Giulio Romano ‘designer’

Dal 1524, anno in cui Federico Gonzaga chiamò Giulio Romano a lavorare come artista di corte, Mantova si trasformò in un luogo eletto del design cinquecentesco. La mostra Giulio Romano. La forza delle cose (Palazzo Te, fino all’8 gennaio 2023) ripercorre la carriera di Giulio designer attraverso disegni, dipinti e oggetti di lusso in cui convivono fantasia e studio dell’antico. Attraverso la divisione tematica delle sale – su armi, argenteria da tavola, motivi iconografici, progetto e sua diffusione – l’allestimento propone un confronto serrato tra disegno e oggetto. Nella sala dedicata alla produzione di armi troviamo spade, elmi e armature con splendidi motivi antropomorfi e un eccezionale scudo esposto accanto al relativo progetto su carta azzurra. Per supplire alla mancanza degli oggetti originali realizzati a partire dai disegni di Giulio, cinque oggetti in rame, peltro e argento sono stati prodotti per la mostra in collaborazione con Factum Arte. Nonostante la presenza spettacolare degli oggetti in mostra, le opere su carta sembrano costituirne il fulcro. I curatori pongono l’accento sul disegno come “padre delle tre arti nostre”, idea fattasi tratto, espressione dell’ingegno dell’artista e prova tangibile della sua attività mentale. La selezione di una serie di fogli provenienti da collezioni europee mostra la forza progettuale di questo artista, capace di mettere su carta in modo attraente per i committenti le forme più “bizzarre”, svelando il desiderio di superare se stesso e i propri maestri in capacità inventiva.

Fig. 1

Che Giulio Romano fosse un artista straordinariamente versatile lo aveva scritto già Vasari, che nel 1541 a Palazzo Te rimase colpito dalla credenza affrescata al centro di una scena di banchetto (fig. 1). Nelle Vite si legge che i vasi, bacini, boccali, tazze, coppe e altri oggetti mostrano “l’ingegno, la virtù e l’arte di Giulio, che in questa parte mostrò essere vario, copioso d’invenzione e d’artifizio”. Tutti questi oggetti servivano a creare la “forma” che costruiva la reputazione dei Gonzaga, sia presso i membri interni alla corte mantovana ordinati in precise gerarchie, sia presso gli stranieri che guardavano costantemente allo stato delle ricchezze dei propri pari. E del resto Giulio si era trovato nel luogo giusto al momento giusto: nel 1516 si erano dovuti fondere molti argenti per sostenere le spese di guerra, e quindi nei decenni successivi fu necessario produrre nuovi oggetti per gli interni e la tavola. Tra brocche a forma di mostri marini, serpenti avvinghiati ai manici di ampi bacili e saliere sorrette da capre, questi oggetti del potere – ma anche più semplicemente di uso domestico – potevano “animare” le conversazioni dei commensali a corte, o così possiamo immaginare. Il Progetto per pinza da tavola, in cui una testa d’anatra spunta da un fascio di foglie d’acanto, mentre dalla parte posteriore le teste attorcigliate di due serpenti formano gli anelli da presa, illustra perfettamente le “cose” che Giulio disegnava per i Gonzaga, con una passione per la metamorfosi elaborata da modelli Romani (fig. 2). Come nel modello, la versione cinquecentesca affievolisce il carattere magico-demoniaco della figura mostruosa animale-vegetale piegandosi alla funzione prosaica della ricerca del cibo.

Fig. 2

Questa stessa tensione, per dirla in breve, tra naturalismo e animismo, o tra funzione e ornamento, è al centro della storia critica dell’opera di Giulio. Nel catalogo della grande mostra dedicata a Giulio Romano nel 1989, un saggio di Manfredo Tafuri sottolineava l’atteggiamento ironico e volutamente ludico che permeava tutta l’opera dell’artista alla corte di Mantova. Tafuri parla di una “semantica del gioco” per descrivere l’opera dell’artista nel contesto delle dinamiche tipiche delle corti rinascimentali. La sprezzatura indicata da Castiglione come postura propria del cortigiano, si rispecchia in tutta l’opera di Giulio per i Gonzaga, dall’uso di mascheroni decorativi dalle smorfie esagerate agli elementi bizzarri nei disegni per gli argenti. Se si escludono le opere religiose o i dipinti della cosiddetta “maniera nera”, in effetti, l’arte di Giulio è spesso caricata. Nel suo libro su Palazzo Te, Ernst Gombrich parla di “forma disturbata” per descrivere il carattere di questa villa di campagna vicina alla città, improntato alla sorpresa anche nel progetto architettonico.[1] E infatti lo stesso storico dell’arte la chiamava “la gaia corte dei Gonzaga”, proprio per sottolineare questo aspetto ludico e sconcertante.

Contro questa lettura, Eugenio Battisti rispondeva a Tafuri invitando a prendere sul serio le invenzioni di Giulio.[2] E così sembrano fare i curatori di questa mostra, che dedicano una particolare attenzione alla descrizione iconografica dei progetti e al modo in cui i disegni e i prototipi venivano discussi tra committenti, artisti, agenti, e artigiani coinvolti nella realizzazione. Per ognuno dei progetti e degli oggetti per la guerra e il trionfo, per la tavola e per la viene articolato il valore sociale ed economico del committente e vengono studiati i modelli. Che gli oggetti di lusso fossero una categoria di grande valore, che richiedeva la collaborazione di molte figure diverse e che a volte costava molto di più dei dipinti, è cosa nota, e da parecchi anni curatori e studiosi cercano di dare nuova dignità alle arti decorative. In questo contesto, la figura di Giulio Romano spicca per la capacità di lavorare con tutti i mezzi e in maniera davvero transmediale.

Fig. 3

La questione dell’oggetto animato, del potere dell’ornamento di agire sul mondo, e della forza mediatrice delle cose utilizzate in ambito rituale, viene toccata quasi sottovoce nella mostra e nel catalogo. Ora, la questione del ruolo “agente” delle immagini è ancora attuale, come dimostra l’esposizione curata da Michele di Monte a Palazzo Barberini (su cui è rivenuto Matteo Piccioni). Mentre il titolo “forza delle cose” evoca il complesso di teorie sul potere degli oggetti d’arte che gli antropologi Alfred Gell, Daniel Miller, e Carlo Severi hanno messo al centro dei loro studi, la mostra si limita a celebrare senza esplicitarlo quel potere che Gell chiama enchantment – il potere che esercita la tecnica raffinata di esecuzione del manufatto sulle diverse figure coinvolte nella relazione attorno all’oggetto stesso.[3] Questa evocazione si fa presente soprattutto in una sala dedicata alla rappresentazione del corpo umano come punto più alto della riflessione artistica (soprattutto fiorentina). Qui compare tra altri artisti anche Michelangelo che, nonostante non avesse tempo per queste commissioni minori, veniva consultato dai Gonzaga per approvare i disegni consegnati agli orefici romani. Nel Progetto per saliera destinato al duca di Urbino (fig. 3), si ritrovano elementi decorativi cari all’artista come le teste fantastiche, e una figura di Cupido in movimento che scaglia una freccia la cui traiettoria appena accennata a pietra nera conferisce al progetto una certa energia. E se Giulio preferiva motivi animali e vegetali, in onore al gusto per l’antico, la stessa energia resta, a distanza di secoli, sia nei progetti che negli oggetti.

mostra:
Giulio Romano. La forza delle cose
Mantova, Palazzo Te
fino all’8 gennaio 2023

catalogo:
Giulio Romano. La forza delle cose
Marsilio Arte, 2022
a cura di Barbara Furlotti, Guido Rebecchini
con la collaborazione di Antonio Geremicca
pp. 208, € 35

In copertina: particolare del Banchetto Rusticus affrescato da Giulio Romano nella Sala di Amore e Psiche, Palazzo Te, Mantova (prima del restauro)


[1] E. Gombrich, Giulio Romano: il Palazzo del Te, Mantova, Tre Lune, 1999, p.152.

[2] “Conformismo ed eccentricità in Giulio Romano come artista di corte”, Giulio Romano. Atti del Convegno internazionale di studi (Mantova, 1-5 ottobre 1989), Mantova, Cariplo, 1991, p. 21-43

[3] Alfred Gell, Arte e Agency, Una teoria antropologica, Milano, Raffaello Cortina, 2021.

È storica dell'arte moderna, assegnista di ricerca all'Università IUAV di Venezia e docente all'Università Bocconi. Si occupa di storia e teoria del paesaggio, del disegno e dei media. Dopo il dottorato in storia dell'arte al Courtauld Institute di Londra, è stata borsista al Centre Allemand d'Histoire de l'Art di Parigi, alla Fondazione 1563 di Torino e allo Zentralinstitut für Kunstgeschichte di Monaco di Baviera.

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