Palpebra di levità. Su un film di Julian Schnabel

Una sottile impiallacciatura di realtà immediate ricopre
la materia, naturale o artificiale, e chiunque voglia restare
nel presente, col presente, sul presente, è pregato
di non rompere la tensione superficiale.

Vladimir Nabokov

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L’inizio di “La farfalla e lo scafandro” (Julian Schnabel, 2007) è esemplare, filigrana di una scelta formale che animerà tutto lo svolgimento del racconto filmico. Un tema drammatico trattato con levità.

Mentre scorrono immagini di radiografie, le parole nel canto “La mer” di Trenet evocano cose leggere, in contrappunto con lo scorrere delle ossa: riflessi d’argento che danzano lungo golfi chiari, riflessi che cambiano sotto la pioggia, lo schiumare dei cavalloni nel mare, una canzone d’amore che ha cullato il cuore durante la vita[1].

In altra maniera, anche la luce di contrasto e il ritmo serrato delle lastre radiografiche paiono animati da leggerezza estatica: anca, colonna vertebrale, cranio, cassa toracica, tibie, bacino, ossa e altre ossa ancora,  tra il bianco e nero a colori, davanti alla luce di risalto dietro le lastre. Il collegamento tra le ossa e la morte è quasi spontaneo. Ma il sottofondo musicale distrae, fa pensare ad altro. Poi arremba un buio assoluto, con la chanson di Trenet che sfuma mixata in un’altra musica, con voci di infermieri in camice bianco sullo sfondo. Le palpebre tentano un risveglio, s’aprono e s’abbassano sullo sguardo in soggettiva. Palpebra rosacea che si schiude, come le rose sul tavolino d’ospedale, in una luce abbagliante.

In principio lo sguardo è sfocato. “Tenga gli occhi aperti, ha dormito tanto tempo” dice l’infermiera. E l’incipit si offre allo sguardo degli spettatori come quintessenza della scelta formale/linguistica. Poi scopriremo che il senso più profondo del film è legato a questa frase. Capire di tenere gli occhi aperti, dopo aver dormito troppo, senza aver colto le cose importanti dell’esistenza. Chi si accorge di non aver veduto è Jean-Do (curiosa è l’assonanza con John Doe, ovvero il nome che viene dato alle persone scomparse in America), un uomo come troppi, della famiglia di chi ha dato per scontate molte cose. Solo dopo aver sfiorato la morte, rimanendo intrappolato nel suo corpo dopo un ictus, vuole fortemente affrontare con tenacia, costanza e auto-ironia il desiderio di lasciarsi andare alla scomparsa. Nominavo prima la leggerezza. Ricordare e immaginare sono due presenze animate da questa levità: “Ho deciso di non compiangermi più; ho appena scoperto che a parte il mio occhio ho altre due cose che non sono paralizzate: la mia immaginazione e la mia memoria”. Dopo queste parole le immagini aprono a una farfalla che esce dal bozzolo e comincia il primo volo. Opporre alla paura della morte questo volo di leggerezza rapida, con i suoi colori, è una conquista vitale per sentire tutte le declinazioni e le sfumature del nostro presente individuale.

Stare in sintonia con ogni esperienza del vivibile, cogliere le occasioni e le possibilità del flusso temporale possono dare un senso all’esperienza del vivere dentro il limite di un tempo a scadenza certa. Nella prima parte, lo svolgimento della narrazione filmica si sviluppa in soggettiva, con la voce fuori campo che ci informa dei pensieri del protagonista non uditi dagli altri personaggi,  le inquadrature poco nitide, non sempre centrate, mentre la seconda si sviluppa in controcampo, con aperture agli esterni, una visuale monoculare, resa unidirezionale dalla malattia. Il volo leggero della farfalla si muove dal soggetto, dapprima superficiale, per dirigersi in direzione della riappropriazione di una vita perduta o sprecata: “Oggi mi sembra che tutta la mia esistenza non sia stata che un susseguirsi di piccoli fallimenti. Le donne che non ho saputo amare, le occasioni che non ho voluto cogliere, gli istanti di felicità che ho lasciato volare via, una corsa di cui conosci il risultato, ma sei incapace di tagliare il traguardo. Ero cieco e sordo, ma mi serviva necessariamente la luce di un’infermità per vedere la mia vera natura”. Crollano i ghiacci di un iceberg nell’oceano, portano blocchi nelle acque profonde. Non franano però in un fragore estremo, cadono mentre aleggiano le note del Concerto per Piano in Fa minore (Largo) di Johann Sebastian Bach. Dentro quell’abisso sta in sospensione l’uomo nello scafandro. Va, verso una realtà che esiste e non esiste al contempo. Il volo è anche un modo ironico in grado di distanziarsi da proclami pro o contro l’eutanasia. Questa leggerezza volitiva ha permesso all’uomo di pubblicare un libro, dettato con il battere di una palpebra. Jean-Do Bauby, prigioniero nella sua piccola tomba, si attacca all’umanità che è in lui, reagisce con l’ironia, facendo proprio un verso poetico che giace nella sua memoria: “Solo i folli ridono / quando non c’è niente da ridere”.

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Come ci si può salvare attraverso ciò che è più fragile? Dove si può attingere leggerezza quando continuamente si sente sul corpo “l’ineluttabile pesantezza del vivere”? Questa nuvola nera, gravosa, viene portata da ogni forma di costrizione. Secondo Kundera, ogni cosa che in un primo momento ci pare leggera (e che scegliamo per questa peculiarità) non tarderà a mostrare il suo peso insostenibile. Una via di salvezza la può trovare solo la mobilità del pensiero e la vivacità dell’intelligenza. Condannato alla pesantezza e alla impossibilità di recuperare la fisicità corporale, Jean-Do è costretto a cambiare il suo approccio con il mondo, a guardare con un’altra ottica e logica, per volare in un altro spazio. L’alimento per la sua visione deve dissolvere ogni pesantezza. Il suo approccio di conoscenza diviene percezione dell’infinitamente sottile, mobile, costituito da corpuscoli inafferrabili. Attraverso la mente evita che il peso della materia lo annulli completamente. Il suo sguardo diventa concreto entro una polverizzazione della realtà. Si sostiene nella sospensione. Dall’interno di uno scafandro. Un “palombaro nell’ombra”, direbbe Paolo Conte.

E la leggerezza corrisponde col tentativo di lasciare una traccia segnica attraverso la scrittura (la dettatura attraverso un nuovo codice legato al movimento della palpebra). Il movimento delle ciglia sposta un mondo di atomi – quello già individuato da Lucrezio nel De rerum natura – e verrà tradotto in un libro. Un libro di fisicità tangibile. Qui la gravità del corpo insensibile mostra la possibilità di un’elevazione. Questo salto è il segreto della leggerezza. Gli impulsi dei neuroni, con i loro messaggi immateriali, divengono immagini, racconto delle sensazioni negate, storia dell’emozione che affiora sulla superficie. Sbattere le ciglia diventa un vettore di informazioni. Gravato dall’esperienza diretta della perdita fisica, Jean-Do si aggrappa alla possibilità del mondo inteso come costituito di atomi senza peso, utilizzando un linguaggio tramutabile in peso.

Un linguaggio che nasce da uno spostamento ultrasottile e che può trasformarsi in qualcosa dotato di concretezza, col peso delle sensazioni. Immagini/parole/significati che si staccano dalla gravità come fossero rapide scariche. Jean-Do attinge dal repertorio della tradizione legata alla trasformazione da pesante a leggero: si affida al Rinascimento shakespeariano, “a quella speciale modulazione lirica ed esistenziale che permette di contemplare il proprio dramma come dal di fuori e dissolverlo in malinconia e ironia.  […]  Come la melanconia è la tristezza diventata leggera, così lo humour è il comico che ha perso pesantezza corporea (quella dimensione della carnalità umana che fa grandi Boccaccio e Rabelais) e mette in dubbio l’io e il mondo e tutta la rete di relazioni che li costituiscono”[2]. Si ricorda dello spirito presente in Cyrano de Bergerac per sottrarsi alla forza di gravità. Vive il passaggio dalla privazione sofferta alla levitazione desiderata. Questo è un buon volo della farfalla, che nella lingua greca suona “psiche”:  una possibilità di leggerezza estatica per il volo dell’anima.

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A un certo punto deve decidere. Decidere se lasciare spazio all’istinto di sopravvivenza o se negarlo. E tutto può avvenire in una frazione di secondo, per induzione chimica interiore o per amore nei confronti di altre persone. Può accadere in modo naturale o come espressione della volontà di vivere. Si apre alla rapidità. Jean-Do decide di non compiangersi, e, come ho già detto sopra, impara a spostare le cose del mondo e le persone utilizzando l’immaginazione e la memoria, come fossero una farfalla che lo fa volare altrove, lontano da una stanza asettica.

Al risveglio dal coma, Jean-Do si ritrova nell’ospedale marittimo di Berck-sur-mer, dove apprende che è affetto dalla rara sindrome “Locked-in”. Lo shock iniziale è devastante. La voglia di lasciar scivolare il suo corpo paralizzato verso la deriva è forte: “Ma è questa la vita?”. La nuova condizione, però, gli permetterà di riscattarsi. Col tempo. Tanto è stato superficiale quando era sano, tanto giungerà a una profondità spirituale nella malattia.

Entra a mano a mano in un tempo narrativo, a volte immobile a volte ciclico: “Credeva in infinite serie di tempi, in una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli. Questa trama di tempi che si avvicinano, si biforcano, si intersecano o si ignorano per secoli, abbraccia tutte le possibilità. Nella maggioranza di quei tempi non esistiamo; in alcuni esiste lei e io no; in altri io, e non lei; in altri, tutti e due”[3]. Sente di impersonare Noirtier de Villefort, l’uomo sulla sedia a rotelle nel capitolo 59 de’ Il Conte di Montecristo, un cadavere dallo sguardo vivo. La sensazione di fatalità non lo abbandona mai. Il vento sommuove le tende irrorate dalla luce alla finestra. Qualcuno ha portato delle rose. Tic tac, tic tac. Il profumo è lì accanto, sul tavolino, ma le narici non possono sentirlo. Con l’aiuto della ortofonista Henriette Durand impara un alfabeto adatto alla sua nuova condizione. La riorganizzazione di un nuovo codice si fonda sull’anteporre le lettere più frequentemente usate rispetto alle altre. Avviene un lentissimo gioco combinatorio. In seguito mette in moto un’operazione sulla contrazione e dilatazione del tempo narrativo. Il battito di ciglia dell’occhio sinistro è l’unico movimento che gli è consentito, e con questo medium comunica all’assistente, con fatica, lettera per lettera, il volo del suo racconto.

Che cosa si inframmezza tra l’inconsistenza e la tangibilità? Che rapporto intercorre fra lentezza fisica e velocità mentale? La tenacia vincerà il limite della paralisi, scardinerà la soglia del tempo fisico da quello mentale. A forza di movimenti di palpebra: “Un batter d’occhio, un pensiero, un’ala d’angelo: che cosa era abbastanza veloce per inserirsi nello spazio fra la domanda e la risposta, separando l’una dall’altra?”[4]. Il prodotto finale, il libro che verrà pubblicato, sfonda un altro confine. Permette, dopo la possibilità combinatoria dell’alfabeto (intesa da Lucrezio come “impalpabile struttura atomica della materia”), che persone lontane nel tempo e nello spazio riescano a comunicare. Possiamo considerare la dettatura/volo di Jean-Do una pratica cara alla letteratura, la divagazione, ovvero una strategia per rinviare continuamente la conclusione (della sua vita), una fuga reiterata dalla morte. Che giungerà, inevitabilmente. Jean-Do sente di avere lo stesso orecchio delle farfalle. Reagisce e inizia a dettare il suo libro: “Dietro la tenda di tela tarmata un chiarore lattiginoso annuncia l’approssimarsi dell’alba. Ho male ai calcagni, la testa come un’incudine e una sorta di scafandro che mi serra tutto il corpo. Il mio lavoro consiste ora nel redigere il diario del viaggio immobile di un naufrago arenato sulle rive della solitudine”.


[1] La mer/ qu’on voit danser /le long des golfes clairs / a des reflets d’argent./La mer/ des reflets changeants/ sous la pluie./La mer/ au ciel d’eté confond/ ses blancs moutons /avec les anges si purs./ La mer bergere d’azur infinie/ Voyez pres des etangs / ces grands roseaux mouilles./ Voyez ces oiseaux blancs/ et ces maisons rouillees./ La mer/ les a berces/ Le long des golfes clairs / Et d’une chanson d’amour./ La mer / A berce mon coeur pour la vie./

(Il mare/ che vediamo danzare/ lungo i chiari golfi/ ha riflessi d’argento./ Il mare/ cambia riflessi/ sotto la pioggia./ Il mare/ nel cielo d’estate confonde/ le sue pecore bianche/ con gli angeli così puri. / Il mare è una pastorella di azzurro infinito. / Vedi vicino agli stagni / queste grandi canne bagnate. / Vedi questi uccelli bianchi / e queste case arrugginite. / Il mare le ha cullate / lungo i chiari golfi / e con una canzone d’amore. / Il mare / ha cullato il mio cuore per la vita. /)

[2] Italo Calvino, Lezioni americane, 1993, p. 25.

[3] Jorge Luis Borges, Il giardino dai sentieri che si biforcano, in “Finzioni”, Milano 2003, p. 88.

[4] Thomas De Quincey, The English Mail-Coach, 1849.

è critico d’arte, curatore e saggista. Dirige il museo temporaneo BACO (Base Arte Contemporanea Odierna), a Bergamo, dal 2011. Suoi saggi e testi critici sono apparsi in varie pubblicazioni edite, tra le altre, da Giunti, Silvana Editoriale, Electa, Mousse, CURA, Skinnerboox, Moretti & Vitali e Corriere della Sera. Scrive per Art e Dossier, Doppiozero e Atpdiary.

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