«Egli danza… egli danza!»: sono almeno due le prospettive a partire dalle quali l’indimenticabile battuta della Ricotta di Pasolini, con la quale un divertito Orson Wells descrive Federico Fellini, può risultare calzante anche per il poeta e filosofo francese Jean-Patrice Courtois. Da un lato la danza è una delle sue grandi passioni: fin da quando, verso la fine dagli anni Settanta, a Nîmes, assistette a uno spettacolo butoh di Ushio Amagatsu. Da allora, come ha riconosciuto in un dialogo del 2011 con Judith Abensour, la danza gli appare come qualcosa di fondamentale e di decisivo, al punto da avere anche affermato che gli è impossibile concepire una vita senza danza, senza la danza in quanto danza. Da un punto di vista poetico ancora più importante è però il fatto che Courtois utilizza la danza anche come un’immagine teorica che gli permette di riflettere sulla poesia. Così per lui una certa forma di danza caratterizza ogni testo poetico. Più precisamente, in ogni testo poetico sarebbe possibile distinguere un gesto coreografato e un gesto danzato, dove la prima espressione designa dei gesti che sono legati all’organizzazione complessiva di un testo, al suo spazio esteriore, mentre la seconda riguarda dei gesti più nascosti, legati alla punteggiatura e all’interno della frase. Seppur distinti, gesto coreografato e gesto danzato non vanno però opposti, ma studiati insieme, nel loro articolarsi.
Courtois lo spiega nel saggio che proponiamo qui per la prima volta in traduzione italiana (la versione originale, Marcher danser. Notes sur l’indéfinition de la “poésie”, può essere letta in «Po&sie» 147, 2014/1, pp. 82-86; ringrazio l’autore e Daniel Pullara per aver discusso con me alcuni aspetti della traduzione. Le foto che la accompagnano corrispondono agli oggetti di alcuni dei testi dei più recenti libri di Courtois: Descriptions, Nous 2021): un saggio che a sua volta si offre ad almeno due possibilità di lettura tra loro complementari. In primo luogo si tratta di una riflessione rigorosa sulla possibilità (e sull’impossibilità) di definire la poesia: una riflessione che può essere preziosa per interrogare qualsiasi altro autore, a partire da due poeti molto diversi come Sanguineti e Pessoa che vengono qui esplicitamente richiamati: loro e, ça va sans dire, il loro modo di danzare. Allo stesso tempo Camminare danzare è però anche un testo che non è privo di tracce degli specifici gesti danzati che caratterizzano la scrittura poetica di Courtois: autore di diversi libri importanti, per ora ancora inediti in italiano, apparentemente molto diversi tra loro, ma a ben vedere legati da gesti «che si tengono sotterraneamente in una affinità che può sfuggire al visibile».
Francesco Deotto
Per ben camminare, non basta astenersi dal danzare
Thomas de Quincey
§1 La poesia non si definisce una volta per tutte né una volta per uno.
§2 Non si può però nemmeno abbandonare la poesia alla indefinizione totale perché, avendo la natura orrore del vuoto, questo abbandono significherebbe basare direttamente sul presente tutte quelle che esistono e proliferano. Altre configurazioni sono preferibili a quella di questa prelazione del presente. L’abbandono di ogni definizione non presenta alcun inconveniente per scrivere, che non dipende da una generalità dell’oggetto, ma per parlare, e perfino per parlarsi, sì. Non è possibile parlarsi (e nemmeno parlare tout court) da pura singolarità a pura singolarità. Perché si cammina, perché si sposta dello spazio, perché il luogo in cui ci si sposta non è lo spazio che si sposta. L’indefinizione è un momento nel senso temporale e la definizione un momento nel senso della fisica. Si è sempre in una configurazione di definizione e di indefinizione.
§3 L’esercizio della definizione non ha senso che come crash test e non, questo va da sé, come identità (o eidentità, se si può osare). Che il muro raccolga l’oggetto non deve impedire che nello slancio della velocità si compia la sospensione concertata del risultato da parte del processo. Marcel Duchamp e John Cage hanno suggerito che si può definire temporaneamente, e perfino per niente. Il momento della definizione contiene dell’«adesso» che viene fatto apparire in un’esperienza del temporaneo. Il troppo generale che si volesse oltre il temporaneo mancherebbe il momento. Il troppo temporaneo che si volesse al di qua del generale mancherebbe il tipo di riflessività che caratterizza tutta l’arte, e quindi la «poesia», ossia la «riflessività non tetica» (Jean-François Lyotard). La riflessività non tetica del poema è costituita dall’implicito situato a una distanza variabile dall’esplicito, che d’altra parte è solo postulabile. La definizione, da parte sua, stabilisce questa distanza in una riflessività non tetica esplicita, situata a una distanza variabile dall’implicito – distanza variabile che qui vuol dire altro che nel poema: la distanza è di fatto (libero) nel poema, che si situa dove l’atto lo propelle e essa è di diritto (regolato) nella definizione, che ha l’obiettivo di situarsi il più vicino possibile.
§4 L’indefinizione della poesia può quindi avvicinarsi e incurvarsi in definizione che viene barrare la definizione più vicina o la più lontana. O entrambe. E in questo spazio della barratura, si può sospendere la questione della verità.
§5 Non avere le risposte alla questione «che cos’è», il ti esti, sembra un principio necessario. Se la poesia non è nient’altro che questione che resta questione, non esiste; se è solo risposta, nemmeno. Né solamente questione, né solamente risposta. Il crash test della definizione è un’ipotesi di esistenza temporanea. La questione «che cos’è» porta sulla singolarità, ed è perché ci si domanda perché qualcosa è che si assume il compito di condurre la questione fino a una singolarità. È perché ci si chiede cosa questa cosa sia, che si scrive o si danza. Il «che cos’è» non può riguardare la generalità della «poesia». Ma ogni singolarità concreta vale come risposta temporanea al «che cos’è» della «poesia», al «che cos’è» della generalità. Perché la singolarità stessa non fornisce risposta alla questione che l’ha propulsa. La singolarità non costituisce risposta al proprio «che cos’è». La «poesia» presa tra definizione e indefinizione si configura come una questione generale alla singolarità e una risposta particolare alla generalità.

§6 Dal punto di vista del Talmud, si sa che la questione è più importante della risposta perché la questione è sempre più universale della risposta. Le risposte, che sono sempre specifiche a una circostanza di pensiero o di situazione, sono un plurale indefinito e ricominciato dalla pluralità stessa. L’infinito della questione prevale sulla finitudine della risposta. Per questo la tradizione ebraica vieta che si lavori da soli a interrogare i testi ed esige che lo si faccia in molti. La pluralità dei presenti fa apparire la pluralità delle presenze che rispondono. La pluralità di presenze che rispondono per la «poesia» si tiene in un luogo di narrazione impossibile: la sua storia.
§7 Ma anche: si può pensare che la risposta, apparentemente secondarizzata, non sia solamente secondaria. Perché solamente la sua finitudine e la sua particolarità, nella misura in cui si manifestano concretamente, possono rilanciare la questione e il questionamento. La questione è infinitamente universale, ma l’infinito non si nutre di sé stesso, non è lui stesso il suo proprio nutrimento. Per i poeti della Pléiade, «innutrition» significava nutrirsi di altri territori del tempo e dello spazio, in breve di ciò che si era costituito come risposte storiche particolari. La famosa querelle (degli Antichi e dei Moderni) è una querelle sulla prevalenza storica delle risposte, come se l’una, l’antica, potesse sfuggire al suo status di risposta particolare e storica. Perché le risposte sono il materiale fertile e sterile della storia. L’humus putrescente conduce senza ricondurre. Si può amare senza riprodurre. L’innutrition serve a rappresentare non a imitare (querelle della mimesis) perché l’humus è una temporalità che smuove lo spazio nel quale si agisce. Le fotografie di Ed Ruscha scattate negli anni Quaranta, le più oggettive, in bianco e nero, le più impersonali – il retro dei piccoli supermercati a bordo strada con i carrelli vuoti e l’assenza di personaggi, o i motel confusi senza persone, che l’America degli Stati Uniti offre in numero infinito – sono, per ammissione dello stesso Ruscha, diventate liriche, molti anni dopo, semplicemente in virtù della distanza temporale. Il tempo sposta lo spazio. La risposta è affare di alimento per domande future che, per diventare alimento, deve prima decomporsi. Non esiste quindi una «fotografia» possibile dell’antico, non c’è mai stata né mai ci sarà. Il principio vale ancorase si sostituisce la parola «antico» con «classico» o «moderno». Le risposte sono i crash test degli atti di pensiero nella lingua o nell’immagine.
§8 La «poesia» non è una categoria, ma un principio di distruzione delle categorie. Se il principio è concepito come locale, si parlerà di distruzione generica – la trasgressione lirica – e se il principio è generale o globale, ed è più importante parlare in questo senso, allora si tratta di una distruzione che non si vieta nulla nella libertà di scoprire dei piani e degli spazi. E «poema» è il nome di ogni atto di scrittura degno di questo nome. Dove si trovano le due posizioni irriconciliabili: o la poesia non ha nulla a che fare con la letteratura ed è un’altra cosa, oppure essa ne è il principio stesso che il paradigma dei generi (o dell’oltre-genere di fronte ai generi) impedisce di percepire. Ulysses, Le anime morte o La Recherche sono dei poemi – il titolo di Gogol’, Le avventure di Čičikov o Le anime morte, è accompagnato dal sottotitolo Poema. Chiameremo poema – La Recherche o Ulysses, per esempio, sono poemi – l’insieme dei procedimenti romanzeschi che, nell’infinità dei dettagli compositivi e frastici, permettono a questo poema di avere la lunghezza e la struttura che ha.
§9 Il «romanzo» mostra alla poesia dove sta la sua fragilità e la «poesia» mostra al romanzo la sua fragilità: il «poema» è il criterium del romanzo, l’atto il criterium della «poesia». La precauzione uccide la poesia, troppa precauzione la svuota. Ciò che è fragile è l’atto nella sua precauzione che attiva la lingua per produrre un linguaggio, la «punta fragile» come diceva Oskar Becker. Il tatto dell’atto in atto è altra cosa rispetto alla precauzione d’intenzione. La «poesia» non vuole intenzioni, né ragioni, ma degli atti e delle risposte produttrici di finitudini non repertoriate. La «poesia» è un atto. La questione wittgensteiniana posta qui consiste nel domandarsi se gli atti del poema possano essere l’oggetto di una descrizione dopo aver respinto la spiegazione. E se descrivere gli atti, ammesso che sia possibile, avvicini a una definizione della «poesia» nella sua generalità impossibile. Dove si ritrova la configurazione di definizione e di indefinizione, se si è disposti ad ammettere che definire e descrivere sono uniti in una correlazione indistricabile.

§10 Due gesti fissano il poema alla lingua: il gesto danzato e il gesto coreografato, che attraversano entrambi il dire del poema. Come la danza e la coreografia sono due ordini diversi nell’ambito dell’arte che si designa con il nome di «danza», allo stesso modo possiamo leggere i poemi come sollevati da un gesto danzato, o da una sequenza di questi gesti, e un gesto coreografato, formante infine un insieme articolato di questi gesti.
§11 Il gesto coreografico è modificabile in quanto è un involucro operazionale e costruttivo del dispiegamento della lingua e delle sue parole: dichiara di parlare di questo o di quello, declina lo spazio in cui dichiara di parlare, inquadra. Il gesto danzato è meno modificabile, non soltanto fonatorio, ma corporeo in tutto, supporto di continuità: effettua i gesti nella frase, inclina la sintassi in questo o quel senso, “dequadra”. È per questo che si possono vedere delle opere dispiegarsi in dei libri realizzati da una stessa mano che espongono dei gesti coreografici molto diversi, ma dei gesti danzati che si tengono sotterraneamente in una affinità che può sfuggire al visibile. Si tratta di una affinità che non si vede ma si percepisce, che richiede di essere percepita per essere vista. Al livello più granulare della fisica della lingua, si percepiscono sempre le più piccole differenze come tante «piccole percezioni» che non si vedono. E anche le più piccole affinità si percepiscono, ma attraverso un’altra focale, tanto spostate o smarrite quanto possono esserlo per opera dei gesti coreografici differenziali.
§12 Dai due tipi di gesti si evince che esistono due formule della loro relazione con la «poesia». O il gesto danzato e il gesto coreografato possono perdersi di vista, oppure non possono farlo. Ciò che più è particolarmente interessante mi sembra risiedere nella configurazione nella quale la curvatura dello spazio esteriore (il coreografato) sembra uscire dalla curvatura dello spazio interiore (il danzato). «Interiore» qui non ha nulla a che fare con l’interiorità, ma con l’interno della frase, che è la sua curva fisica e semantica. È forse questo che stabilisce un linguaggio. E questo moebius, attraverso questa curvatura integrata, permette di aumentare lo spazio di dispiegamento dei piani. La pluralità dei piani non si separa più dallo spazio. Due curvature (coreografia e danza), ma un solo spazio (linguaggio).

§13 Prendiamo un esempio: Edoardo Sanguineti, Corollario (Feltrinelli 1997; tradotto in francese da Patrizia Atzei e Benoît Casas, con una prefazione di Jacques Roubaud, Nous 2013). Il gesto coreografico qui è l’autobiografia, quella che dichiara il luogo di svolgimento dei poemi, tutti legati a delle circostanze di vita, di viaggi, di città, di persone. Il gesto danzato tiene al verso, alla sua punteggiatura (le parentesi interne, i due punti, le parentesi dopo i due punti, la digressione come ritorno e non come deviazione, un teatro di virgole e segni che graffiano ciò che il principio dichiarativo del poema fa emergere, la punteggiatura come prossimità del corpo, come pudore del corpo, come limiti dello spogliare, insieme strip e tease della carne, fin sulla scena). Il gesto coreografato stabilisce la scena dell’ammirabile spogliare (le città, le circostanze, i corpi delle donne e i corpi di donne) e il gesto danzato realizza la curvatura della svestizione, il suo ritmo, il suo ancheggiare, la sua confessione che apre un’altra scena che, forse, vorrebbe figurare l’altra scena. Nell’articolazione dei due gesti, i due punti costituiscono la clausola sistematica del poema e, quindi, formano la sua ultima parola in quanto ultima punteggiatura che apre al poema successivo. E la carne che si sposta nel tempo e nello spazio, il corpo designato di chi scrive, ridefinisce ciò che viene chiamato «invecchiare», ovvero che un corpo si sposta nel tempo e nello spazio. Il gesto autobiografico consiste nel presentare il viaggio (spostamento nello spazio) come l’occasione del bilancio della carne (spostamento nel tempo). Le lingue straniere all’italiano, e la loro immensa pluralità presente nella loro fisicità e vocalità proprie, introducono anche lo spostamento nel tempo e lo spazio all’interno della frase sulla quale proiettano una danza di lingue. Il termine «straniero» testimonia dello spazio (il paese del corpo) e testimonia del tempo (la memoria del corpo). Il gesto coreografato formula il quadro dello strip, cioè della banda che passa per i luoghi e i momenti (coordinate della coincidenza spazio-temporale) – talvolta gli strip di terra o di mare sono anche tradotti con le lingue di terra o di mare – e il gesto danzato tiene al ritmo del tease e al suo svelamento ingannante ingannato di un bordo su cui non ci si può che sporgere.
§14 L’eteronimia di Pessoa può da parte sua pensarsi come il gesto di chi rende visibile la pluralità dei gesti coreografici, gli eteronimi, il paganesimo, il futurismo, il classicismo, ai quali associa ogni volta un gesto danzato. Il partito preso eteronimico è quindi quello di una stretta associazione tra il gesto coreografato e il gesto danzato, nel senso di una dipendenza oggettiva del gesto danzato rispetto al gesto coreografato, unita alla ricerca di un’indipendenza soggettiva del gesto danzato riguardo al coreografato. Vi è forse anche da definire, al di là di questo doppio regime, un gesto danzato trasversale alle eteronimie coreografiche. Cosa che potrebbe voler dire che ciò che l’eteronimia permette tiene a che il «personale» sia il salto incostante e costante dal pre-personale al post-personale e viceversa. L’impersonale sarebbe il più proprio della «persona». Nell’ascensore che porta la persona verso al «personale», la questione è quante persone (pessoa in portoghese vuol dire la «persona» in questo senso) possono stare nell’ascensore e verso quali gesti si dirigono (a quale piano scenderanno).
§15 I gesti nella frase, la loro densità, il loro alleggerimento in seno alla prima, i loro luoghi di svolgimento e di esposizione, potrebbero, esposti auditivamente, rilevare solamente della musica contemporanea più colta come metafora. Anche il corpo danzante avrebbe tutte queste inflessioni, quelle grigie inudibili e invisibili e quelle più accessibili alla percezione. La punteggiatura deve essere compresa come la somma dei gesti confrontati ai gesti sintattici, semantici e ritmici.
§16 Le frasi sono delle confrontazioni di gesti in uno spazio assolutamente variabile. Un algoritmo – sequenza finita di istruzioni gestuali – un algoritmo per frase. Quindi nessun algoritmo per il poema e ancor meno per l’insieme dei poemi formanti libro. La confrontazione e la coordinazione di tutti questi gesti proiettati sulla frase costituiscono la base del gesto danzato. L’insieme delle frasi organizzate da questi gesti costituisce il supporto del tono. Il tono opera la giuntura del coreografato e del danzato.
§17 Le definizioni non sono che delle tracce filamentose del lavoro che relazioni di ogni sorta intrattengono con questo lavoro, comprese le relazioni retoriche di presentazione e rappresentazione effettuate da chi scrive. La relazione del lavoro/atto al lavoro/definizione si oblitera sempre in modo obliquo. Quando si definisce, non si danza allo stesso tempo. Dare alle affermazioni lo statuto di impronte mentre si è nel poema. E dare alle affermazioni lo statuto di testimone formulabile dell’impronta mentre si è nel tentativo di descrizione. Questi sono i compiti.
(Traduzione di Francesco Deotto)
In copertina: Alexandre Dovjenko, La Terre, 1930