Ricordando Baruchello
Con Gianfranco Baruchello scompare una figura straordinaria, un artista al tempo stesso geniale e gentile, profondo e delicato, serio e ironico, generoso e riservato Nella sua lunghissima carriera è stato sempre, in qualche modo “oltre” rispetto al tempo e allo spazio in cui viveva, ai movimenti culturali, alle nazionalità. Parlava l’italiano senza accento di chi usa abitualmente più lingue.
Ho condiviso con lui e con Carla Subrizi la sua mostra antologica, che è stata allestita alla Galleria nazionale d’arte moderna fra il 2011 e il 2012 con la cura di Achille Bonito Oliva. Achille sosteneva che una personale di Baruchello fosse necessaria oltre che doverosa e, siccome lo pensavo anche io, la organizzammo in fretta anche se il momento era molto complicato perché stavamo riallestendo il museo per i 150 anni dell’Unità d’Italia. È stato un grande dono lavorare con Baruch e il catalogo sul quale Carla ha passato le notti è forse il più bello che sia uscito dalla GNAM negli anni della mia soprintendenza. Vorrei citare l’introduzione che scrissi per quel volume dal titolo Baruchello. Certe idee:
Il sottotitolo di questa mostra gioca con i due sensi del termine «certo», che ricorre nei testi e nei titoli di Baruchello in relazione al suo opposto, l’incerto. Certe idee o idee certe? Spostando l’aggettivo si passa dalla modestia alla presunzione, dall’avere alcune idee all’averle sicure e definitive. Posto davanti al sostantivo, il certo diventa incerto ed è questo il versante sul quale si muove Baruchello. «Per me – scriveva – la strada (non ne conosco la lunghezza) ha due lati (non ne conosco la larghezza); uno dei due lati è invalicabile e rappresenta la certezza dell’impossibilità, l’altro lato è gestito dal CASO e rappresenta invece l’incertezza del possibile. Questa incertezza consente però di produrre immagini e azzardare ipotesi».
Per Baruchello il colore dell’incerto è il bianco, che diventa così il campo dei suoi quadri. Qui si depositano sequenze di segni-immagini che in molti hanno provato a definire. Fra tutte, sceglierei forse le parole di Paolo Fabbri: «le formule di Baruchello sono “ambigrammi”, per l’ingegnosità grafica con cui stanno al limite dei codici linguistico e visivo». Ambiguo è anche il senso, inteso sia come significato sia come direzione: si può modificare ogni volta la chiave di lettura invertendo ogni volta il percorso. Disegni, parole, collage di immagini preesistenti, simboli, segnali si susseguono in modo arbitrario e le loro dimensioni si riducono fino a raggiungere quelle che avrebbero se fossero visti da molto lontano. Invece, devono essere guardati da molto vicino e molto a lungo: almeno un’ora, stando a Marcel Duchamp, che Baruchello aveva eletto a maestro. Quadri, dunque, che possono durare quanto un film e infatti per Baruchello non c’è differenza gerarchica fra un medium e l’altro, non solo nel momento della percezione ma anche in quello della creazione. «La matita, la penna, la moviola, la cinepresa, i registratori – scriveva – mi hanno insegnato a MONTARE le parole, le immagini, gli oggetti della mia stessa esistenza».
La miniaturizzazione degli oggetti e delle immagini è un processo che oggi, nell’età delle nano-tecnologie, pare non solo ovvio ma anche inarrestabile, ma i codici pitto-alfa-numerici di Baruchello sono stati concepiti quando nessuno poteva prevedere che sugli schermi sempre più piccoli dei computer i comandi sarebbero diventati icone. Per altri versi, quegli «ambigrammi» linguistici e visivi sembrano rispondere, almeno indirettamente, alla vexata quaestio semiotica se le immagini siano o no segni. Non è certo che lo siano, dunque, nella logica di Baruchello, è possibile.
Il territorio del possibile – che, come dichiara il titolo di un’opera, Baruchello chiama anche L’Altopiano dell’incerto – si trova fra caso e necessità, arbitrio e regola, disordine e ordine. Baruchello occupa questo spazio prevalentemente attraverso la modalità della raccolta, che può essere completamente destrutturata, come l’accumulo in una scatola di ciò che resta sul tavolo da lavoro alla fine del giorno, organizzata in modo funzionale, come un kit di sopravvivenza, o concepita come una collezione, materiale o immateriale, assumendo di volta in volta quale riferimento il museo, l’archivio, la biblioteca, il giardino, l’enciclopedia.
Si pensi a un quadro-enciclopedia quale quello della Galleria nazionale d’arte moderna che s’intitola come un volume dell’American Enciclopedy, identificato dalla voce iniziale e finale: Louis Philippe to Miocene. Anche il più famoso dei suoi film, che si chiama non a caso Verifica incerta, è una raccolta, essendo composto dagli spezzoni di quasi cinquanta pellicole hollywoodiane. E si potrebbero ricercare i nessi fra coltivare e raccogliere nella sua “opera rurale”, l’Agricola Cornelia. Per questa strada Baruchello si trova anche ad affrontare il problema del denaro, del valore d’uso, dello scambio, negli anni in cui uno dei molti scrittori che di lui si occupano e dei quali lui si è occupato, Pierre Klossowski, pubblica La moneta vivente, libro nel quale s’immagina una condizione dell’essere umano che va oltre la mercificazione della schiavitù per giungere all’identificazione con il denaro. L’affinità maggiore è forse con l’economia dei beni simbolici di Pierre Bourdieu, concepita come alternativa a quella capitalistica e anch’essa fondata sull’estetica.
L’incerto, inoltre, è anche l’instabile, il provvisorio. Tali sono le case di Baruchello destinate a non durare: quella in fil di ferro con le pareti di giornali da bruciare o quella di canna e veli che può essere spazzata via da un soffio di vento. Anche l’uso ricorrente della carta, il materiale più lieve e fragile, ma anche quello di cui sono fatti gli inventari, i cataloghi, le liste, le mappe, attesta che siamo nel territorio dell’incerto. Baruchello ha scelto dunque di navigare “in solitario”, come egli stesso afferma, nel mare magnum del possibile e riesce a cavalcare l’onda perché, come ha scritto Alain Jouffroy, «l’incertezza, la meravigliosa incertezza, diventa onnipotente soltanto sotto il duplice regno dell’intelligenza e dell’ironia».
Baruch aveva 86 anni quando organizzammo quella mostra e ha continuato a lavorare a pieno ritmo per più di dieci. È morto a 98 anni da uomo grande e da grande uomo.
M.V.M.C.
Conoscere è confondere
Fra i tanti libri realizzati da Baruchello, per non dire che li abbia «scritti», non c’è un’autobiografia. Il che, in uno come lui, non stupisce. Ma a fare da sigillo, se non della vita certo dell’opera, è la sua Psicoenciclopedia, che oltretutto – avverte l’interessato – è solo possibile. Un’autobiografia di tutto, o di tutti magari – per dirla con Gertrude Stein.
E così oggi – come in tanti, credo, dopo la notizia dell’altro giorno – l’ho aperta in cerca di risposte. Da un po’ di tempo a volte mi capita di farlo, squadernandola random un po’ alla maniera dell’I-Ching. Con la metodicità un po’ burocratica cui mi lascio andare nei momenti di debolezza, invece, stavolta sono andato subito alla voce MORTE. Ma quella, coi détours così tipici di Baruchello, e in particolare di questo Baruchello par excellence, mi ha subito rimandato a un’altra, meno ovvia: AGIRE-DA-MORTO. «Cosa non allegra», si specifica subito. Per aggiungere però: «può voler dire due cose. Una è quella che intendeva Manganelli, quando una sera diceva: “la tua opera funzionerà dopo la tua morte”. Un’altra, più seducente: agire come se si fosse già morti».
In effetti un po’ suona strano pensare che possa funzionare un’opera come quella di Baruchello, che per tutta la vita non ha smesso di produrre oggetti disfunzionali, se non veri dispositivi di sabotaggio. Capisco quanto potesse sedurlo, invece, il pensiero di agire come se si fosse già morti.
Stamattina un’amica scrittrice, che come me si avventurò alla «Cornelia» più di vent’anni fa, nell’effervescenza di quegli incontri con poeti, filosofi e studiosi di tutte le discipline che Baruchello instancabile promuoveva (personalmente, non poté che portarmici Nanni Balestrini), mi ha scritto che lì sembrava di stare su Marte. Non tanto per la distanza fisica del luogo – ragguardevole, in epoca pre-gps – dalle coordinate più prevedibili della cultura capitolina. Ma perché, a quel fervore che si produceva in suo nome, Baruchello assisteva con la benevolenza distante di un extraterrestre passato lì per caso. Il suo era lo sguardo dell’altro: nel senso del je est un autre che meglio di tutti ha codificato colui che lo aveva «parabattezzato» – per dirla col condiscepolo Emilio Villa – nell’anno di grazia 1962. È stato Duchamp, certo, a voler scritto sulla sua tomba, a Rouen, «D’ailleurs, ce sont toujours les autres qui meurent» (variante mirabile dell’epitaffio scritto da Gérard de Nerval, buoni quindici anni prima di Rimbaud, in calce al proprio fotoritratto funebre: «Je suis l’autre»).
Duchamp, si sa, non ha insegnato tanto uno stile, una tecnica; neppure ha trasmesso un repertorio di temi. Piuttosto ha suggerito un modo di essere alternativo. Essere altri rispetto agli altri, appunto. Con l’«Agricola Cornelia» Baruchello ha fatto lo stesso, anche se in modo altro, diverso da lui (una volta ha ricordato che Duchamp «odiava la natura» ma questo non gli importava, perché lui resta sempre quello «che dà l’autorizzazione»). Lì Baruchello s’è inventato un modo di essere-terra, essere-natura, essere-tutto. Un suo titolo che mi sta molto a cuore (ma anche a Carla Subrizi, che lo ha fatto suo per introdurre alla Psicoenciclopedia, proprio) lo ha preso da Paul Valéry: «Conoscere è confondere». A Cornelia ha cominciato a confondere sé stesso con la materia dell’universo, cioè con tutti noi. Solo oggi mi sono reso conto che il nomignolo con cui si faceva chiamare dagli amici veri (mai mi sono permesso questa confidenza), «Baruch», è lo stesso di Spinoza. In questo senso aveva ragione il Manga; un simile modo di essere può funzionare davvero solo dopo la morte individuale, soggettiva, banalmente anagrafica: di chi lo abbia abbracciato.
Nella Psicoenciclopedia manca una voce NASCITA. Ma l’altro giorno finalmente, dopo quasi un secolo di gestazione, Baruchello è venuto al mondo.
A.C.
D’altronde
Ieri ho ritrovato, dentro un catalogo, queste tre paginette dattiloscritte, che in passato ho ampiamente sottolineato. Vorrei leggerne qualche riga.
Da Una settantina di idee, 1963-1970, di Gianfranco Baruchello:
Film tristissimo
Un film TRISTISSIMO; la moderna valle dei re e i suoi sepolcri. Scatolame per l’oltretomba. Sepoltura con scatolame. Le tombe, la tomba di famiglia. Antologia dell’onoranza funebre, dell’obitorio, dell’autoptico ecc. Un film che «più triste di così si muore…»
È una storia speciale, un po’ segreta, quella che unisce, come un filo, gli artisti di diverse generazioni. È una storia fatta di passione ma anche di nonchalance, di narcisismo e di dedizione, di ironia, di invidia, a volte, e di momenti di grande, disinteressata, sorprendente generosità. È il desiderio, il piacere, di essere parte di una linea di continuità, che consente a un artista qualsiasi, come me a vent’anni (quando ho incontrato Gianfranco Baruchello), di essere a un solo grado di separazione dalla leggenda. Nella fattispecie, per esempio, da Duchamp.
La linea è quella della libertà di pensiero, la testimonianza, attraverso il tempo, del fatto che si possono pensare cose impensabili, non soltanto cose che uno non sapeva, ma proprio che non avrebbe immaginato mai – prima che accadesse – di poter pensare.
Baruchello è stato il primo artista che ho conosciuto; ce ne sono stati altri che forse hanno contribuito alla mia formazione ancor più di lui, ma lui è stato il primo. Era il 1976 e non sapevo assolutamente nulla di arte contemporanea. Andai alla «Cornelia» a intervistarlo per una radio libera di Roma, dopo aver visto il suo nome sul catalogo della Biennale di Venezia e aver trovato il suo numero sull’elenco telefonico. Fu disponibile e gentile anche se a tratti un po’ tagliente rispetto alla mia sprovvedutezza. Alla fine della conversazione, tornando verso Roma con la mia 127, pensavo tra me: «Ma che cosa mi ha detto? Di cosa parlava?». Non avevo capito niente ma, forse per la prima volta, avevo intuito che c’era un mondo, un modo di pensare, e forse delle forme-di-vita, in fondo non così lontane, probabilmente alla mia portata ma che, a me, erano del tutto ignote.
Non c’avevo capito niente, ma quella conversazione non l’ho mai dimenticata. Molti anni dopo, nei primi anni duemila, grazie alle attività della «Cornelia» che, a quel punto, era diventata Fondazione, fui invitato da Carla Subrizi e Gianfranco a condurre dei laboratori con gruppi di studenti della Sapienza, ed è stato un altro periodo per me memorabile: la sensazione, di nuovo, di essere parte di quella stessa linea di continuità, ma stavolta contribuendo a un passaggio verso un’altra generazione. Uno di quei laboratori era previsto che durasse una settimana: in effetti lavorammo assieme, con quel gruppo di giovani, per un anno. Oggi quegli studenti sono direttori di museo, editori, cattedratici in prestigiose università, curatori di fondazioni, artisti affermati, direttori di grandi gallerie internazionali, e la sensazione di avere contribuito a ciò è per me un prezioso motivo di soddisfazione per il quale sono molto grato alla Fondazione Baruchello.
Per concludere voglio leggervi un altro “progetto” da Una settantina di idee:
Cerimonia di inaugurazione al dipartimento toponomastica. La strada viene intitolata a un defunto qualsiasi che “abitò lì” o nei pressi. Si progetta di intitolare vie, piazze, vicoli e piazzali a verbi, aggettivi e avverbi.
In omaggio a questa idea geniale, letteralmente spiazzante e molto baruchelliana, propongo che il Comune di Roma gli dedichi una piazza ma che, invece di chiamarla «Piazza Gianfranco Baruchello», come sarebbe normale, la chiami «Piazza d’altronde» oppure – poiché forse a lui piacerebbe ancora di più – «Piazza d’ailleurs».
C.P.