Ma davvero Virginia Woolf avrebbe amato Palazzo Altemps? Nadia Fusini ne è così sicura da scriverlo sul primo pannello di Virginia Woolf e Bloomsbury. Inventing life, la mostra che ha curato con Luca Scarlini. Avallo in qualche modo necessario per giustificare la presenza dei dipinti di Vanessa Bell, la sorella di Virginia, così come dei volumi pubblicati dalla Hogarth Press o delle stoviglie degli Omega Workshops, nelle sale del cosiddetto “appartamento della stufa”, abitate nella seconda metà del Cinquecento da Cornelia Orsini e dal marito, lo sventurato Roberto Altemps, che per volere del papa Sisto V morì decapitato a vent’anni, colpevole forse di adulterio, e sicuramente di avere un padre, il cardinale Marco Sittico Altemps, avverso e inviso al pontefice.

Oggi il palazzo è una delle sedi del Museo nazionale romano, quella più specificamente destinata a ospitare alcune delle maggiori collezioni di arte antica, tra le altre la Boncompagni Ludovisi, la Mattei e infine la raccolta dello stesso Marco Sittico (o almeno i non molti pezzi sopravvissuti a uno smembramento che già a partire dal Settecento ha portato la maggior parte delle opere in giro per il mondo, dal Louvre al British Museum). Eppure, nonostante la lunga storia dell’edificio (alla cui progettazione misero mano nel tempo Melozzo da Forlì, Antonio da Sangallo il Vecchio e Baldassarre Peruzzi), nonostante la bellezza delle opere, i visitatori registrati sono relativamente pochi, poco più di cinquantamila nel 2019, l’ultimo anno prima della pandemia. Non a caso i dati di Palazzo Altemps sono stati fra quelli citati da Carlo Calenda nell’agosto 2021, al tempo della sua candidatura a sindaco della capitale, per sostenere la proposta di un museo unico per la Roma antica.
Non se n’è fatto niente, com’era prevedibile e per vari motivi auspicabile, ma forse fra i motori che hanno guidato l’idea di allestire Inventing Life proprio a Palazzo Altemps c’è anche la speranza di attirare una maggiore attenzione sulla collezione permanente del museo. Intento, semmai, lodevolissimo, ché già solo il Galata suicida (così come il Galata morente dei Musei capitolini, copia romana in marmo di una statua in bronzo di Epigono che si trovava sull’acropoli di Pergamo) meriterebbe perlomeno un détour da parte di coloro che vengono a venerare il mondo dell’autrice di Mrs Dalloway.

In ogni caso, non potendo convocare testimoni a sostegno della sua ipotesi, Fusini mette in luce nella mostra (e più ancora nel corposo libro-catalogo edito da Electa che le si affianca) la passione di Virginia Woolf per la cultura classica, in particolare greca – una passione trasmessa alla futura scrittrice dall’amato fratello maggiore Thoby, studente a Cambridge e di conseguenza anello di congiunzione fondamentale tra la cerchia di intellettuali, da Lytton Strachey a John Maynard Keynes, che comporranno poi il mondo di Bloomsbury, e le due sorelle Stephen alle quali – com’era prassi a quei tempi – viene negata una formazione scolastica regolare. Morto a ventisei anni di tifo proprio in seguito a una vacanza in Grecia, Thoby resta un’ombra, scrive Fusini, “che accompagna Virginia tutta la vita”. Che poi le opere esposte in mostra (dipinti, foto, documenti, volumi, oggetti) dialoghino, come si dice adesso nei comunicati stampa, con i pezzi del museo e con i grandi ambienti severi che li circondano, è da vedere – e se dialogo c’è, il suo interesse si fonda sul contrasto e non sull’accordo, a partire proprio dagli spazi.

Ancora Fusini, infatti, insiste sul gesto dirompente – di Vanessa più che di Virginia – che portò le giovani Stephen alla morte del padre (il molto autorevole sir Leslie, letterato, filosofo e alpinista) dalla grande dimora ovattata di Hyde Park Gate al frastuono della nuova casa di Gordon Square, in “un quartiere niente affatto chic, ma piuttosto malfamato”. Bloomsbury, appunto. Un bel salto, in effetti, anche se forse nel 1904, all’epoca di quel memorabile trasferimento, Bloomsbury si sarebbe già potuto più precisamente catalogare come bohémien (un po’ come se ai tempi nostri, e per restare a Roma, la famiglia Stephen si fosse spostata dai Parioli o da Monteverde Vecchio all’Esquilino: gesto audace, ma non impensabile).

È in questo salto il primo segno di quella “invenzione della vita”, e al tempo stesso di “vita inventante”, che dà il titolo alla mostra e intorno alla quale si impernia il percorso espositivo – l’idea cioè che in quei primi anni del Novecento si stessero aprendo varchi impensabili in precedenza, o per dirla più semplicemente, stesse cambiando tutto. On, or about December 1910, human character changed, scriverà Virginia Woolf, forse in riferimento alla prima mostra londinese dei post-impressionisti allestita da Roger Fry – nel mucchio Cézanne, Gauguin, Van Gogh, Picasso – ma più probabilmente di fronte alla constatazione che era in corso un “arte-moto” (la definizione è di un altro eminente bloomsburiano, Desmond McCarthy), specchio di un sommovimento sociale – verrebbe da dire, proprio seguendo Woolf, di una mutazione antropologica – di cui sentiamo ancora gli effetti. Prova ne sia, del resto, la fascinazione che la cerchia di Bloomsbury esercita su di noi, dalla mostra di Palazzo Altemps ai libri che, più di cento anni dopo, indagano quel mondo (l’ultimo in ordine di tempo, Nessuna come lei di Sara De Simone, sul rapporto tutt’altro che pacifico, ma non per questo meno intenso, che legò Virginia Woolf e Katherine Mansfield, la cui conoscenza fu orchestrata da Lytton Strachey, autentico maestro di cerimonie di tutto il gruppo).

In questo senso, il vero fulcro di Inventing life è la seconda sezione della mostra, che prende nome da un verso di una commedia giovanile di Shakespeare, Love’s Labour’s Lost: “Society is the happiness of life”, “stare insieme è la gioia della vita”: una galleria di ritratti (perlopiù prestati dalla National Portrait Gallery di Londra) di coloro che parteciparono alla vita di questa comunità, insieme apertissima e blindata. Ma anche e soprattutto la testimonianza di un inesausto confronto intellettuale e fisico, che lascerà la sua traccia più tangibile nei volumi della Hogarth Press, la casa editrice fondata nel 1917da Leonard e Virginia Woolf anche “a mo’ di ergoterapia”, a cui sono dedicate due sale. L’elenco dei titoli è lungo, imponente: impossibile non citare The waste land di T.S. Eliot, What I believe di E.M. Forster, Prelude di Katherine Mansfield, ma anche un testo autobiografico di Sofija Bers, la moglie intelligente e sofferente di Tolstoj (come non pensare a una sorta di implicito tributo alla fantasmatica sorella di Shakespeare di A room of one’s own?) e naturalmente i libri della stessa Woolf (Jacob’s room, Orlando, The waves), che in tutta la mostra occupa uno spazio ossimorico, centrale eppure defilato, quasi a eludere una domanda di fondo: senza di lei, guarderemmo ancora i quadri di Vanessa Bell, fino a che punto ci interesserebbero i piatti o le sedie degli Omega Workshops, il laboratorio di design fondato da Roger Fry? E in che misura quelle opere, quegli oggetti, ci aiutano a capire cosa ha rappresentato Virginia Woolf nella cultura del suo tempo? Domande meno oziose di quanto possano apparire, o almeno affini a quanto ha scritto T.S. Eliot nel suo necrologio per lei: “Con la morte di Virginia Woolf un intero modello di cultura è spezzato: ella può ben essere, da un certo punto di vista, soltanto il suo simbolo, ma non sarebbe quel simbolo se non fosse stata più di qualsiasi altra persona del suo tempo anche colei che lo ha sostenuto. La sua opera resterà, qualcosa della sua personalità sarà registrato: ma come potrà essere compreso, il suo posto nella vita dei suoi tempi, da coloro per i quali il suo tempo sarà così remoto che essi non sapranno neppure quanto non riescono a capirlo?”.

Lo cita Luca Scarlini in uno dei saggi che compongono il libro-catalogo, e commenta: “Non è dato sapere cosa ne avrebbe pensato Virginia”. E così è. Per il necrologio di Eliot, per Palazzo Altemps, e per tante altre cose. Così è sempre, e non solo per Virginia Woolf.
Virginia Woolf e Bloomsbury. Inventing life
a cura di Nadia Fusini e Luca Scarlini
Roma, Palazzo Altemps
Fino al 12 febbraio 2023
In copertina: Lady Ottoline Morrell, Simon Bussy, Vanessa Bell, Duncan Grant, 1922 © National Portrait Gallery, London