«Se tu riguarderai in alcuni muri imbrattati di varie macchie o pietre di vari misti, se arai a inventionare qualche sito, potrai lì vedere similitudine de’ diversi paesi, ornati di montagnie, fiumi, sassi, albori, pianure, grandi valli e colli in diversi modi; ancora vi potrai vedere diverse battaglie e atti pronti di figure, strane arie di volti e abiti e infinite cose, le quali tu potrai ridurre in integra e bona forma. E interviene in simili muri e misti come del sono di campane, che ne’ loro tocchi vi troverai ogni nome e vocabulo che tu imaginerai». L’osservazione di Leonardo è celebre, ma il fenomeno era già stato osservato dall’antichità: l’illusione di rinvenire nelle viscere della terra forme della vita di superficie – quella che la psicologia moderna definisce «pareidolia» – era parte integrante dell’attrazione esercitata dalle pietre e dalle gemme, che Plinio il Vecchio definiva «la massima follia degli uomini» (e alla mineralogia dedicava, per parte sua, gli ultimi cinque libri della Naturalis Historia). Libri celebri di grandi eruditi moderni come Jurgis Baltrušaitis e Roger Caillois hanno ripercorso questa tradizione: lapidari se ne compilano per tutto il Medio Evo (quello di Alberto Magno fece testo sino al Museum metallicum di Ulisse Aldrovandi, uscito postumo nel 1648), e in ognuno di essi torna la meraviglia per le forme bizzarre che pare di scorgere nei tagli delle pietre (come nel caso forse più celebre, quello della grotta della Natività a Betlemme dove viene scorta l’immagine di un vecchio barbuto e incappucciato che si volle riconoscere in San Girolamo). L’ineffabile Athanasius Kircher, nell’Ottavo libro del suo Mundus subterraneus (1664), cataloga le pietre figurate secondo le loro forme e ne spiega la genesi con l’intervento di volontà divine e angeliche.

Il fascino di questo repertorio deriva infatti, si capisce, dalla ricorrente credenza che la natura sia qualcosa di scritto (o, in questo caso, disegnato): quello del «mondo come libro» è fra i tòpoi più fascinosi di quell’inesauribile atlante di antropologia storica che è Letteratura europea e Medioevo latino di Ernst Robert Curtius (appena ripubblicato da Quodlibet) e Hans Blumenberg, nella Leggibilità del mondo, ne ha illustrato il significato filosofico (e ideologico): dal Fedone platonico ai «geroglifici» romantici passando per le Enneadi di Plotino, le eresie gnostiche e Il Saggiatore di Galileo, presupposto di questa tradizione è infatti che, se quella del mondo è una Scrittura, prima o poi se ne dovrà riconoscere un Autore: un Deus absconditus nel cuore stesso della terra che abitiamo.

Non risponde a un caso, dunque, che in un periodo di straordinario turbamento storico e spirituale, tra i primi decenni del Cinquecento e la metà del Seicento, si diffuse in tutta Europa la moda – la follia – della pittura su pietra: nella quale gli artisti s’ingegnano di gareggiare coi disegni della natura sempre più integrandone volute e venature nelle loro ammalianti figurazioni. Nella sua Arte de la pintura (1649) «il Vasari di Siviglia», al secolo Francisco Pacheco maestro di Velázquez, attribuisce agli «italiani», in particolare, «l’abitudine di dipingere storie e figure su vari diaspri […], disponendo la storia o la figura in modo da sfruttare la pittura naturale delle pietre». I cabinet e le wunderkammern di sovrani per antonomasia curiosi, come Rodolfo II a Praga o Gustavo Adolfo a Stoccolma, si riempiono di manufatti bizzarri provenienti dalla Toscana o da Roma; ma anche nella “centrale” metropolitana di questo gusto si raduna allora, per volontà del cardinale Scipione Borghese, una collezione invidiabile.

Sicché l’esposizione curata dalla direttrice della Galleria Borghese Francesca Cappelletti e da Patrizia Cavazzini, nel fare il punto su una notevole stagione di riscoperte (un convegno tenutosi proprio a Roma nel 2016, una grande mostra a St. Louis nel 2020), rappresenta un “ritorno a casa” tanto festoso quanto appagante, per gli occhi dei visitatori (e dei lettori del bellissimo catalogo); ma provvede pure a sottoporre questa tradizione a uno sguardo nuovo che si sofferma sulla specificità dei supporti e delle tecniche (quello cioè che è stato definito il material turn della storia dell’arte: in catalogo Christopher Nygren racconta per esempio le fortune della scura pietra ligure, la Lavagna, e quello della pietra sedimentale della val d’Arno, la Paesina: così detta appunto per i paesaggi che, una volta tagliata, vi paiono iscritti).

A inventare (o piuttosto riscoprire) la tecnica della pittura su pietra fu il veneziano Sebastiano Luciani, che per questo si meritò il ruolo di piombatore pontificio (cioè guardasigilli delle bolle apostoliche) e dunque il nickname col quale è passato alla storia: Sebastiano del Piombo. Sebbene probabilmente l’avesse sperimentata già in precedenza, è all’indomani del trauma del Sacco di Roma del 1527 che si diffonde questa usanza che, annota Vasari, pareva far sì che «le pitture diventassero eterne e che né il fuoco, né i tarli potessero lor nuocere». Eternità illusoria, ché la durezza di questi supporti si accompagnava in effetti il più delle volte, per ironia della sorte (e legge della fisica), a una loro estrema fragilità.
Ma anche altre caratteristiche materiali dei supporti litici seducevano gli artisti e i loro ammiratori. Laura Valterio riporta i versi del Marino che nella Galeria (1619) descrive una «pietà in paragone» (dipinta cioè sulla «pietra di paragone», in genere impiegata per testare l’autenticità dell’oro) di Palma il Giovane: «mentre a te ne vegno, / sì come accusa il falso e ‘l fin metallo / con l’innocenza tua scopre il mio fallo». Probabilmente il poeta allude alle proprietà riflettenti delle pietre nere che, una volta levigate, rispecchiano l’osservatore nel dipinto: effetto in special misura perturbante nella Resurrezione di Lazzaro di un vero e proprio specialista del genere qual era il veronese Alessandro Turchi detto l’Orbetto, opera non si può osservare senza vedersi appunto riflessi nell’immagine (con agudeza rimarchevole l’effetto è riprodotto sulla controcopertina del catalogo che lo riproduce). Soprattutto fa impazzire gli amatori a cavallo del Seicento l’ambiguità tra sfondo e figura, tra natura e artificio, tra materia e invenzione: tutte quelle cioè che Baltrušaitis definisce Aberrazioni. Artefici d’insolente virtuosismo come il fiorentino Antonio Tempesta o il romano Filippo Napoletano, dipingendo per esempio sulla trasparenza dell’alabastro, si valgono di giochi di luce dall’evidente valenza simbolica.

Abbastanza misterioso resta il motivo per cui più o meno a metà del Seicento la voga, all’improvviso com’era apparsa, si esaurisce. Le opere su pietra, già richiestissime, appaiono all’improvviso banali e manierate e vengono consegnate al dimenticatoio delle raccolte private (alcune giunte sino a noi, come la milanese Giulini Giannotti). È probabile che, come scrive Baltrušaitis, l’affermarsi della mentalità scientifica moderna abbia separato fra loro l’interesse naturalistico e il gusto per la bizzarria artistica che quella moda invece aveva coniugato; e non è un caso che la sua rinascita moderna si debba alla dialettica del razionalismo propria delle avanguardie (in particolare del surrealismo).

A mo’ di epilogo vale l’episodio raccontato in catalogo da Piers Baker-Bates ed Elena Calvillo. All’inizio della guerra civile di Spagna, nel settembre del 1936 a Úbeda, la cappella funeraria di Francisco de los Cobos, il segretario di stato di Carlo V, venne saccheggiata e devastata: i rivoltosi fecero a pezzi, fra gli altri tesori devozionali ivi conservati, un San Giovannino su tela attribuito a Michelangelo ma, quando provarono a squarciare una Pietà su ardesia del suo discepolo e rivale, appunto Sebastiano del Piombo (oggi al Prado), le loro baionette riuscirono solo a scalfirla. Alla prova delle intemperie della storia, quella pittura «poco meno che eterna» aveva resistito con fierezza.
Meraviglia senza tempo. Pittura su pietra a Roma tra Cinquecento e Seicento
a cura di Francesca Cappelletti e Patrizia Cavazzini
Roma, Galleria Borghese
Fino al 29 gennaio 2023
catalogo
Officina Libraria 2022
pp. 302 ill. a colori, € 40
Una versione più breve di questo articolo è uscita sul «Giornale dell’Arte» di gennaio
In copertina: Teodoro Filippo di Liagno detto Filippo Napoletano , Ruggero libera Angelica dall’orca, 1618-1619, olio su pietra paesina, cm 27 × 43, Firenze, Istituto Nazionale di Studi Etruschi ed Italici.