Elisabetta Benassi, il muro del destino

Finalmente ha trovato la sua sede definitiva uno dei lavori più forti dell’ultimo decennio dell’arte italiana, EMPIRE di Elisabetta Benassi: presentato in anteprima all’Istituto italiano di cultura di Londra nell’aprile del ’19 e visto poi, l’estate seguente, alla sede del Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps. Dal 20 dicembre è collocato in forma permanente nella sede più segreta e affascinante del Museo, la Crypta Balbi di Via delle Botteghe Oscure, insieme all’altra opera vincitrice dell’Italian Council 2018, La notte all’indietro pesa di Diego Perrone (visite prenotabili mn-rm.eventi@cultura.gov.it).

Per l’occasione è uscito da Treccani il catalogo di EMPIRE, coi saggi di Stefano Chiodi e Gurminder K. Bhambra; e ripropongo qui il pezzo che scrissi allora e uscì in forma ridotta, il 21 luglio 2019, su «Alias» del «manifesto». Ho scelto di non modificarlo, sebbene l’opera nella nuova “forma” risulti molto cambiata, rispetto a quella che descrivevo allora. Ora non consta più di quattro insiemi separati ma di un unico, grande blocco che è ben più difficile apprezzare dall’alto, per la sistemazione frattale del sito, ma che vi si colloca in modo più coerente in quanto – scrive in catalogo il direttore del Museo, Stéphane Verger – aggiunge «un nuovo muro nell’isolato della Crypta Balbi» («il suo percorso decisamente labirintico, ma privo di ogni chiara funzione strutturale, il suo aspetto bruto, come rimasto in fase di cantiere, lo rendono partecipe di un luogo dove le diverse fasi di costruzione, di rimaneggiamento e di distruzione hanno creato un paesaggio urbano caotico, incomprensibile e alquanto affascinante»). La sua «stranezza meccanomorfa», il suo «aspetto sottilmente minaccioso», scrive Chiodi, fanno sì che la sua destinazione in «un buio ipogeo della estinta Roma imperiale» sia «un gesto troppo esplicito, sfacciato persino, per poter essere liquidato con i tipici argomenti ecumenico-consolatori utilizzati per i lavori contemporanei che in qualche modo fanno riferimento all’antico». Insomma EMPIRE, ora, fa davvero paura: ed è giusto così.

Come vedrà chi vorrà leggere il pezzo, davo allora per imminente lo spostamento dell’opera nella Crypta, che invece si è compiuto dopo un’attesa di anni. Intralci burocratici, e concomitanti lavori di restauro nella struttura, hanno reso più “pesante” che mai un lasso di tempo che, con la sua cupa densità, ci pare oggi ben più lungo dei tre anni abbondanti che da allora sono passati. Come volevasi dimostrare.

Andrea Cortellessa

Una barca di legno è qualcosa di solido, rigido, pesante. Ci si chiede – guardandone una spiaggiata a riva – come quel peso possa galleggiare in mare. Nel lavoro dell’artista, però, la stessa barca mostra la sua fragilità, relativa ma evidente. Ci si chiede stavolta come quella materia, che d’improvviso rivela la sua peribilità di matrice organica, possa resistere agli urti e alle intemperie che tutti i giorni deve affrontare. L’artista infatti la fa attraversare longitudinalmente da un muro di mattoni, del suo scafo ben più solidi e pesanti: il titolo è Muro d’Europa, l’opera è esposta alla Fondazione De Appel di Amsterdam, l’artista è Fabio Mauri. Non è infatti un lavoro del nostro tempo – quando il primo cattivista da strapazzo lo taccerebbe di retorica ricattatoria e sensazionalismo emotivo – ma del 1979. E allude non ai muri d’acqua, di cui si va circondando oggi l’Europa, ma a quello di cemento che allora la divideva da parte a parte, appunto, passando per Berlino. Una diversa versione del lavoro, ma col medesimo titolo, Mauri realizza lo stesso anno ad Ancona: stavolta il muro attraversa un’automobile.

Queste icone del movimento, la barca e l’automobile, che assecondano la testarda quanto sacrosanta tendenza dell’essere umano a spostarsi dove meglio gli aggradi, sono spesso presenti anche nel lavoro di Elisabetta Benassi. L’automobile in particolare, per lei legata all’icona persecutoria di Pier Paolo Pasolini, è una presenza ossessiva. Alla sua ultima personale romana, Letargo di due anni e mezzo fa, una vecchia Ford Escort se ne stava appoggiata al muro esterno della galleria Magazzino, come un residuato fuorimoda parcheggiato lì per caso; poi però ci si avvicinava e si vedevano, deposti – ma in realtà solidamente fissati – su uno strato di terriccio nel bagagliaio, due gusci di tartaruga di bronzo rivestiti in gesso (come altre forme di quella mostra, ambiguamente sospese tra organico e inorganico, fra movimento e stasi, vita e morte: fissate in ostinata postura d’attesa). Barca e automobile si sono incontrate in uno stesso lavoro, già visto alla Fondazione Merz di Torino nel 2013 e ora collocato davanti all’ingresso del MAXXI di Roma. Mareo Merz è un vero, imponente peschereccio di dieci metri che ha “pescato” l’ultima auto appartenuta a Merz: il cui peso immobile è sospeso nella sua rete. Anche quella di Letargo è una macchina “d’autore”, donata a Elisabetta da Francesco Clemente: come se questi mezzi di trasporto fossero, per l’artista di oggi, anzitutto macchine del tempo capaci di collegarla alla tradizione cui appartiene.

Perché appunto è la presenza, il peso materiale e spesso insostenibile del passato, il tema che da parte a parte attraversa lei, Benassi: e, con lei, noi che la seguiamo. Passato e presente s’intitola un altro lavoro, all’Enciclopedia Italiana due anni fa: il libro omonimo di Antonio Gramsci, in una disadorna quanto solida edizione “da battaglia” anni Settanta, fissato al muro da un lungo e massiccio, vecchio chiodo in ferro battuto. Qualcuno evocò l’immaginario cristologico del fil-testamento di Ermanno Olmi, Cento chiodi (nel quale un professore di religione, in fuga da una cultura avvertita come vacua e asfissiante, crocifiggeva i suoi libri); ma con la sua assertività icastica a me fa venire in mente piuttosto Martin Lutero che nel 1517, come vuole la tradizione, “pasolinianamente” affigge a martellate le sue Tesi contro lo smercio delle indulgenze alla porta della chiesa del castello di Wittenberg. Il senso comunque è chiaro: checché dica la doxa nel nostro presente sedicente post-ideologico, leggero e “liquido”, le istanze e le aporie di un passato invece quanto mai solido, pesantissimo ma inaffondabile, prima o poi riemergeranno: e ci inchioderanno alle nostre responsabilità.

Negli ultimi tempi questa dialettica ha trovato un materiale d’elezione. Alla personale del 2017 alla collezione Maramotti di Reggio Emilia, It Starts with the Firing, spiccavano due lavori: Shadow Work è un muro attraversato da parte a parte da una distesa di tappeti orientali, capovolgimento e attualizzazione del Muro di Mauri; Zeitnot una struttura di cinquemila mattoni, dallo schema in apparenza casuale, che invita il visitatore a percorrere anditi e rientranze del suo perimetro frattale.

Diversi altri lavori, a Reggio Emilia, ricordavano una polemica che nel 1972 fece scalpore a Londra: quando la Tate Gallery acquistò un’opera del maestro del minimalismo Carl Andre, Equivalent VIII, e venne accusata di aver dilapidato un mucchio di sterline per accaparrarsi un anodino mucchio di mattoni. Perché questo in effetti esponeva Andre, e questo torna a esporre Benassi: mattoni.

Al Padiglione Italia della Biennale di Venezia del 2013, curato da Bartolomeo Pietromarchi, Elisabetta aveva dato un titolo eliotiano, The Dry Salvages, a un’impressionante distesa di diecimila “mattoni” grezzamente ricavati dai sedimenti remoti dell’alluvione nel Polesine, nel 1951, sui quali erano impressi nomi e codici alfanumerici dei detriti spaziali orbitanti – molti ormai da decenni – attorno al nostro pianeta. Ancora una volta passato e presente, anzi passato e futuro: un futuro che è ormai però, nella nostra età malinconicamente post-spaziale (che proprio per questo consuma voluttuosa, in questi giorni, i memorabilia dei tempi epici dell’Apollo 11…), a sua volta passato.

Presente, ora. EMPIRE ha per titolo l’opera di Elisabetta Benassi che si è aggiudicata il bando 2018 dell’Italian Council del MIBACT, è stata esposta nel cortile del Museo Nazionale Romano a Palazzo Altemps, e trova ora (dal 14 novembre) la sua sede definitiva, nel medesimo museo ma alla Crypta Balbi. Su seimila mattoni in terracotta – appositamente realizzati da una fornace del Gloucestershire, da crete di colore viola-nero – è impressa in rilievo, a lettere tutte maiuscole, il titolo dell’opera; due mattoni-specimen sono invece forgiati in una lega di bronzo e oro. A differenza di quelli di Venezia, forma e superfici di ciascun elemento sono quelle, regolari e parallelepipede, dei normali mattoni da costruzione; a differenza di quelli di Reggio Emilia, sono disposti in quattro ordinate cataste, alte un paio di metri e dalle forme a loro volta geometriche, seppure sempre “aperte” ai percorsi dei visitatori. L’opera va guardata dall’alto, per apprezzarne il contorno: che pare alludere a caratteri cubitali di un alfabeto tutto da decifrare.

E proprio a un alfabeto fa pensare l’interpretazione «atea, materialista e comunista» che Andre ha dato del suo lavoro (in cui la poesia da sempre è affiancata alla scultura): sin dalla partecipazione alla mitica mostra-pivot del minimalismo, Primary Structures al Jewish Museum di New York, nel 1966. Perché la dialettica fra una serie di elementi in sé insignificanti, e le strutture in cui si combinano, è simile a quella fra i singoli fonemi, o appunto le singole lettere dell’alfabeto, e le parole dotate di senso che possono comporre. Non si può che fare ricorso alla citazione più feticizzata dagli architetti «materialisti»: nelle Città invisibili di Calvino l’imperatore chiede a Marco Polo di descrivere un ponte, e lui enumera pietra dopo pietra; allora Kubilai protesta «perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che mi importa». E Marco, asciutto: «Senza pietre non c’è arco».

Benassi in questo caso si riferisce esplicitamente a un lavoro di Andre del 1986, Manifest Destiny: una colonna composta da otto grossi mattoni rossi sovrapposti, su ciascuno dei quali è stampigliata appunto la scritta EMPIRE. Un titolo che ironizza su un’espressione cui si è fatto spesso ricorso, dall’Ottocento a oggi, per alludere ai compiti “imperiali” degli Stati Uniti.

Ma il cortocircuito anglo-romano della genesi, e della circolazione del lavoro di Benassi (in una prima tappa all’Istituto Italiano di Cultura a Londra, poi a Mostyn nel Galles), ci proietta molto più in profondità nel tempo: al Vallo Adriano che rappresentò il limite estremo dell’Impero romano, e poi a quello Britannico che ha preceduto, nella funzione e nella retorica, gli attuali «destini» americani. Fra i tesori di Palazzo Altemps, non smette di impressionarmi il Sarcofago Grande Ludovisi del III secolo, un’epoca ormai argentea dell’Impero: il coperchio frontale raffigura una scena di battaglia di incredibile violenza, un brulicare barocco di corpi accatastati. Un muro di barbari sottomessi e sterminati è, letteralmente, il sostegno della potenza di Roma, del suo Arco trionfale. Così arrogante. E così prossimo al suo declino.

Di contro, le singole «pietre». I mattoni, appunto. Due scrittori di oggi, distanti per generazione ma del tutto contemporanei, li hanno tematizzati in termini appunto etici e politici, squisitamente «materialisti». Il giovane poeta marchigiano Massimo Gezzi ha intitolato proprio Mattoni il suo manifesto (da L’attimo dopo, Sossella 2009:«un solido che vive dentro tre / dimensioni, pesa […] spaccato col martello / fa tac una volta sola, un suono bello, / di mattone, secco, preciso. […] // Io con la poesia vorrei fare mattoni»); mentre il meno giovane Francesco Pecoraro, nel recentissimo Stradone, ha eletto nella comunità dei fornaciari di Valle dell’Inferno – che, ignorati per secoli, hanno costruito i milioni di mattoni serviti a edificare, lì a un passo, la grande bellezza Vaticana – il simbolo di una resistenza coriacea ai soprusi del potere, al dilavare del tempo, allo smemorarsi del passato. L’arco; e le pietre. Siamo sempre lì.

(Roma, 1968) critico e saggista. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma Tre; nel 2018 ha tenuto la «cattedra De Sanctis» al Politecnico di Zurigo. Ha pubblicato saggi, curato testi e realizzato trasmissioni radiofoniche e televisive, spettacoli teatrali e musicali. È nella redazione del «verri» e collabora ad «Alias», «Il Sole 24 ore», «Tuttolibri», «doppiozero», «Le parole e le cose2» e altre testate.

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