Roberto Salbitani (1945) è un autore tanto appartato e solitario quanto decisivo per comprendere la fotografia italiana degli ultimi cinquant’anni. Fin dalle prime ricerche negli anni Settanta, le sue immagini, insieme visionarie e naturalistiche, sono un invito a rileggere il visivo, a cercare gli elementi primi del fare fotografia.
Dal 13 al 22 gennaio – negli spazi di Bergamo Arte Fiera – sarà allestita la mostra “Il viaggiatore parallelo”: venti fotografie in bianco e nero, realizzate dai finestrini dei tanti treni con i quali negli anni Salbitani, viaggiatore instancabile, si è mosso in lungo e in largo per l’Italia. Un lavoro originale e poetico, lontano da ogni formalismo estetico, che ancora una volta diviene per l’autore l’occasione per indagare il complesso rapporto tra l’uomo e l’ambiente in cui vive.
Le immagini di questo progetto, riunite nel bel volume edito da Contrasto, composto di fotografie e testi, danno luogo a una lettura continua di territori paralleli; un discorso legato al movimento di una persona, che con la sua macchina o strumento di registrazione, è alla ricerca del divenire della vita, ne rispecchia la filosofia di interpretazione, ma diventa anche una documentazione o esposizione di un “panorama”, che possiede un suo movimento interno. «In queste fotografie – spiega Salbitani – c’è l’andare avanti e indietro per treni che è continuato per tutta la mia vita. Sono affezionato ai treni, nonostante questo loro tirarmi a corpo morto facendomi essere parallelo a tutto, sempre orizzontale e senza mai poter vedere dove la loro testa mi sta conducendo. Si alloggia per un po’ in un corpo di ferro e di finta pelle diviso in tanti scomparti dove uno sceglie un posto (non è scelta da poco, sono in gioco sensazioni di rilassatezza o di imbarazzo o addirittura di fastidio, e lo rivela quell’attimo di esitazione che prende il viaggiatore sulla soglia di uno scompartimento)».

Come sono nate queste immagini e perché hai deciso di raccoglierle in un volume e in una mostra?
Detto brevemente, il treno è stato il mio antidoto all’alienazione. Erano gli anni ‘70 (di un secolo che per me non è mai scorso) e girovagavo per le strade delle città perché mi ero assegnato il compito di mostrare in fotografia quello che mi pareva stesse passando inosservato, e cioè il fastidioso tripudio dei manifesti pubblicitari e delle mirabolanti vetrine allestite con nuove mercanzie. Confrontate con queste ingegnose simulazioni di vita, la realtà vera dei cittadini che attraversavano quelle strade sembrava essersi oscurata. Ecco che la sera, quando prendevo il treno per ritornare a casa, entrando in uno scompartimento vivevo, se così posso dire, l’utopia di un interscambio: tentavo di dare un senso al fatto che dei comuni viaggiatori come me si trovavano casualmente, e spesso a stretto contatto di gomito, a condividere un momento di vita. Magari erano solo delle condivisioni taciturne ma erano momenti comunque irripetibili. C’erano un tepore e un mistero umano, in quelle presenze destinate a volatilizzarsi, da cui non riuscivo a sottrarmi e che erano agli antipodi di quell’alienante vuoto che sperimentavo nelle strade lì fuori.
Il titolo “Il viaggiatore parallelo” sembra quasi definire la tua poetica, il tuo modo di intendere la fotografia, di essere fotografo: un osservatore che guarda la realtà standosene dentro e allo stesso tempo fuori, proprio come chi osserva il paesaggio da dietro il finestrino di un treno…
Sì, il titolo è emblematico non solo della mia condizione di fotografo ma, direi, del mio stare al mondo. Sono sempre rimasto un sognatore a occhi aperti che cerca di distanziarsi dalla quotidianità. Da quando ho lasciato l’università ho voluto essere libero di fare le scelte di vita confacenti alla mia immaginazione. E qui è arrivata la fotografia. Come fotografo potevo trasfigurare le apparenze del mondo, portarle dalla rotaia in cui scorre la realtà alla rotaia parallela del mio immaginare, del mio pensare. È con l’immaginazione che ho cercato di proteggermi dal significato immediato e scontato che riversiamo sulle cose, su ciò che ci accade. Fin da bambino ho sempre avuto un’indole da spettatore. Quando mi guardavo giocare, inventavo il mio gioco all’interno del gioco che si doveva fare in gruppo. È la condizione dello spettatore, quella che ho sempre vissuto prima di darmi alla fotografia e che certamente mi ha attratto a essa. Spettatore e fotografo “parallelo” alla realtà: assisti a ciò che si svolge davanti a te con i tuoi occhi pensanti, con la tua immaginazione attiva, ma è nei condotti della tua interiorità che filtri il visibile. È dall’oscuro della tua interiorità che vengono alla luce le trasfigurazioni.
«Il fotografo invade e viene invaso dalla realtà che affronta», hai scritto nel testo che accompagna il tuo libro ormai iconico: “La città invasa”, pubblicato da Luigi Ghirri nel 1978 per le edizioni Punto e Virgola. Riletta oggi questa frase sembra profetica…
Ho assunto la fotografia non tanto come uno strumento di mediazione, piuttosto come un’arma con cui cambiare le carte in tavola in seno al mondo delle apparenze. Decontestualizzandole e trasfigurandole, ho cercato di annetterle alla mia visione delle cose. Potrei sintetizzarti così il mio modo di operare: spiavo le scenografie cittadine come un detective che intende includere il meno possibile dentro il campo di ripresa, “la scena del crimine”, per avvalersi poi di quelle immagini come testimonianze credibili, come prove di realtà di fatto non troppo manomesse dalla scelta del punto di ripresa, dal taglio compositivo, dal tipo di stampa ecc… Mi sentivo in realtà, più che un invasore, un infiltrato dietro le linee nemiche e queste, a loro volta – mi riferisco in particolare alla strafottenza delle immagini pubblicitarie che riprendevo – sembravano denunciare l’incongruità della mia presenza. Da qui l’“invasore invaso”. È questo il mio unico lavoro che ha una consistente matrice documentaria.

In queste fotografie torna il tema del viaggio. Cosa rappresenta per te questa dimensione? E quanto è importante l’immaginazione per un fotografo?
Definisco “viaggio” quella condizione dello spirito in cui il tempo del fare e dell’arrivare da qualche parte è sospeso: il movimento del corpo e della mente durante questa sospensione spazio-temporale libera il movimento dell’immaginazione. Come a dire che la nebulosa informe di vita fantastica condensata nel profondo di ognuno di noi, e che non aspetta altro che di farsi immagine, può trovare negli accidenti di viaggio, nel panorama nuovo di corpi, cose, eventi in cui il viaggiatore si imbatte, la condizione giusta perché affiorino nuove visioni. Il treno, in particolare, con il suo movimento rapsodico un po’ ipnotizzante, e con la possibilità che ti concede di uscire e rientrare in te stesso, passando dal vedere interno a quello esterno allo scompartimento, dalle scenografie teatrali dei sedili alle immagini cinematiche trasmesse dai finestrini, è il veicolo ideale in questo senso. Va però detto che il treno de “Il Viaggiatore Parallelo” – gli scritti che affiancano in modo autonomo le fotografie sono una sorta di pensiero viaggiante – è soprattutto quello aperto di un tempo, oggi l’alta velocità tende a rinserrare i passeggeri in contenitori chiusi.
Sei stato tra i primissimi, negli anni ’70 in Italia, a indagare, con le tue immagini, ma anche con le tue riflessioni teoriche, i violenti processi di urbanizzazione delle città e da qui il difficile rapporto tra uomo e natura. Cosa ha spinto la tua ricerca in questa direzione?
C’è stata una mia personale crisi nei miei rapporti con quella città consumistica che andava dilagando negli anni ’70 e nel decennio successivo. Sentivo il bisogno di rigenerarmi come persona ancora prima di trovare un senso al mio fotografare e non trovavo in questo senso una sponda presso quei fotografi che erano stati i miei compagni di strada. Erano troppo presi dal fare il grande salto dentro il mondo dell’arte contemporanea con annesse conquiste di committenze e spazi pubblicitari. È qui che si inserisce il mio abbandono della città e l’inizio di un nuovo viaggio all’interno di quei territori dove la natura prometteva una nuova dimensione dello spirito. Sono andato ad abitare in una casa dell’Appennino toscano, vicino a Pieve S. Stefano: da lì si diramavano un’infinità di sentieri che si inoltravano nello stupendo paesaggio boschivo circostante (non era un’infinità ma così io la percepivo…). Come fedele compagno di viaggio avevo il mio cane Buck, ogni giorno un sentiero diverso, un nuovo spicchio di territorio da esplorare a piedi ed all’occorrenza con l’apparecchio fotografico. Al ritorno, di sera e fino a notte inoltrata, riversavo in camera oscura quanto di sana energia immaginativa avevo ricevuto durante il giorno. Durante il decennio di permanenza a Mogginano ho cercato di trasmettere quella nuova esperienza rigenerativa a quanti si iscrivevano ai corsi della Scuola di Fotografia nella Natura, che intanto avevo messo in piedi. Molti fotoamatori in cerca di nuove occasioni di crescita arrivavano da tutta Italia e in particolare da Milano gli studenti dei corsi di fotografia della Bauer inviatimi da Roberta Valtorta. Cosa è stata quest’esperienza? Lo dovrebbero dire i partecipanti naturalmente… Io lo definirei un cantiere aperto all’armonizzazione della vita con l’espressione fotografica, da dove se ne andavano delusi gli ossessionati dalla tecnica fine a sé stessa.

Come è cambiato per un fotografo il modo di rappresentare il paesaggio, una parola oggi molto abusata?
Hai ragione, sotto la denominazione di “fotografia di paesaggio”, un genere molto abusato, si trova di tutto. Di che paesaggio parliamo? Sono ovviamente tramontate quelle vedute paesaggistiche che per tanto tempo sono confluite sotto la denominazione di “vedute”, “viste” o “panorami”, fossero di tipo naturalistico o urbano. Sappiamo tutti che negli ultimi cinquant’anni, anche sotto l’influenza di un filone dell’avanguardia statunitense a metà tra arte e fotografia, e anche per reazione alla trionfante tradizione naturalistica degli Ansel Adams e degli Edward Weston, si è andata sviluppando anche qui da noi una fotografia genericamente detta di paesaggio che, con Ghirri, ha fatto scuola, e che comunque da un po’ sembra aver esaurito la sua forza propulsiva.
A mio avviso è necessario almeno distinguere la fotografia del cosiddetto paesaggio da quella del territorio. Le nuove vedute prevalentemente urbane che hanno affollato la casistica fotografica di questi ultimi decenni, più che connotare dei risvolti conoscitivi delle nuove realtà del nostro habitat, hanno intrapreso delle direzioni che potrei definire grossomodo formalistiche. Voglio dire che la preoccupazione dominante è stata spesso rivolta alla “forma”, nel senso che in queste vedute d’insieme sono prevalse le rappresentazioni di nuovi materiali e materie che i fotografi delle generazioni precedenti non avevano portato all’attenzione. Nuovi soggetti, anche dettagli di soggetti che un tempo sarebbero stati giudicati insignificanti, che hanno dato origine a stilizzazioni cromatiche in accordo con una rinnovata sensibilità estetica. Non per nulla all’interno dei nuovi paesaggisti sono esplosi i nuovi coloristi. Questa tendenza ha preso le distanze da quella fotografia collegata al territorio che aveva avuto un grande rilievo a partire dal dopoguerra, negli anni della ricostruzione, e che negli anni successivi avrebbe via via assunto una sempre maggiore valenza antropologica e dal taglio ambientalista, spesso anche accompagnata da un impegno in senso politico vero e proprio. Un ambito esplorativo, quest’ultimo, già in via di estinzione quando mi ci sono inoltrato con i miei lavori in bianconero sul territorio, nel mio caso soffermandomi su quelle che all’epoca ho definito “terre perse”.
In sintesi: la fotografia del territorio può includere il vecchio “paesaggio” ma meno in senso formalistico. La sua preoccupazione è, o dovrebbe essere, quella di evidenziare, oltre alle realtà che si danno per scontate, soprattutto quelle presenze poco scenografiche se non addirittura neglette, quei segni potenti ed emblematici che connotano il vivere, il risiedere, il percorrere, il viaggiare all’interno di quella frazione di territorio che si è scelto di esplorare anche visivamente.
Il viaggiatore parallelo. Roberto Salbitani
Bergamo Arte Fiera
dal 13 al 22 gennaio
Roberto Salbitani
Il viaggiatore parallelo
Contrasto, 2023
128 pp., 35 €
In copertina: © Roberto Salbitani, Il viaggiatore parallelo