La presentazione (non «mostra», precisa l’interessata) inaugurata il 22 gennaio al Museo Egizio del Cairo (e ivi visitabile sino al 30 aprile), Present in your Presence, rappresenta per Giorgia Fiorio non so se la chiusura di un cerchio, certo il momento – si può solo immaginare quanto emozionante – di un rimpatrio. Le fotografie della serie Humanum, nella quale dal 2010 insegue gli archetipi della statuaria nell’impossibile, instancabile ricerca di un loro «paradigma» originario (con spirito non troppo diverso, forse, da quello del Goethe che dalla Metamorfosi delle piante, alla fine del Settecento, voleva dedurre l’«Urpflanze»: cioè il modello dal quale discende l’infinita fenomenologia delle fibre vegetali) s’incontrano infatti, nella loro sede finalmente, coi rispettivi “originali”: ossia tre delle teste che la serie fotografica dell’artista inquadra sempre accostandone nella medesima immagine, attraverso insiemi polittici (resi in scala 1:1 rispetto al referente), versioni sottilmente diverse fra loro (per variazioni di parallasse e di luce): come a dirci che anche la “stessa” testa, a seconda di come la guardiamo, è sempre un’“altra”.
Lo stesso viene da pensare a proposito dei “ritratti” che s’interpolano, negli ultimi anni, alla serie Humanum. “Teste” di oggi (come quelle di due amici di «Antinomie» coi quali – consapevolmente peccando d’aneddotica – ci piace far cominciare questa serie di immagini) che però lo sguardo di Fiorio proietta in un oltre-tempo “metafisico” non differente da quello abitato dalla Nefertiti di uno dei suoi «paradigmi». In un bellissimo saggio del 2014, L’altro ritratto, diceva un altro amico di «Antinomie», il compianto Jean-Luc Nancy, che «nel ritratto si rintraccia, si ritira, molto sensibilmente sotto i nostri occhi, la possibilità per noi di essere presenti». E questo, insolubile forse, paradosso della presenza mi pare il filo che orienta il libro pubblicato qualche mese fa, a cura di Claudio Pastrone e con un testo di Gian Luca Favetto, a riassumere un percorso ormai trentennale come quello di Giorgia Fiorio (nella collana «Grandi autori» della Federazione Italiana Associazioni Fotografiche, 128 pp., € 27). Per la cortesia dell’autrice ne proponiamo qui una scelta di immagini e testi (integrati e variati appositamente per «Antinomie») che lei ha voluto però presentare in ordine inverso rispetto a quello, denotativamente cronologico, seguito nel volume.


Ri-vediamo così, alla luce del work in progress che ora la assorbe per intero, le immagini di fortunati libri precedenti, come Il Dono (Peliti Associati 2009) e Figuræ (Marsilio 2013): e capiamo come anziché un “ri-trarsi” – quale Nancy, giocando con la nostra lingua, interpretava il je est un autre di ogni “vero” ritratto: «la fluttuazione, la fluidità, l’annegamento al fondo di sé» – lei insegua sempre la proprietà simmetrica, di ogni immagine, di “affacciarsi”: per cui ogni aspetto del mondo, “umano” o meno, ci si manifesta in qualità di apparizione. Anche del giardino zen di Kyoto, come delle Dolomiti riprese nel 2015, Fiorio fa insomma un “ritratto” (il saggio di Nancy, in effetti, cominciava con quanti convenzionalmente definiremmo “paesaggi”, quelli di Corot, per proseguire col “paradigma” delle figurazioni “originarie” di Lascaux).
Anche a questa inversione di categorie, fra umano e non umano, allude forse l’ordine cronologico rovesciato da lei prescelto. In una logica fotografica tradizionale quella che si vede dapprima è un’idea confusa dell’immagine, che man mano si “sviluppa” e “mette a fuoco”. Per lei invece l’immagine si dà in una flagranza istantanea, con l’oltranza e la violenza di un’apparizione come detto; e solo in un secondo momento, après coup, ce ne fa percepire l’aura, la lontananza dalla quale in effetti proviene. A questo mi pare alludano i versi di Paul Klee da Fiorio posti in esergo al suo libro:
Io sono inafferrabile nell’immanenza
vivo tra i morti
come tra quanti non sono mai nati
più vicino al cuore della creazione.
E non abbastanza vicino
Andrea Cortellessa
Forma tangibile dell’invisibile, inalterabile nella sua misura, la statua è mossa da un’incessante metamorfosi che non partecipa della definizione del suo volume, se posso supporne l’apparenza «diversamente rilevata»[1] in una fotografia, una superficie piana per definizione.
Dal 2010 Humanum riconsidera l’archetipo statuario della figurazione umana nella percezione del nostro tempo. Attraverso insiemi polittici composti da diverse figure da una medesima testa scolpita, in un processo di trasfigurazione luminosa dove la mímesis fotografica non replica l’archetipo statuario nel suo inalienabile statuto archeologico, porta alla luce quel «c’è»[2] che la visione contiene. I polittici di Humanum non ritraggono qualcosa o qualcuno, interrogano ciò che è soltanto, ed è unico e diverso per ognuno che contempla il trasfigurarsi della figura umana nel corpo scolpito.
Nominati Parádeigma i polittici schiudono la metamorfosi della parvenza di un medesimo soggetto statuario nella variazione della luce. Come il paradigma verbale si declina ogni tempo in cui lo intendo, l’archetipo è l’esemplare originario (arché) di un numero infinito di modelli (týpoi) dove ognuno contempla la figura che lo contempla. Nessuna figura è uguale ad altra figura, tutte sono identica parte-unica di un’indivisa identità invisibile, la stessa identità del passo che in ogni passo stampa al suolo un’impronta diversa. Accusativo e nominativo il termine humanum convoca un vincolo riflesso tra il soggetto scolpito e il soggetto che lo contempla dove l’oggetto della contemplazione si traspone di contino.

Un “tratto luminoso”, il mezzo fotografico non documenta né replica il corpo scolpito, trae dall’ombra alla luce l’espressione molteplice di una realtà interiore. Anch’essa mímesis di un modello interiore all’apparenza del reale, la fotografia, in un continuo scegliere, in un continuo escludere, è soltanto un segno che trae l’oggetto dal buio.

Con l’intento di tracciare la trasfigurazione della scultura nel divenire luminoso, la dinamica di ripresa prevede, treppiedi bloccato al suolo frontale alla statua; distanza costante dal punto focale tra gli occhi. Supporto analogico del film d’argento, nove variazioni del parallasse, corrispondenti ognuna a dodici posizioni di luce-continua. Cento otto declinazioni, senza contare ciò che s’improvvisa. Come il paradigma di un verbo declina il suo essere in ogni tempo in cui lo immagino, il termine greco paradeigma esprime l’idea di un modello-esemplare. L’esemplare è la forma-archetipa all’origine della trasfigurazione sterminata che il volume statuario contempla.

Mallaig, Hebrides Islands January 1999. Verticale precipita l’austero splendore delle scogliere, scintillante sotto il cielo riflesso nel mare e lo sfacelo delle onde. Questa è l’ultima missione. L’immensità della indicibile pochezza di un destino umano, la sua fiamma è quanto resta di questi dieci anni. L’orizzonte sposta il margine dello sguardo a un fronte inconosciuto e inconoscibile. «Non ti spaventa?» domanda qualcuno. Non si sceglie. Non ci si può sottrarre. Non posso dire quanto segue. Non posso non dirlo tremando. Non lo dico — here lies.

Ora una folla bendata incede colle membra strette dalle cinghie, sulla lingua di alcuni scorre il filo di una lama, il sangue stilla, cola dalle labbra al collo, nero e rappreso sul petto. Ora la testa mozza di un toro rotola e affonda in un bacino di melma tra le convulsioni del corpo decapitato, tutt’attorno nel fango fluttuano corpi nudi scossi dalla trance. Ora, dalle alture dell’Himalaya alla cordillera Andina, coperti di pelo nel gelo tagliente dell’alba, i pellegrini levano le dita delle mani nude, tese contro il cielo. Ora la condensa mattutina del Gange, trascina una lenta deriva di cenere, fiori e carcasse tra gli atti, i gesti esatti che compongono ogni giorno il saluto al sole. E a ogni contrada del mondo qualcuno ora congiunge i palmi delle mani poi li rivolge al cielo; ora s’inchina, la fronte, le labbra sfiorano la Terra.

A vent’anni ciò che chiama è la memoria cieca di cose mai viste; voglio vedere, voglio guardare tutto ciò che è impossibile da avvicinare. La realtà sommersa di uomini nascosti in comunità chiuse, comunità umane legate da vincoli di fratellanza e codici d’onore. Comunità impenetrabili, poiché il confronto estremo con la vita, come quello con la morte, è solitario e nascosto. Comunità maschili soltanto poiché la donna, che della vita racchiude il mistero, è il primo anello della catena umana.

Humanum è stato presentato per la prima volta al Collège de France di Parigi nel 2018, ospite della Cattedra Europea di Victor Stoichita. Per questo progetto Fiorio ha collaborato con l’Università Ca’ Foscari di Venezia, la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa a cui è affiliata dal 2016 e ha lavorato presso il Museo archeologico nazionale e il Museo dell’Acropoli di Atene; il Museo del Louvre di Parigi; il Museo dell’Iraq di Baghdad; il Kunsthistorisches Museum di Vienna; il Museo archeologico nazionale di Cipro a Nicosia; il Museo Egizio del Cairo; la Reale Commissione di Al-Ula presso il Museo Re Saud di Riyadh, il Museo Giordano di Amman e la collezione Al Thani di Parigi.
[1] H. Bergson, La vie et l’œuvre de Ravaisson, in La Pensée et le Mouvant, Paris, Felix Alcan, 1934, pp. 264-265.
[2] M. Merleau-Ponty, L’Œil et l’Ésprit, Gallimard, Paris, 1964, pp. 12-13; 54 e 56.
In copertina: Testa in quarzite di Regina JE45547 Tell Amarna, Diciottesima dinastia, 1353-1336 AC; Museo Egizio del Cairo, Humanum ® Paradeigma C-2, 2022 GF©