Gesto automatico o voluto, percezione aptica che fa da ponte tra noi e la realtà, il toccare è essenziale nel nostro abitare il mondo. Ed è essenziale anche riguardo alla conoscenza, perché è importante che le persone e le cose ci tocchino affinché possiamo e vogliamo saperne qualcosa. Ci tocchino secondo alcuni aspetti della ricchissima polisemia del termine: perché ci coinvolgono (ci riguardano da vicino), perché ci interessano (ci colpiscono e ci affascinano) e perché coinvolgono (investono e sfiorano) i nostri sensi e la nostra mente.
Diciamo che il toccare è indispensabile all’esperienza e alla conoscenza e alla relazione affettiva, eppure ci rendiamo tutti conto anche senza essere degli specialisti che oggi tocchiamo sempre meno sia le cose sia le persone, e che questo avveniva già prima che le misure antipandemiche imponessero il distacco fisico (chiamato ridicolmente distanziamento sociale, come se i panettieri che impastano i panettoni e I fattorini che li consegnano dovessero stare lontani dal proprietario della fabbrica di panettoni). Che cosa ciò può significare? Di fatto tasti e schermi sono le cose con le quali entriamo maggiormente in con-tatto, con la punta delle dita e con lo sguardo, e che sostituiscono oggetti artificiali e naturali, toccati a loro volta da macchinari, strumenti, attrezzi e apparati. Tocchiamo o sfioriamo sempre più tasti – e presto non toccheremo più nemmeno quelli – e sempre meno tocchiamo gli oggetti, e poco tocchiamo le persone, quasi per nulla le persone anziane, i vecchi, delegando questo gesto a chi se ne prende cura a pagamento. Insomma anche se attiviamo ogni momento le punte dei polpastrelli usiamo sempre meno le mani. Le mani delle quali il protofilosofo Anassagora diceva che sono la possibilità stessa dell’intelligenza umana: «Fra tutti gli animali, il più intelligente è l’uomo perché ha le mani». Mettiamo dei media tra noi e le cose, le percepiamo a distanza e tramite intermediazione di schermi, come se toccare con mano la realtà fosse passato di moda, non più importante.

Sapere è toccare
Eppure sappiamo bene che Aristotele riteneva il tatto il più filosofico dei sensi, in quanto esso è prioritario ai pragmata, le cose, gli oggetti (De anima 422-423); il tatto è più generale e più intimamente legato loro della vista. Attraverso il tatto infatti la psyché individua le cose come identiche a sé, e toccando il particolare identifica l’universale. Del resto, tutta la filosofia, nella sua storia, ha cercato di spiegare la natura del pensare con qualche analogia tra il processo del pensare e la percezione sensoriale. Anche se tali analogie non sono rese esplicite, è possibile inferire dai termini e concetti usati dai filosofi che ogni loro tentativo di trascendere il corpo è condizionato in un modo o nell’altro dal suo inizio corporeo. Lo mette ben in evidenza proprio il filosofo del corpo e del toccare per eccellenza, Jean-Luc Nancy. E lo sottolinea Francesca Romana Recchia Luciani in questa sua monografia sul filosofo di Strasburgo, il filosofo del toccare e della relazione, com’ella ce lo presenta. Oggetto del libro e chiave di lettura dell’ampio edificio del pensiero del filosofo Jean-Luc Nancy (Caudéran 26 luglio 1940 – Strasbourg 23 agosto 2021) è il corpo, il corpo che tocca ed è toccato, il toccare, perché noi, scrive Nancy, non abbiamo un corpo, siamo corpo. Siamo corpi in relazione, sottolinea Recchia Luciani, e quella di Nancy è una ontologia, anzi una co-ontologia, ripete, di corpi in relazione (cum e in essendo le preposizioni latine protagomiste del suo mondo filosofico, che è un mondo di corpi e «di contatti, di attraversamenti, di innesti corporei» (Recchia Luciani, Jean-Luc Nancy, p. 101). Per Nancy l’esistenza è esposizione corporea, non c’è altra evidenza che quella del corpo. Il nostro esistere è il toccare: «noi ci tocchiamo in quanto esistiamo. Il nostro toccare è ciò che ci rende noi» (Nancy, Essere singolare plurale, p. 22). Il senso principe della filosofia è però sempre stato la vista. Ma la vista non potrebbe essere una forma di tatto, potremmo chiederci insieme a Aristotele e a Nancy, se alla fine il problema è di come l’incorporeo del discorso e dell’immagine tocca il corporeo del corpo e delle cose e viceversa? Se il problema è di come la res cogitans, la mente cartesiana, tocca la res extensa, la materia e di come la materia tocca la mente? E se la mente, la res cogitans, fosse anch’essa sì cogitans ma anche extensa, come si chiede Freud in un appunto del 1938, aggiungendo subito dopo «weiß nicht davon», non ne sa niente? Se si immaginasse la spazialità come proiezione dell’estensione dell’apparato psichico invece che, kantianamente, condizione apriori del nostro apparato psichico? Insomma il toccare che a livello di vita quotidiana stiamo estromettendo dalle nostre vite pare riemergere da altri aspetti dell’esistenza, in particolare, paradossalmente, nel momento del pensare, del conoscere.

Torrenti e matasse
Coglie e raccoglie, elabora, illustra il pensiero del corpo pensato, fa suo in una sorta di eredità Francesca Romana Recchia Luciani, e lo ripropone nella sua esposizione, condotta in dieci capitoli, della scrittura «torrenziale» di questo autore. Con la suggestiva metafora acquatica («fluviale» definisce l’Autrice anche la scrittura di Derrida su Nancy) Recchia Luciani fa ben capire l’abbondanza, l’impeto, quasi la furia del pensiero di Nancy, affidato a correnti di pensiero e a flussi di parole che escono dalla bocca, dalla mano, dall’intero corpo di questo autore. Jean-Luc Nancy ha visto il suo corpo stesso soggetto a un trapianto di cuore, ha assistito all’ingresso nella sua stessa carne, corpus suuum, di una carne estranea, intrusa, malefica e salvifica, urto traumatico come pure esperienza rivitalizzante. La stessa immagine che Nancy applica ai migranti, e che io, da metaforologa, ritrasformo in onda che si abbatte e abbatte ma insieme risana e fertilizza, acqua che invade e acqua che irriga e dà rinascita, come le acque dell’antico Nilo. L’acqua è infatti elemento di vita e di morte, di distruzione totale («liquidare») e di rinascita o purificazione, ambiguità presente del resto nel fenomeno fisico: l’inondazione distruttrice e l’esondazione benefica.
Altre metafore caratterizzano la scrittura di Recchia Luciani nella sua lettura del filosofo di Strasburgo; quella della Rivoluzione Copernicana, per esprimere la messa al centro della scena filosofica, da parte di Nancy, del corpo facendone il protagonista del pensiero contemporaneo (si pensi anche ai contributi di Foucault e Agamben alla teoria della nuda vita, della vita biologica controllata dalla biopolitica).
Ancora più «toccante» mi è poi parsa la metafora tessile: Recchia Luciani vede e fa vedere a chi legge la comunità singolare plurale dei corpi di Nancy come «una fitta trama in cui si intrecciano nodi e vuoti, allacciature e slegamenti» (p. 14). Non solo: Nancy riesce a presentare, tramite la sua ricerca di origini e la sua creazione di parole (una per tutte, ex-peau-sition), una «dissezione terminologica» nel «dipanare la matassa etimologica che è racchiusa nelle parole» estraendone significati reconditi, fili di pensiero celato, per intrecciarli nella trama di cui sopra.

Singoli e singolare
A questo punto mi chiedo, quale lettrice di Nancy e di Recchia Luciani, se la trama relazionale qui presentata, così fitta e serrata, non faccia perdere di vista la presenza dei fili che necessariamente la compongono. Quando si ripete una delle parole d’ordine dei nostri giorni, «tutto è relazione», o simili, applicandola tout court a Nancy, si finisce per offuscare la presenza dell’io che affianca il tu senza scomparire, del sum che precede il cum e non gli è consustanziale. Si cancella in qualche modo il passaggio del feto, alla nascita, alla condizione umana di individuo unico, singolo, irrepetible, come colse Hannah Arendt nel suo rivoluzionario essere-per-la nascita che scavalcava il detto dell’intera filosofia occidentale dell’essere-per-la morte.
Forse è Jean-Luc Nancy proprio l’autore che esprime con maggiore chiarezza e passione questo concetto, nel suo definire l’essere come singolare plurale insieme. L’individuo è una «intersezione di simultaneità» (Essere singolare plurale, p. 115), scrive Nancy, per questo è singolare e plurale al tempo stesso. L’individuo è diviso, intersecato dalle singolarità, mentre la sua individualità si dissolve nella loro pluralità, aggiunge Nancy riallacciandosi all’idea della realtà quale insieme di singolarità e incontro tra molteplicità enunciata già nel 1969 da Gilles Deleuze. Il soggetto cartesiano, l’io che si costruiva e costruiva, e giustificava, il mondo grazie alla percezione di sé, non è più. Quel monolite unico e singolo appare decomposto in un reticolo di rapporti; non più blocco unico e compatto ma insieme puntiforme di relazioni. Non fisso e sedentario ma mobile e nomade, oltre che strutturato a multipiani o a carattere rizomatico, il soggetto appare quale singolarità libera, non individuo né persona (Deleuze, Logica del senso, p. 100).
Ora, per stabilire un contatto con l’altro corpo, occorre in primis essere il proprio corpo (hoc est corpus meum), il corpo proprio, avvolto nella propria pelle che chiude l’interno all’esterno finché non c’è ex-peau-sition. Ci vuole un corpo affinché ci possa essere contatto, affinché le mani possano toccare altre mani e altri corpi. Ci vuole un individuo perché ci possa essere relazione, o anche se si vuole rimanere Robinson e non si desidera entrare in relazione con l’altro!

Corpus Christi
Uno dei corpi più toccati e che più tocca, nel pensiero cristiano che Nancy pur vuole scardinare e decostruire separando il sacro dai dogmi della chiesa, è il corpo di Cristo, corpus Christi. Lo coglie e lo sottolinea Recchia Luciani, che ricorda che Maria Maddalena non può toccare, dopo la resurrezione, il corpo di Cristo risorto, anzi non può trattenerlo nel suo ritorno al Padre. Lo scrive Giovanni 28, 17, dove dice che Cristo prega di non toccarlo, di non trattenerlo (il famoso Noli me tangere). Ma in Matteo 28, 9, c’è scritto altro. C’è scritto che dopo essere uscito dal sepolcro, Cristo si rivolse alle donne e disse loro: «Rallegratevi! Esse, avvicinatesi, abbracciarono i suoi piedi e l’adorarono».
Non sono un’esegeta biblica, tutt’altro, ma queste parole le leggo, chiaramente. E vedo anche che la pittura sacra ha anticipato l’episodio e raffigurato Maria di Magdala mentre abbraccia i piedi di Cristo quando questi è ancora sulla croce. Forse l’abbraccio di Matteo è permesso perché secondo questo evangelista il corpo di Cristo è ancora in transizione verso il padre, ha ancora caratteristiche umane terrestri. Forse. E forse il grido di Giovanni che trattiene dal contatto ha inciso sull’ermeneutica del testo più delle parole di Matteo. Ammettiamo che quello abbia preso il sopravvento e che la Maria Maddalena di Giovanni non possa toccare quel corpo perché già trasfigurato dalla resurrezione, come il Cristo risorto dell’affresco di Piero a San Sepolcro, con quegli occhi allucinati che hanno visto la morte e l’hanno vinta. Forse il Cristo di Matteo è invece ancora così umano, troppo umano, da poter essere abbracciato. Non conosco la risposta, ma so che questi sono alcuni dei pensieri che sollecitati dalla lettura intensa di un libro intenso come il Nancy di Francesca Romana Recchia Luciani.
Francesca Recchia Luciani
Jean-Luc Nancy. Il corpo pensato
Feltrinelli, 2022
pp. 224, € 16
In copertina: Jan Brueghel il giovane, Noli me tangere, 1640