Alla scoperta della caverna di Lascaux, nel 1940, origine di un vivacissimo interesse per la preistoria da parte sia degli scienziati sia degli artisti, seguì un periodo di riflessione e di dibattiti i cui esiti sono stati attutiti dalla scoperta, nel 1994, della caverna detta di Chauvet, un evento a partire dal quale la prospettiva entro la quale si studiano le cosiddette arti delle caverne sono state rivoluzionate. Per la verità, un’altra caverna di straordinario fascino, quella di Altamira, in Cantabria, era già stata scoperta nell’Ottocento, ma le polemiche sulla autenticità dei suoi dipinti parietali avevano offuscato l’importanza del ritrovamento. Il rivolgimento epocale ha avuto luogo, e sta tuttora accadendo, non solo perché si è aperta una autentica voragine storica in direzione di un passato che si sta rivelando ben più complesso di quanto si pensasse (basti ricordare che, come dimostrarono le datazioni al radiocarbonio, tra Chauvet e Lascaux trascorse all’incirca tanto tempo quanto ne è trascorso tra Lascaux e noi), ma anche perché, con l’espansione accelerata dell’enciclopedia del nostro sapere, aumenta il numero dei luoghi in cui i nostri più antichi antenati hanno lasciato tracce della loro permanenza oltre lo spazio delle caverne. Così apprendemmo che abbiamo alle spalle circa 50.000 anni di arti parietali e mobiliari.
Vecchie ipotesi sostenute con argomentazioni un tempo ritenute ragionevoli, per esempio quelle fondate su una visione evoluzionistica applicata alla storia delle arti più antiche, come se queste fossero destinate a raggiungere lo stadio di un puro mimetismo naturalistico, andarono in frantumi e lasciarono il passo a revisioni più problematiche e a nuovi modelli di classificazione: chiunque può constatare, per esempio, che i dipinti di Chauvet non sono affatto “arcaici” rispetto a quelli di Lascaux, coi quali gareggiano per efficacia e vigore, e questa evidenza sposta l’accento della nostra attenzione dalla continuità alle varianti riscontrabili in siti diversi e quindi in storie diverse. In sintesi: la visione tendenzialmente unitaria che un etnologo e archeologo come André Leroi-Gourhan aveva elaborato nei suoi testi sulla preistoria rivelano, nonostante l’indiscutibile genialità e ricchezza di intuizioni dell’autore, delle crepe o dei vuoti che gli scienziati si sono impegnati a rivedere e correggere, incalzati e sollecitati dalla grande massa di informazioni che, nell’epoca della digitalizzazione globale, ci giungono da ogni continente. Anche in questo campo di studi l’etnocentrismo europeo, che si manifestò sicuro detentore del copyright dell’universalità quando Lascaux venne definita la «Cappella Sistina della preistoria», vacilla dopo essersi imbattuto in antagonisti degni di figurare in una storia universale delle arti.
Oggi si può constatare che lo stupore causato da Lascaux non è scemato, come è testimoniato dal film girato da Werner Herzog (Cave of Forgotten Dreams, 2010), ma anche che vecchi problemi, risolti o accantonati, hanno inaugurato l’avvento e il moltiplicarsi di nuove ipotesi che non cessano di proporre inediti affascinanti problemi. Per fare il punto della situazione e permetterci di avere una visione d’insieme aggiornata di tale problematica una folta schiera di studiosi e specialisti ha realizzato un’opera davvero ciclopica, destinata a diventare punto di riferimento obbligatorio degli studiosi futuri, ora pubblicata anche in Italia: L’arte della preistoria, curata dall’archeologa Carole Fritz, con una doviziosa documentazione fotografica (700 illustrazioni spesso corredate di note esplicative). L’opera costituisce una minuziosa mappatura dell’arte rupestre mondiale, con riferimenti a ricerche tuttora in corso, e nella seconda parte contiene una raccolta di riflessioni di ricercatori che hanno partecipato a vari progetti intesi a mettere a fuoco questioni sorte in seguito alle indagini più recenti. La seconda parte concerne soprattutto opere del Paleolitico superiore, ovvero del periodo di grandi mutamenti climatici e ambientali che si concluse all’incirca a Lascaux, ora fatta risalire al 18500-15500 BP (ricordiamo che le datazioni BP, ossia Before Present, assumono come punto di riferimento convenzionale l’anno 1950). Tali sono le dimensioni, storiche e geografiche, dell’imponente volume da indurci a esplorare solo alcuni capitoli per evidenziarne la portata e l’attualità.
L’orizzonte, geografico e culturale, illustrato nella prima parte è immenso e sorprendente perché, mentre alcuni siti preistorici sono noti anche a chi, pur non essendo particolarmente interessato a questo genere di ricerche, vive in una regione in cui si trovano siti molto citati, soprattutto in Francia e Spagna, dove è stata scoperta la maggior parte delle caverne diventate famose, a pochi è capitato di conoscere i tesori archeologici identificati negli altri continenti. Grazie alla ricca documentazione offerta dal volume ci è dato di conoscere, per esempio, l’arte rupestre del Gobustan, nella parte orientale dell’Azerbaigian, dove si trovano testimonianze di quattordici millenni di cultura, o le meraviglie archeologiche sparse nella steppa euroasiatica che, estesa dall’Ungheria fino alla Mongolia, ha costituito una specie di corridoio in cui sono passati gruppi umani che, fin dalla preistoria, hanno reso possibile la circolazione di idee e di rappresentazioni in entrambe le direzioni. In questo vastissimo spazio oggi si trovano numerosi complessi funerari e in particolare steli, risalenti all’età del bronzo, con decorazioni scolpite che rinviano alle intricate mitologie fiorite nelle steppe; ma sono state rinvenute e studiate anche importanti opere realizzate mediante l’arte dell’incisione a picchiettatura.

Apprendiamo che in India, già oggetto privilegiato di ricerche da parte dei conquistatori britannici nell’Ottocento, dal 1950 è attiva una Rock Art Society che ha rilanciato l’interesse per gli innumerevoli siti dispersi soprattutto nella parte centrale del subcontinente, tenendo conto delle metodologie scientifiche più avanzate. Nelle decorazioni dei siti realizzate quasi sempre all’aria aperta, alcune delle quali fanno parte del patrimonio mondiale dell’Unesco e risalgono a epoche diverse, di solito le figure maschili, rappresentate come guerrieri o cacciatori in azione all’interno di una scena, sono maggioritarie rispetto sia a quelle femminili sia a quelle animali, che a loro volta sono rappresentati in azione e in modo più vario di quanto generalmente si constati nell’arte paleolitica europea («le 1029 immagini di animali censiti nei ripari di Pachmarhi [nel Madhya Pradesh] meridionale ritraggono esemplari appartenenti a ben ventisette specie diverse»). In certe regioni del subcontinente sono frequenti le rappresentazioni di mani realizzate imprimendo la mano sulla parete dopo averla spalmata di colore, ma sono noti anche esempi di mani disegnate e di impronte di mani negative, come quelle che si trovano anche in altri continenti (ricordiamo quelle scoperte in Argentina, molto note a causa della loro spettacolarità) e che nelle versioni indiane sono certamente collegate a riti cerimoniali.

L’iconografia rupestre cinese meriterebbe una riflessione ben più ampia di quella che ci possiamo concedere nella presente nota: sia per la sua complessità e varietà, sia per la maestosità dei paesaggi nei quali sono inserite le opere, qui adeguatamente accompagnate da suggestive fotografie, sia infine per i nessi che lasciano affiorare tra rappresentazioni naturalistiche e sistemi segnici che annunciano l’avvento della peculiare formazione della scrittura ideogrammatica. Quanto all’inserimento spettacolare delle opere nel paesaggio, spiccano le «più di 4000 rappresentazioni distribuite sulle falesie di calcare lungo il bacino del fiume Zuojian», che oggi si possono ammirare con visite turistiche in battello, e in particolare le gole di Huanshan, uno dei siti archeologici più importanti del mondo, con una miriade di configurazioni parietali, prodotte tra il 1856 BP e il 1728 BP, dove sono rappresentate cerimonie rituali con enormi personaggi di alto rango che sovrastano figure circostanti. Queste ultime rappresentazioni, decisamente schematiche, lasciano supporre la codificazione di una struttura sociale fortemente gerarchica ed eternizzata rappresentandola in grande formato nelle maestose falesie.

Ci è parso opportuno riferirci, sia pure con rapidi accenni, alle arti indiane perché seguendo le loro vicende ci si imbatte esemplarmente nei problemi cruciali coi quali devono fare i conti gli studiosi di preistoria in ogni parte del mondo. Ancora in sintesi: nella lunga e frastagliata storia dell’India sono state adottate tecniche di lavorazione (incisione o pittura) la cui datazione, dal momento che non ammettono il ricorso al metodo del radiocarbonio, rimane particolarmente ardua; è messo in dubbio che in India sia esistito un Paleolitico; l’Età storica ha avuto inizio in date diverse a seconda delle regioni e, come testimoniano alcuni ricercatori che hanno studiato i siti in loco, certi miti ai quali afferiscono antiche rappresentazioni rupestri sono tuttora in uso presso molte comunità tribali. Nonostante queste premesse, in India come altrove le analisi stilistiche, fisiche, antropologiche e archeologiche collaborano, coordinate, per acquisire esiti sempre più precisi nel collocare le rappresentazioni nel loro specifico periodo di gestazione, nel mettere a fuoco sovrapposizioni e accostamenti di stili e nel ricostruire nessi tra una determinata opera e il contesto socio-economico al quale essa è rapportabile.
Anche da questi accenni si deduce che le questioni di metodo, affiorate trattando di ogni continente, costituiscono una matassa intricata che, per essere dipanata, richiede una formazione culturale polimorfa continuamente aggiornata ed elastica, pronta ad accettare sempre nuove sfide. I simboli restano muti se non sono rapportati a una storia che è sempre duplice, particolare e universale, determinata da forme di vita sociale variabili e dalla tenacia con la quale l’essere umano tende a esplorare la natura che lo circonda, a testare nuovi materiali e a interpretare la presenza di un “altro” la cui esistenza talora è solo intuita aldilà dei suoi confini.
Resta il fatto che per noi non è facile stabilire i confini tra simbolico e gratuito. L’arte paleolitica di solito è anche simbolica, nonostante le sue prevalenti tendenze animalistiche, ma la comprensione dei suoi simboli è perseguita attraverso la conoscenza in progress che abbiamo di un divenire: quando si imbattono in un contesto culturale incerto, i ricercatori non si danno pace finché non riescono a raccogliere indizi che li guidano a una sua collocazione che può dimostrarsi più precisa e convincente, anche se introduce nuovi quesiti. Da questa situazione consegue che il campo delle investigazioni concernenti le arti rupestri si configura attuale e dinamico, in quanto vi si colgono crescenti convergenze tra i contributi di diverse scienze, ma anche conflittuale per i contrasti che vi sorgono tra impostazioni ermeneutiche diversamente orientate.
Procedendo ancora per esempi che coinvolgono maggiormente la storia del nostro continente e inducono a ulteriori interrogazioni: vi sono peculiarità riscontrabili solo in alcuni siti, mentre altre, come quella delle rocce incise, hanno avuto un certo grado di diffusione e originato varianti; vi sono regioni, in Europa, in cui la figura umana diventa rara, o addirittura inesistente, a differenza di quanto talora si nota in altre località sopra menzionate, e quando è presente è orientata verso le figure femminili; la realizzazione delle arti schematiche ha avuto luogo, in Europa, a partire da influenze provenienti dal Vicino Oriente ed è correlata a mutazioni socio-economiche che ne spiegano certe caratteristiche ma non altre.
Il capitolo dedicato all’Africa riserva altre sorprese e introduce problemi che riguardano il nostro passato più antico. Le arti rupestri africane godono di un certo grado di popolarità, tra noi occidentali, aumentato da quando i genetisti hanno dimostrato che la nostra specie si è evoluta a partire da popolazioni dell’Africa australe e che nello stesso contesto sembra essersi manifestato originariamente il pensiero simbolico. L’intero continente è ricco di ripari decorati e di rocce incise, ma alle arti sviluppatesi nel Sahara, osservatorio prezioso per lo studio delle popolazioni lì vissute negli ultimi dieci millenni (sebbene sugli inizi della cronologia dell’arte sahariana il dibattito sia ancora aperto) viene riservato un capitolo a parte, dove viene illustrata la prevalenza di rappresentazioni dai tratti umani. Va rilevato che ciascuno dei maggiori siti di arte rupestre dell’Africa australe, non per caso inclusi nel patrimonio mondiale dell’Unesco, ha caratteristiche che lo rendono unico. Ci troviamo di fronte a una grande varietà di stili, soprattutto nelle regioni più meridionali, e i ricercatori si soffermano su discordanze e continuità tra regioni anche contigue giungendo a una conclusione: le discordanze «indicano principî diversi di appropriazione e marcatura del territorio da parte di gruppi umani che pure si avvalevano spesso di strategie economiche molto simili».
Vale la pena di menzionare la straordinaria grazia che si riscontra in certe rappresentazioni risalenti alla tarda Età della pietra in Namibia (4000 BP-2000 BP), e le stilizzazioni in quelle oggi molto studiate del Botswana, ma non insisteremo nell’inseguire le motivazioni che stanno alla base di certe scelte stilistiche e ci limitiamo a segnalare un caso meritevole di particolare attenzione. Si tratta dei cosiddetti formlings dello Zinbabwe, forme non databili, oblunghe, apparentemente astratte, raggruppate e spesso circondate da sciami di puntini: ora viene spiegato che rappresentano nidi di termiti e simboleggiano la casa divina in cui dimorano «le potenze trasformatrici e generative del mondo degli spiriti». Caso molto interessante in quanto esemplifica, da una parte, gli sbandamenti cui siamo esposti cercando di interpretare certe forme senza una adeguata conoscenza del contesto in cui furono concepite e, dall’altra, l’importanza che poteva essere attribuita, in un àmbito africano, a «spiriti» potenti operanti da una sfera oltremondana: sono gli antenati degli spiriti, aggiungeremmo, ai quali si riferiscono tante opere africane moderne, combattuti aspramente dai monoteismi, che li hanno prontamente declassati al rango di forze maligne. (Si profila una analogia con quanto avvenne in Australia, dove complesse simbologie riguardanti gli antenati degli aborigeni, testimoniate da antichissime opere rupestri oggi ammirate in tutto il mondo, sono state a lungo neglette od ostracizzate come le popolazioni che le crearono.)
Le questioni teoriche poste, o sfiorate, nel corso della vasta mappatura delle arti rupestri hanno un seguito e sviluppi nella seconda parte del volume, dove sono affrontati e riformulati, su basi scientifiche, i molti quesiti che sorgono da una ricognizione a così vasto raggio investendo la nozione di arte. Le analisi ora ruotano intorno alla datazione e alla portata del simbolico e procedono con molta cautela perché progressi delle tecniche di datazione, indiscutibili, hanno permesso di restituire a un àmbito utilitaristico reperti un tempo ritenuti simbolici, ma d’altra parte vi sono reperti la cui destinazione originaria resta ambigua o indecidibile. Certe datazioni, implicanti diverse collocazioni archeologiche dei reperti cui si riferiscono, sono al centro di accesi dibattiti, come accade con oggetti ritenuti neandertaliani ma che possono essere prodotti dall’uomo moderno. La conclusione di tali divergenze è ancora ipotetica ma prevalente: «sembra che gli indizi dell’esistenza di comportamenti simbolici dei Neandertaliani diventano tanto più numerosi in Europa quanto più si avvicina a 50000 anni fa, data di una o più migrazioni dei Sapiens, provenienti dal Vicino Oriente».
Da ciò conseguono altri quesiti, ora relativi alle ragioni che possono aver indotto i Neandertaliani, nonostante i loro complessi legami sociali, a non lasciare testimonianze di arte figurativa, e ai cambiamenti biologici che hanno modificato le forme dell’encefalo, e conseguentemente le forme mentali, nel passaggio dal Neandertaliano al Sapiens. Ricerche minuziose hanno avuto luogo in ogni parte del globo per individuare le origini delle arti figurative, legate alla diffusione delle capacità cognitive e alle forme di vita collettiva proprie del Sapiens che, grazie alle proprie maggiori capacità di procedere per astrazioni, ha prodotto immagini accessibili a tutti e condivise da culture diverse. Così il Sapiens ha introdotto nella storia i presupposti della modernità.
Le arti rupestri rispondono a un bisogno universale, «come i riti e le credenze che assicurano la coesione della comunità». Donde, nonostante le differenze formali, l’aria di famiglia che riscontriamo nelle arti rupestri di tutti i continenti, dovunque lo sviluppo di gruppi sociali ha reso possibile la nascita di immagini create per essere condivise attingendo sia dall’ambiente materiale sia da quello sociale. Non siamo in grado di decifrare tutti i segni che ci sono stati tramandati dal mondo che precedette la scrittura, ma al ricercatore può bastare un dettaglio per poter stabilire una classificazione di grafismi elementari o distinguere i motivi statici da quelli dinamici di narrazioni con scene più o meno coordinate tra loro e così risalire alle credenze, alle usanze e alle datazioni di specifici gruppi sociali. Certo, alcune scene, come quella famosa del pozzo nella caverna di Lascaux, resistono all’interpretazione, o meglio producono interpretazioni diversamente orientate: ciò che era comprensibile all’osservatore preistorico in parte resta precluso alla nostra comprensione, perché discende da culture imperniate sui miti, che hanno la caratteristica di sollecitare la creazione di altri miti «finché rimangono parte integrante del modo in cui le società rappresentano a sé stesse il mondo», come si sottolinea nella conclusione del volume. E l’interprete nostro contemporaneo non può che far ricorso alla propria competenza e alla propria immaginazione per proporre una ipotesi ermeneutica sostenibile.
Le illustrazioni della seconda parte del volume documentano come la ricerca proceda ricorrendo all’ausilio di scienze diverse per stabilire, o rivedere, il senso di una simbologia condizionata da particolari condizioni di vita o dalle propensioni più o meno innovatrici di un artista. In alcune situazioni siamo in grado di distinguere l’opera di un maestro da quella di un principiante, mentre in altre si discute dell’apporto delle donne nell’evoluzione delle arti rupestri, ma il muro divisorio tra il rapporto con la realtà circostante percepita dall’uomo preistorico e la nostra visione della realtà non scompare: si sposta, seguendo quanto le varie scienze scoprono o suggeriscono, e si ripropone spostandosi. L’impianto scientifico complessivo sul quale si fonda L’arte della preistoria indica la direzione seguita dalle ricerche, che per essere fedeli allo statuto della scienza devono dimostrare quanto sostengono, ed eventualmente evidenziare la natura ipotetica di una tesi. Sullo sfondo delle indagini volte a comprendere la lenta conquista, da parte dell’uomo, di tecniche e colori più efficaci per dare forma a quanto sembrava apparirgli vivendo in ambienti eterogenei si ripropone, come si deduce da quanto sopra esposto, il tormentoso e inevitabile contrasto tra i sostenitori di una «specificità dei siti e dei fatti rilevati» e i sostenitori di una possibile visione globale.
Da quest’opera così ricca di dati e suggestioni si possono ricavare spunti per moltissime considerazioni e al suo margine vogliamo qui aggiungerne una sottolineando la crucialità che si può attribuire, al centro della problematica sottesa alle arti rupestri, al «profondo legame che univa i paleolitici alla Natura» (l’enunciato è di Denis Vialou) e alla natura di questo legame, dissoltosi col passare dei millenni. È un tema che affiora già nelle prime pagine, dove si menziona la curiosa «attrazione per le grotte profonde» che l’uomo provò nei tempi più remoti inducendolo a realizzare i propri dipinti in luoghi difficili da raggiungere e immersi nelle tenebre: l’insieme più antico del Paleolitico superiore è in gran parte situato in ambienti sotterranei o in ripari sotto la roccia. Questa scelta è stata fatta coincidere da alcuni con gli albori di una concezione sacrale della natura che permea l’opera di quello che noi consideriamo un artista. Alla ricerca di un mistero protetto dalle tenebre non è sempre riconducibile la produzione di opere parietali e mobiliari, ma in essa forse si trova una chiave di lettura particolarmente rilevante per intendere la storia del cammino dell’umanità verso il conseguimento di una razionalità che punta a privilegiare una oggettività e una funzionalità senza ombre e, soprattutto, senza sacralità.
Sebbene le rappresentazioni di figure e riti sciamanici che compaiono in alcune opere molto antiche dell’Africa meridionale e dell’Australia, comportino specifici rapporti sciamanici con la natura, il disaccordo permane tra specialisti che considerano lo sciamanesimo una pratica religiosa e etnologi secondo i quali lo sciamanesimo è riscontrabile solo in regioni ben definite e non è applicabile all’intera preistoria.

La filosofia e la scienza moderne non hanno rinunciato a indagare il sacro, ma nella misura in cui (spesso) lo hanno ridotto a oggetto della pura razionalità calcolante e non a esperienza diretta del “mondo”, alimentano un dissidio insanabile dal quale sembra conseguire la perplessità di quei ricercatori che, sottovalutando la centralità dell’elemento sacrale, infine negano mestamente la possibilità di poter fornire una interpretazione globale delle arti paleolitiche.
Fino a qual punto la scienza può inseguire il senso delle antiche rappresentazioni senza cedere a suggestioni irrazionali? Soffermandosi su opere in cui l’ispirazione sacrale si impone con maggiore evidenza, lo stesso Leroi-Gourhan, sostenitore di una visione soggetta a regole di ripartizione e associazione riconducibile a un sistema semiologico, riconoscendo «nell’arte parietale europea l’espressione di un pensiero elaborato, prossimo a una “religione” (pur diffidando di questo termine)», esprimeva una diffidenza ragionevole se non si distinguono le religioni positive, con il loro seguito di dogmi, da stati estatici che le istituzioni, temendoli, hanno osteggiato, o gestito riconducendoli a una ortodossia. In una delle sue opere più a vasto raggio, Le geste et la parole, Leroi-Gourhan tornava più volte sullo stretto nesso tra l’estetico e il religioso nelle arti della preistoria inoltrandosi un una serie di fattori messi in gioco dalla sensibilità e dalle reazioni fisiologiche dell’uomo preistorico e dava per scontato che la separazione tra le due esperienze «est presque consommée dans la culture moderne» come risultato di una razionalizzazione del sapere.
Rimane sospesa, tra l’altro, la questione del distacco dal tempo dei ritmi naturali che l’uomo ha spesso cercato, in tutte le civiltà, per liberarsi dal loro condizionamento e conoscere uno stato di rapimento al quale ci è difficile accedere, prigionieri come siamo della velocizzazione cui ci costringe la vita sociale contemporanea, mentre per l’uomo preistorico forse quello stato conseguiva dalla condizione di vivere la vita «en bloc», come ipotizzava il paletnologo. Se l’ipotesi tiene, di fronte alle arti rupestri agirebbe in noi moderni, o postmoderni, la nostalgia di un diverso rapporto con la natura. In Italia un valente psicanalista, Elvio Fachinelli, tornando su una distinzione, già proposta da alcuni psicanalisti e sociologi, tra mistico e religioso (per es. Roger Bastide, fautore di un «sacro selvaggio») e rimettendo in discussione la nostra concezione corrente della realtà, aveva indicato una via d’uscita dallo stallo e evidenziato la perdita che ci siamo autoinflitti rinunciando a quei momenti estatici che accompagnano i momenti creativi nella nostra vita: ai quali gli scienziati, come Fachinelli riconosceva, non sono costitutivamente estranei. Il fatto di accogliere una esteriorità perturbante e ambigua, che tale era anche gli occhi dell’uomo ancora privo della scrittura, non implica necessariamente l’adesione a una religione, intesa come ortodossia istituzionalizzata, verso la quale la ragione non può che nutrire una prudente diffidenza: la scelta può puntare su un possibile ravvicinamento tra estatico ed estetico.
Quando gli scienziati notano la tendenza dell’uomo un tempo definito «primitivo» (e meglio definito «primordiale» da un poeta) a sfruttare venature, fenditure, forme tondeggianti o angolose della materia, per ricavarne suggestioni integrandole nelle proprie opere (p. 530), rilevano un rapporto con la materia che nella storia dell’umanità si è tramutato in un suo dominio implacabile; e con la quale il nostro antenato più antico aveva invece un rapporto che potremmo definire collaborativo, e comunque tale da permettergli di controllare il proprio sgomento di fronte alla scoperta di un “altro” inquietante e inesprimibile. Il trionfo della cultura tecnologica e dell’assoggettamento della natura ci allontana dall’accettazione di tale sentimento ma non lo cancella. I ricercatori che nell’arte delle grotte lamentano «l’assenza di limiti artificiali sui pannelli decorati (ossia di “formati” e di cornici) e la mancanza di una cronologia veramente precisa» (p. 509) scavalcano la distinzione stabilita da Wittgenstein tra dire e mostrare il mondo: né la cornice (chiusa come le «costanti logiche») né il tempo cronologico appartenevano alla visione dell’artista che presagiva l’esistenza di un inesprimibile (che anche Wittgenstein, detto per inciso, definiva «il mistico», sostantivo).
L’uomo preistorico, affidandosi a una prassi paradossale che non esclude un Tutto naturale, né compiutamente può mostrarlo, vive in un rapporto ambiguo con la natura e con l’altro; e, pur non potendo sfuggire ai condizionamenti socio-culturali del suo tempo, parla anche a noi, fuori del suo tempo, e non cessa di affascinarci. Tuttavia, se dobbiamo riconoscere che la scoperta scientifica procede per gradus, attraverso lente ma sicure conquiste della verità, e che Einstein ci pare oggi “superato” quanto Galileo, in mancanza di una Verità ultima non possiamo che mostrare gratitudine per i ricercatori che con scrupolo e tenacia ci hanno aperto porte verso un passato che ci introduce al sempre nuovo di ogni tempo.
L’arte della preistoria
a cura di Carole Fritz
traduzione di Valentina Palombi
Einaudi «Grandi opere», 2022
620 pp. ill. col., € 140
In copertina: Werner Herzog, Cave of Forgotten Dreams, 2010 (film still)