i segni. 

Avrai già capito che sto parlando di ragazze sveglie e non di belle addormentate. Queste ragazze di vita hanno imparato in fretta le regole della recita mondana di cui sono figuranti. Sanno che la vita è una sfrecciata il cui arco si spezza come un grissino. Non vogliono angosciarti ricordandoti la tua caducità: ne hanno già abbastanza della propria di effimerità. Tempus fugit e ognuna di loro è già allo step successivo, ch’è un ménage à trois: tu, lei e il Caos di cui lei è custode, transitoria come una placenta, permanente come l’opera d’arte che è.

Marlene Dumas, Miss January, 1997

La loro seduzione è una provocazione. Le prostitute e le modelle di Marlene sono pronipoti in linea retta dell’Olympia (1863) di Manet e ci accalappiano con la stessa sovrana irriverenza. Mi viene in mente una modella in particolare, Miss January (1997). La miss è nuda dai fianchi in giù, ma a fare la differenza non è la fica in bella vista bensì il calzino fucsia al piede sinistro. Non si tratta di un dettaglio come un altro. Al pari del nastro nero al collo di Olympia, quel calzino è sia un fazzoletto lasciato cadere con simulata distrazione sia un guanto di sfida: se il nastro di Olympia era la sfida della modernità, il calzino di Miss Gennaio è la sfida della contemporaneità. Sta a noi raccogliere oppure guardare e passare. 

Queste belle di giorno e di notte hanno accettato lo sfacelo: il proprio sfacelo e lo sfacelo del mondo. Ragion per cui, anche quando soffrono, s’offrono senza patetismi, fiere nel fiore del disincanto, vanitose ventose del disastro. Anche quando appaiono frivole, non c’è dubbio che la loro sia quella che Marcel Proust chiama «la frivolezza dei morenti». Anche quando fanno le sciocchine con Eros, sanno che quello che hanno al collo non è un nastro né un collier, è un guinzaglio: il guinzaglio lungo di Thanatos, freddo protettore che si gusta lo spettacolo dietro le quinte della notte. 

Il sentimento che orienta queste ferite a vita non è propriamente tragico, lo direi semmai post-tragico e lo definirei fatalismo erotico. È un bottino prezioso, il fatalismo erotico, uno dei più preziosi in possesso di chi sia sopravvissuto alla tragedia o, meno diffusamente, di chi la tragedia l’abbia compresa vivendola e ne sia uscito fuori più vivo di prima. Vedo queste fascinose come delle Kafka da marciapiede che hanno interiorizzato fino al clitoride questo pensiero del Praghese: «Quando si capisce pienamente la vita, non si è angosciati dal fatto di dover morire». Le vedo quali reduci da lager personali intente a curare le proprie anime bruttate dalla violenza detentiva, a curarle riconducendo il corpo alla sfera rigenerativa cui è stato sottratto: l’erotismo. 

Con generosità le femmes fatales di miss Dumas condividono il bottino liminale del fatalismo erotico col fortunato che dal loro sguardo non si senta intimidito né intimidato, col passionale pensante che sappia spol- parsele con gli occhi. Con occhi tattici e tattili. Impudico come piace a loro. Sprezzante del pericolo quanto loro. Se non accetti, è semplice: vuol dire che non le meriti. È un test di vitalità quello cui ci sottopongono e – come ogni autentico memento mori – il loro è un memento vivi. Malgrado tutto. Malgrado il male. Grazie al male. 

Édouard Manet, Olympia, 1863

Nemo bonus 

«Nemo bonus» tuona quel santo di Agostino. Nessuno (di noi può dirsi) buono. Un artista responsabile dovrebbe sempre ricordarcelo: noi non siamo buoni. Marlene Dumas è un’artista responsabile. 

Sul male la pittrice non punta il riflettore dell’eccezionalità, lo indaga con la torcia della normalità, della quotidianità: della banalità. Evil Is Banal è il titolo di un dipinto a olio del 1984. I titoli di Marlene non vanno trascurati giacché intrattengono relazioni puntuali e sovente spiazzanti con l’immagine che nominano, come nel caso di Evil Is Banal. La banalità del male non è una novità, vedi Hannah Arendt ed epigoni. La novità e lo scarto del quadro risiedono nel fatto che il suo soggetto non è lo yes-man nazista Adolf Eichmann, o uno della sua risma, bensì Marlene Dumas in persona, autoritratta nella piena maturità di donna e di artista. 

«Trovo me stessa il miglior esempio di male», scrive l’artista in un testo del 1993, impartendo una lezione capitale a chiunque si misuri con l’estremo. Tra le righe Marlene ci sta dicendo che individuare il male in noi stessi, invece di additarlo negli altri, rappresenta un salto di umanità: un salto di livello su un’ideale scala di umanità. Se Adolf Hitler e Félicien Kabuga l’avessero pensata in questo modo, sarebbero venuti meno i due propulsori determinanti del genocidio degli Ebrei in Europa e dei Tutsi in Ruanda. Volersi male – nel caso di un’artista come Marlene Dumas – implica la volontà di distillare forme espressive che siano anche un precipitato della propria debolezza, della propria morbosità, della propria ambiguità, della propria inerzia, della propria dispersione, della propria disperazione, del proprio desiderio frustrato, del proprio sogno infangato: del proprio male particolare. 

Stanare il male dentro di sé e farci i conti senza sconti è un rito di passaggio tanto traumatico quanto imprescindibile per divenire artisti che non hanno paura di smascherare la realtà, a cominciare dalla propria realtà interiore, di sbugiardarla. Numerosi studi etnografici hanno di- mostrato che la cruenza del rito di passaggio è proporzionale alla natura delle prove riservate dalla vita. Idem per un’arte che si voglia rovesciante oltranzista dirompente. Idem per una razza di artisti la cui prova del nove è creare pensando contro loro stessi. 

Marlene Dumas, Het Kwaad is Banaal / Evil Is Banal, 1984

Ci sono pensatori che hanno coniato un’arte sopraffina dello scrivere contro loro stessi. Poeti come Baudelaire, filosofi come Cioran, narratori come Bernhard. Nondimeno ci sono artisti visivi che hanno mirabilmente creato – dipinto scolpito filmato – senza distogliere lo sguardo da uno specchio incrinato dove i lineamenti del filantropo si confondono con quelli del genocida. Artisti come Arnulf Rainer o Anselm Kiefer, giusto per fare un paio di nomi cui aggiungere quello di Marlene Dumas. 

Dalla finestra di Evil Is Banal la pittrice non ci fissa interrogativa come di solito ci fissano le sue ritratte in primo piano. Ignorandoci guarda alla propria sinistra. Cosa guarda? Uno spettacolo malvagio oppure qualcosa che il seme del male lo sta piantando di soppiatto nella sua persona? Ma siamo poi sicuri che stia guardando qualcosa? Se invece di guardare fosse assorbita, anzi rapita, da un pensiero fisso? Se stesse incubando una fissazione che la induce a proiettarsi dove ancora non è? E, se così fosse, una volta lì cosa immagina di scovare? Cosa crede di combinare? Dare sfogo a impulsi malefici oppure, al contrario, mettere in fuga il demoniaco demone che le si agita in corpo? E a monte: dove ci sta invitando a far convergere il nostro sguardo con il suo sguardo? 

Ingenerando questi e altri interrogativi Marlene Dumas dirotta la nostra attenzione fuori dalla pura e semplice rappresentazione. Più ci avviciniamo al dipinto (non solo con gli occhi), più abbiamo la chance di udire (col nostro orecchio interiore) un’esortazione di questo tenore: seguimi fuori dal quadro, ma soprattutto fuori dall’edificio della morale di levatura corrente e di spicciolo impiego, seguimi oltre le tue zone salve, oltre le tue zone franche, seguimi fin dentro le linee nemiche, dove rischi di essere fatto ostaggio da parte di forze che hai sempre fuggito, dove rischi di beccarti nella zucca quel proiettile vagante che ti aprirà finalmente il cervello. 

Vedere è un’avventura non solo visiva che Marlene ci sprona a compiere dandoci il buon l’esempio, posizionandosi in prima linea, facendoci strada nella selva «selvaggia e aspra e forte» di un’altra morale: una morale che è tutta da conquistare. 

Francisco Goya, Le Parche, 1819-23

La femme révoltée 

Marlene Dumas non si ferma al male banale e ai suoi derivati. Il male in causa non è soltanto il male mediocre e quotidiano, il male che limita e chiude, il male da riconoscere dentro noi stessi e contrastare a più non posso. L’artista dà libero accesso nei suoi dipinti a un male di opposta natura che esige da noi uno sforzo antitetico: tendere verso di esso. Possiamo chiamare quest’altro male – servendoci di una sola formula – male insurrezionale. Mi piace immaginare Marlene Dumas come una rugbista che placca il male banale per aprire un varco verso la meta al male insurrezionale. 

Apartheid è la parola con cui il bene sociale s’è presentato a Marlene Dumas. La pittrice, che vive in Olanda dal 1976, è nata nel ’53 in Sudafrica, un Paese dove la segregazione razziale è stata per quarantatré anni – dal ’48 al ’91 – la legge ossia il bene. Questo vuol dire che Marlene è stata svezzata, è andata a scuola, ha avuto le prime mestruazioni, ha perso la verginità, ha fantasticato l’artista che sarebbe diventata in una terra dove il cosiddetto bene era un confine e un confino, una barriera discriminatoria e un dogma poliziescamente imposto. A fronte di un bene di tal fatta, ovvero un bene accecante e oscurantista, essere artista implicava automaticamente una scelta di campo: asservirsi alle logiche del potere oppure abbracciare un’idea socialmente eversiva dell’arte. Marlene Dumas – che non è donna da vie di mezzo – s’è schierata dalla parte di un male armato di visione contro l’oppressione del bene: il male che abbiamo chiamato insurrezionale. 

Questa riflessione non alimenti però l’errata opinione che l’artista ope- ri qualsivoglia ribaltamento manicheo. Ella non ignora quante ipocrisie, quante oscillazioni, quanti tradimenti, quante prevaricazioni, quanti slittamenti, quante esitazioni prendano corpo tra la banalità e l’insurrezione, cancellando i rispettivi perimetri. Il lato oscuro non stinge, quello chiaro non sbrilluccica, non è tutto oro quel che luccica né tutta merda quel che puzza nell’ecce homo – che sappiamo essere soprattutto un ecce mulier – di Marlene Dumas. 

Marlene Dumas, The Painter, 1994

Afferma la pittrice nel 1993: «Dipingo perché sono una donna sporca», precisando che la pittura non è un passatempo per suffragette, bensì a messy business, «una faccenda incasinata». L’arte non può che essere sporcizia e casino nel momento in cui essa si solleva contro una società come la nostra, una società il cui cripto-modello di pulizia e ordine è il macello dopo lo scempio carnale: un luogo asettico, disinfettato in continuazione, da cui deve sparire ogni traccia di soppressioni prima della serie successiva di uccisioni. Donna in rivolta permanente, la nostra africana bianca concepisce la creazione artistica come una latrina e come un crimine. 

Marlene Dumas perpetra i suoi crimini nel reame metamorfico di un immaginario dinamitato da un’immaginazione fanciullesca. In un olio del 1994 raffigura una bambina. Una bambina a figura intera e senza vestiti. Una bambina nuda che ci rivolge uno sguardo che diremmo – a seconda dei punti di vista – da vecchio deluso o da assassino ancora caldo del proprio misfatto. Una bambina corrucciata che ostenta mani sporche – con ogni evidenza – di pittura: la destra blu, la sinistra rossa. Una bambina torva che ci mostra le manine come fossero la sua arma del delitto. Pare quasi che questa discola si stia costituendo alla nostra (chi lo sa quanto equanime) autorità percettiva. Il titolo del dipinto è The Painter e non commettiamo reato se interpretiamo l’opera quale autoritratto della pittrice da bambina imbrattata della sua malefatta. 

Marlene Dumas è una dirty woman posseduta da una criminal baby. 

Marlene Dumas, Lips, 2018

In copertina: Marlene Dumas, Magnetic Fields (for Margaux Hemingway), 2008

Leggi anche:

Dolci nullità, di Marlene Dumas

Open-end. Le figure di Marlene Dumas, di Guido Mannucci

Jonny Costantino

è scrittore e cineasta. Libri recenti: "Ultraporno" (2021), "La mano bruciata. Scrittori, pittori, elezioni" (2021), "Un uomo con la guerra dentro. Vita disastrata ed epica di Sterling Hayden: navigatore attore traditore scrittore alcolista" (2020), "Nella grande sconfitta c’è la grande umanità" (con Michael Fitzgerald, 2020), "Mal di fuoco" (2016). Tra i film realizzati con Fabio Badolato (insieme sono la BaCo Productions): "Sbundo" (2020), "La lucina" (2018), "Il firmamento" (2012), "Beira Mar" (2010), "Le Corbusier in Calabria" (2009), "Jazz Confusion" (2006). Nel 2009 ha fondato le riviste "Rifrazioni. Dal cinema all’oltre" e "Rivista". Attualmente è redattore del "Primo amore" e collabora con "Antinomie". Insegna "Regia: poetiche e pratiche del cinema" presso la Scuola d'Arte Cinematografica Florestano Vancini a Ferrara e vive a Bologna.

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