Ha un titolo che è tutto un programma “expanded” la nuova collana di poesia «Assemblaggi e sdoppiamenti» diretta da Monica Romano per un editore, Scalpendi, che all’incontro fra immagine e parola da sempre è votato. Insieme a Per un taccuino piccolo piccolo di Stefano Raimondi e a Poesie per giovani adulti di Michele Zaffarano, non è un caso che a inaugurarla sia Nove lame azzurre fiammeggianti di Tommaso Di Dio (241 pp., € 15), che ormai da un pezzo sperimenta il ruolo dell’immagine fotografica come “agente” poetico (notevole in tal senso la precedente raccolta Verso le stelle glaciali, uscita nel 2020 da Interlinea). Il libro ripercorre una serie di pubblicazioni più o meno esoteriche, «Poesie, immagini, descrizioni, lettere favole 2003-2020» come suona il sottotitolo, che hanno accompagnato le raccolte maggiori e (scrive l’autore in una sua nota) «attingono a tempi diversi, alternando e stratificando momenti fra loro incongrui, in un “disfatto prisma”, come recitano i versi in esergo di Eugenio Montale». A ragione Bernardo De Luca, in una breve quanto penetrante nota inclusa nel libro a mo’ di prière d’insérer, evoca il Krapp beckettiano ma soprattutto la pratica dell’archivio, così diffusa nelle arti visive di questi anni: un «libro-archivio» che «istituisce e governa la memoria». Per la cortesia dell’editore e dell’autore presentiamo qui una sua scelta di testi, che si conclude con un’anticipazione dal suo prossimo libro. Ci piace che la sezione «Expanded Poetry», qui su «Antinomie», presenti i lavori dei migliori autori delle ultime generazioni con un’espansione ulteriore, nel tempo: facendoci accedere ai loro cantieri in progress. Perché l’archivio più profondo, il più rivelatorio, è quello del futuro.
Andrea Cortellessa
1982 – Descrizione dell’inizio
Questo luogo lo conosci anche tu. Sai benissimo dove mi trovo. Anche se adesso ti sembra di non poter dire da dove esattamente provenga questa voce e ti sembra, anzi, che io abiti un luogo sconosciuto e remotissimo, distante un’infinità di mondi dallo spazio che abitualmente chiameresti casa – tanto che questa mia voce ti sembra metallica, adombrata da un’eco minima che la rende addirittura sinistra – in verità, sai fin troppo bene dove sei arrivato. Con un semplice movimento del pensiero, il più piccolo scatto muscolare, persino con il più impercettibile aggrottarsi delle sopracciglia, potresti facilmente catapultarti qui, in qualsiasi momento e, così, ritrovarmi, sempre qui, quando vuoi. Del resto, non c’è bisogno che te lo spieghi. E se continuo adesso a parlare, se do vita a questo breve intrattenimento, questo poco significante gioco in maschera, è solo perché, lentamente e quasi senza accorgetene, tu possa prendere nuovamente confidenza con il tono della mia voce, sicché non ti sembri poi in fondo così fredda, così meccanica, così distante; non ti sembri cioè che la tua, ma scostata quel tanto da poterti sembrare altra da ciò che sei solito dire come tuo. Hai presente la sensazione di quando qualcuno ascolta la propria voce registrata? Ecco, lì sei tu e non sei tu: è la tua voce, indubitabilmente e t’inchioda al tuo sesso, alla tua storia; eppure, poiché impressa e memorizzata, poiché poi tradotta in minuscoli passaggi analogici e digitali e poi di nuovo emersa dalle pieghe vibranti di circuiti e amplificatori plastici, beh, vibra di un altro corpo, non c’è niente da fare: è come assistere ad una resurrezione, ma a quale vita fu condannato Lazzaro? Ciò che eri – la voce che prima parlava e vibrava nell’aria e registrava il messaggio – ora riemerge dal dispositivo e ti sembra suono morto, strascico irriconoscibile, odioso e purtuttavia tenerissimo te, scivolato via e fatto altro, aria, luce, mano che prende vita propria e fa, da sola, una propria strada zoppa, un proprio viaggio imbecille. Un fantasma? Tu l’hai detto. Ma l’importante non è questo; non è dirsi una volta per tutte o definirsi, così per chiudersi in una gabbietta di uccellini dorati, no, no. Qui si tratta di me e di te: di noi due. Questo luogo lo conosci anche tu ed è inutile fingere: sai benissimo dove mi trovo e ne avevi nostalgia. Era lo scrigno con la ballerina nel carillon. Era il cassetto con l’orologio del nonno. Era la pagina giallina con la parola segreta scritta in rosso, era la moneta nascosta nel pugno e poi sepolta, al di là della roggia, nel terreno nel campo. Da molto tempo, io e te, ci guardiamo senza più riconoscerci; e ogni volta che mi incontri, distogli lo sguardo, fai finta che non ci sia. Adesso però sei tornato, sei finalmente qui, con me, con te davanti a me e questa nostra voce che ci accompagna, allora, di chi è? Perché insiste? Perché insistere nel dirla mia, tua, o di chi altro? Lasciamo che vada, per quanto dura questo fiato, per quanto può, fino a che sarà suono e poi anche oltre, quando tacerà, lasciamola andare, anche quando sarà eco neuronale e poi polvere, circolo del sangue, lasciamo, io e te, lasciamo che cada questa lama azzurra fiammeggiante nel tempo e apra una lunghissima linea rossa sul nostro sguardo e avanziamo insieme, su questa pianura, sgangherati senza lasciarci mai, senza dirci più addio, io e te, come ai vecchi tempi, quando la notte spegnevamo la luce ed era il momento in cui esplodevano le stelle nel cervello e ci facevamo paura, ridevamo: giocavamo a fare i morti che non volevano morire.

1978 – Descrizione della risalita
Cari amici,
questa notte ho sognato di scrivervi.
Non so cosa scrivevo mentre sognavo, ma ricordo
distintamente che nel sogno
ero al computer, seduto alla scrivania di casa
e scrivevo. Scrivevo per voi, scrivevo di voi.
Scrivevo in vista di una terra immaginaria, di un’area
colore muro, di uno spazio àncora,
di un alone muto disastro orizzontale
lasciato in fondo ad un gesto, lasciato al fondo
di uno sguardo amico, dopo aver attraversato
lo spazio con un gesto. Avrei voluto
nel sogno mentre sognavo
leggere cosa scrivevo, mentre scrivevo e sognavo. Ma nel sogno
non sono riuscito a leggere. Mi avvicinavo allo schermo
e non vedevo: ricordo
il rumore di me che scrivevo, ricordo
le spalle di me che sedevo, ricordo la sensazione, la felicità
i tasti che battevano che battevano che io battevo
mentre scrivevo mentre sognavo di scrivere ciò che scrivevo, ricordo
scrivevo per voi
scrivevo di voi, scrivevo in vista di una terra immaginaria
una marea colore grumo, foglio carta sul muro stracciato, una folla
in un filo di tela che si dilata nella pietra di una matita.
Ricordo che ho provato ad avvicinare lo schermo luminoso,
perché volevo leggere, mentre sognavo, cosa scrivevo.
Ricordo che ho provato, volevo guardare
volevo capire, volevo sapere
quello che vi scrivevo mentre sognavo. Sapevo
che quello che stavo scrivendo per voi era in aderenza,
era esattamente, aderiva
a ciò che voi stavate sognando
di dipingere e di scrivere sulle pareti mentre scrivevo
e così mentre sognavo, e sognavo che vi scrivevo, io vedevo
o credevo di vedere
anche ciò che voi avevate soltanto
sognato di dipingere di disegnare di scrivere di fare
sognato di dire di disancorare di ultimare di sbagliare di cancellare.
Così mentre sognavo il mio sogno
e scrivevo di voi, sognavo
il vostro sogno dipinto e vedevo
o credevo di vedere mentre scrivevo
tutte le vostre mani che si agitavano nella vostra mente invisibili
che si incollavano che si staccavano che si urtavano. E così sognavo
come al di là delle spalle di me che sedevo, dietro o forse dentro
quello schermo illuminato su cui scrivevo
c’erano le vostre mani che lavoravano. Al posto mio, voi
e le vostre mani che incidevano, disegnavano, sognavano
cosa si sarebbe potuto immaginare eppure non lo facevano,
sognavano cosa avrebbero potuto fare e non sapevano
che io stessi proprio sognando ciò che loro stavano solo sognando
di fare, nella mente, tutti
così immobili, voi e me, mentre scrivevo.
Né io né voi né loro pensavano o immaginavano
tutti così immobili che in quell’istante dilatato
ciò che sognavamo viveva fra l’esistere
e il non esistere, esisteva non esistendo, e che soltanto scrivendo
vi ho potuto immaginare vivi e solo scrivendo di voi
vi ho potuto vedere e sognare e sognare in voi il sogno
dell’immensa immagine muta
di una luce ovunque diffusa, una strabiliante
infinita nullità
di luce su luce, nella luce di un’alta
luce più luce della luce che qui riluce, non illuminata
da altro ma roteante e come attraversata
come riscaldata come penetrata
da una lama fiammeggiante di spazio bianco
lasciato essere così
senza colore, senza mani, senza pensiero
senza immagine alcuna e senza suono
solo puri meccanici movimenti in una aperta brulla vastità
un bianchissimo stormo
che si apre e si riunisce, che si denuda
che si rovescia e si spalanca cadendo
un telo dal balcone bianco cadendo
che si rovescia e si spalanca cadendo
un bianco dal balcone un telo cadendo
nelle mani di chi scrive qui, mentre mi avvicino
a quell’uomo seduto di spalle, che sta scrivendo
e nel sogno mi avvicino a lui, mentre scrive e sogna
nel sogno mi avvicino a quell’uomo di spalle
e infine leggo, nel bianco, ciò che scrive mentre sogna
e mi accorgo che
nessuno sta scrivendo questo sogno
nessuno ha scritto mai nessun sogno
nessun sogno è stato ancora scritto e il grande dipinto resta là
oltre ogni parete, negli occhi
come un incendio.
da Nove lame azzurre fiammeggianti nel tempo, Scalpendi 2022
Nota:
Figura 1 (copertina)
La fotografia è del maestro Ferdinando Scianna, che ringrazio per la generosità di avermene concesso l’uso. La diapositiva originale è conservata presso AESS, Archivio di Etnografia e Storia Sociale della Regione Lombardia, a cui va il mio ringraziamento per avermi aiutato nel reperimento dell’immagine. La fotografia è tratta da un’indagine reportage – mai pubblicata – sui carnevali del nord Italia; in particolare l’immagine è stata scattata durante il carnevale ambrosiano del 1982, anno della mia nascita.
Figura 2
L’immagine è tratta dall’archivio familiare. Siamo nel giugno del 1978, a Ruvo di Puglia, durante la festa dell’Ottavario del Corpus Domini, che si tiene otto giorni dopo la Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo.
1978 – Descrizione della risalita
Il testo è una lettera in versi scritta in occasione di una mostra collettiva dal titolo Altrimenti anche niente, a cura di Andrea Bruschi, Lorenzo Di Lucido, Elisa Muliere, Beatrice Meoni, Caterina Silva e Giulio Zanet, sempre presso la galleria Rehearsal. La lettera è a loro dedicata. I versi finali echeggiano idealmente quelli di Antonin Artaud, nella poesia Parigi-Varsavia in Rivolta contro la poesia (1947): «Noi non siamo ancora nati, // noi non siamo ancora al mondo, // non esiste ancora il mondo, // le cose non sono ancora compiute, // la ragione d’essere non è stata trovata».

Miguel Hernandez, nel suo carcere
con il figlio morto nella testa. E i pidocchi
la fame, le cipolle.
Walter Benjamin, nella sua stanza
con le mani nelle mani. E l’overdose
la fuga, la marea
il nazifascismo e la sua valigia.
Noi chiediamo
di sederci qui; nella nostra stanza, davanti ai libri
e agli schermi neri. Provare. Essere.
Ovunque, in ogni dove. Si apre
non è un istante, non è una geografia. L’arco
di mattoni crolla, errore 404 page
not found.
Simone Weil annotava
L’orario di lavoro, la paga. Lo faceva per tutti.
Per tutti gli altri
che non sarebbe mai stata. Provare. Essere
questo niente. Felici.
Figura 3
La foto coglie un momento spensierato di Josefina Manresa, nella campagna di Cox, comune vicino Valencia, nell’agosto del 1936, qualche mese prima del matrimonio con il poeta spagnolo Miguel Hernandez, che nel 1939 morirà nelle carceri franchiste.
da Ardore, di prossima pubblicazione presso Nino Aragno Editore