Due secoli fa fu Hegel a decretare la fine dell’arte. L’intelligenza umana (Geist), sempre più sofisticata e astratta, non riuscirebbe più secondo l’Estetica hegeliana (tramandata soltanto attraverso gli appunti degli studenti) ad assumere la forma sensibile e concreta che caratterizza l’opera d’arte. Tale situazione aporetica dell’arte classica porterebbe, in ultima conseguenza, al trionfo della filosofia (che sostituisce l’arte), nonché all’emancipazione dell’arte stessa, finalmente libera dal diktat del concetto. Anche l’idea di “postmoderno” implica la fine: esaurite tutte le negazioni possibili, sviluppati, catalogati e archiviati tutti gli “-ismi”, a noi, nati troppo tardi, non resta altro che vivere in un infelice “dopo” epigonale.
Invece di proporre l’ennesima riflessione sulla qualità del “post” che segue il postmoderno (o si trova al suo interno), vorremmo soffermarci su un fenomeno che si iscrive nella logica del creare dopo la “fine dell’arte”. Se si consulta il sito di Olafur Eliasson, estremamente curato e ben strutturato, esso appare da subito come una vetrina commerciale, soltanto che qui non sono presentate scarpe, calze o occhiali, ma opere d’arte. Similmente allo spazio della réclame, che non ama il vuoto, tutto è ben riempito come in un negozio elegante, dove ogni scaffale è sempre colmo. Colori, forme, idee si susseguono a partire dal 2022, e a ritroso nel passato. Durante l’escursione digitale diacronica, una parte delle opere è esposta in posa frontale come tale, mentre altre, ubicate in spazi espositivi, integrano la prospettiva dello spettatore. Il messaggio è chiaro: l’artista produce senza sosta e piace, visto i “contatti” con visitatori estasiati.
Ora, uno dei tratti maggiori dell’arte di Eliasson sta proprio nella ripetizione non-ironica (poiché troppo solenne), nella citazione (e nell’auto-citazione) infinita, nell’appropriazione incessante. Ciò forma un insieme che deve meno all’arte della citazione (all’origine di gran parte dell’arte tout court), che alla possibilità di mescolare tutto in una specie di grande rimessa personale, “personale” per così dire.
Come Bernd e Hilla Becher e i fotografi della scuola di Düsseldorf, anche Eliasson elabora delle serie quasi documentarie (The glacier melt series, 2019). Come il Walter de Maria della Earth Art degli anni Settanta, Eliasson inonda gli spazi espositivi con terra o lava (Lava Floor, 2017).


The Round Corner (2018) riprende palesemente Door, 11, rue Larray, di Duchamp, mentre numerose opere alludono ai celebri Rotoreliefs dell’inventore dei readymade.


Eliasson è vicinissimo allo stile di Robert Smithson o Dennis Oppenheim, per esempio dove crea delle opere protocollari o meta-cartografiche (Emerging Hvammsfjördr, 2012). In altri casi, si direbbe che citi alla lettera i Ganzfelder di James Turrell (Din blinde passsager, 2010, Your blind movement, 2010).


James Turrell, Breathing Light
Fog Assembly (2016) e altri lavori all’insegna della nebbia riprendono un celebre progetto di Diller-Scofidio, mentre un’altra serie, basata su elementi lignei, ricorda in modo fin troppo ovvio l’Arte povera…


2002
Questo fenomeno – pur non essendo mai un vero e proprio plagio, però vi si avvicina – è dovuto forse al fatto che Olafur Eliasson non sia più un artista nel senso tradizionale del termine. E non solo per la perdita dell’aura e dell’originalità analizzate da Benjamin, ma in un senso più profondo. Il nome “Eliasson” sta ormai, in verità, per uno “studio”, per una mega-officina, che lavora esclusivamente e in modo molto professionale per l’artista stesso. Eliasson è diventato un brand, che viene celebrato, venduto e collezionato in quanto tale. Senza conoscere i segreti della fabbricazione delle “sue” opere, possiamo facilmente immaginare una fucina ipertecnologica, dove una squadra ben organizzata segue l’iter di un progetto esattamente come in uno studio di architettura. Con un piccolo “distretto Eliasson”, costituito da persone altamente qualificate, che fabbricano i prodotti recanti il suo nome.


“E allora?”, si obietterà. Direi che il problema non è di ordine morale, ma estetico: le opere di Eliasson – l’autore stesso non è originale neanche in questo, poiché condivide tale caratteristica con altre artestar – non appartengono più alla sfera disinteressata dell’arte, ma a quella della gestione di un “piacere” di origine commerciale. Esposti come le ultime scarpe griffate di Balenciaga, gli oggetti nel catalogo illustrato digitale sono mere merci. Il fenomeno esprime, certo, una verità: oggi l’arte la si trova dove la si compra, nel negozio virtuale. La potente macchina di produzione – artistica, post-artistica, o non-artistica? – azionata da Eliasson & co. ha rimpiazzato in questo modo quegli intermediari (trattati da sempre con un po’ di diffidenza) che stavano fino al recente passato tra l’artista e i clienti, cioè i galleristi. Questi ultimi, i veri e propri lubrificatori del tradizionale mercato dell’arte, scompaiono o confluiscono in una forma digitale dall’identità incerta.
L’arte si incontra su un “sito” che è un blog, una galleria virtuale, una casa d’aste e una chat room. Con artisti come Eliasson, il sistema dell’arte, che era pur sempre, malgrado tutti i suoi difetti, un sistema polifonico, è cambiato radicalmente. Mentre il campo artistico, ben descritto da Pierre Bourdieu, acquistava la sua dinamicità grazie al gioco di voci distinte – l’artista, il critico, il gallerista, il cliente, il direttore di centri d’arte o musei, gli architetti d’interno, i designer, ecc. – un Überartista come Eliasson sembra controllare il gioco in modo autocratico.
Gestendo la produzione, la diffusione e la ricezione delle proprie opere, Eliasson pare incarnare il sogno romantico dell’autonomia assoluta dell’artista. Il paradosso preoccupante sta però, come detto, nel fatto che questo tipo di demiurgo auto-generatosi e auto-presentatosi, crei in fin dei conti opere in gran parte non-originali. Assorbendo gesti, forme e espressioni dei colleghi del passato, l’artista camaleontico si espone a un pericolo maggiore: visto che tutto o quasi nel catalogo dei suoi lavori possiede la qualità del “déjà-vu”, niente all’interno di tale repertorio sorprende o disturba veramente. Laddove i protagonisti del moderno provocavano creando delle situazioni spesso scandalose (Duchamp docet!), un artista come Eliasson appare più come un mastro-decoratore. Anche una sua finta cascata, ubicata nel contesto urbano o nel parco di Versailles, diventa in questo modo un enorme gadget, integrato nella città che compete con altre città per esibire il design più trendy.

E anche nel caso di un’istallazione effimera di ghiaccio (Ice Watch, 2018), che rimanda potenzialmente al discorso sui drammatici cambiamenti climatici odierni, il tutto assume la forma ornamentale di un gesto artistico scollegato dal mondo e pensato per finire, ancora una volta, nella vetrina digitale.

Il sito, perfettamente gestito, funge già da archivio definitivo dell’opera completa. Integrando in modo esaustivo la sua produzione, mettendola in luce, il sito-catalogo identifica l’opera come un qualcosa di già avvenuto, collocato e repertoriato, e quindi, non più attuale. È forse questa finta eternità digitale che dà fastidio a chi percorre il sito, anno dopo anno, dal 2022 e indietro nel tempo? L’impressione generale è comunque che, alla fine dei conti, Eliasson stesso sia stato assorbito dal proprio sito. Il soggetto-artista assoluto è reificato, è diventato una semplice merce da esibire.
In copertina: Oliafur Eliasson, The Weather Project, 2003, Tate Modern, London