Considera il corpo (il tuo, dell’altro, dello squalo): può accadere che il morente scalci – si dimeni – prima del trapasso. Non lo diremmo in vita; non in senso pieno, almeno. Sbattere il corpo significa ancora essere vivi, eppure, quel corpo, al pari di un insetto qualsiasi, o di un malato terminale, vorrebbe vedersi disattesa ogni grazia, ogni promessa. Solo quiescenza. Porgere il colpo, permettere la coincidenza fra compassione e accertamento della condizione finale. (Nessuna teoria dei morti viventi; solo la valutazione, decisiva e banale, che essere in vita, in sé, non significa nulla, e che nondimeno significa tutto – in relazione). Esistono certamente luoghi migliori per vivere, è nelle cose, si dice; ciononostante, conta l’equivalenza, conta l’insignificanza dei luoghi destinati alla fine. Neanche delle circostanze. Un terremoto, un incidente stradale, la puntura di un calabrone. Stati di cose insignificanti. La morte degli altri riguarda anzitutto chi rimane e, in questo senso, la maggioranza di coloro che rimangono si guarda bene dal morire. Se non altro ci prova: vive, guardando gli altri farlo. Così, l’impossibilità fisica della morte nelle mente di un vivo è un pensiero dominante, un pensiero rassicurante. Compara la bara del genitore alla teca di vetro, la sepoltura alla tassidermia: lo squalo appare meno spaventoso, o enigmatico – la mente di qualcuno che scalcia per venire al mondo rappresenta ancora un evento senza senso, giustificazione, né fondamento o utilità. Lo squalo sotto formaldeide sta lì, per farsi guardare dai vivi; nel pomeriggio di domenica visita alla tomba del padre.
In copertina: Damien Hirst, The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, 1991 (Tiger shark, glass, steel, 5% formaldehyde solution) Tate Modern, London