Bruce Nauman e la mosca che continua a ronzare

21/12/2022

Cosa fa un vero artista? Una domanda disarmante, di quelle che fanno i bambini; con in più la malizia di quell’aggettivo che da solo evoca secoli di discussioni estetiche. Migliaia di aforismi, dai più banali ai più brillanti, potrebbero essere citati per rispondere a questa domanda, molti dei quali proposti dagli stessi artisti. Uno, molto suggestivo, è stato trasformato in opera d’arte mezzo secolo fa ed è esposto in questo periodo nella mostra che l’Hangar Bicocca ha dedicato a Bruce Nauman.

Americano, classe 1941, Nauman è uno dei più rigorosi e influenti rappresentanti dell’arte contemporanea, o meglio, del paradigma post-duchampiano, che ha contribuito ad affermarsi a partire dalla metà degli anni sessanta. Non è uno di quegli arti-star che hanno trasformato il loro nome e certe loro opere in icone popolari (nel bene o nel male). Eppure è uno degli artisti più influenti e rispettati, in particolare dai colleghi; è da tempo presente nei maggiori musei internazionali ed è ancora sulla cresta dell’onda dopo quasi sessant’anni di attività, come dimostrano, oltre alle recenti numerose esposizioni in gallerie di varie parti del mondo, le importanti mostre museali che negli ultimi tempi gli sono state dedicate (anche con opere nuove): al MoMA di New York, tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019; alla Tate Modern di Londra, tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021; alla Punta della Dogana a Venezia, per oltre un anno tra 2021 e il 2022; e ora all’Hangar Bicocca, fino al gennaio 2023.

Quest’ultima, col titolo secco e molto “naumaniano” di Neons Corridors Rooms, si è concentrata sui corridoi, il più raffinato e fotogenico dei quali è posto proprio all’ingresso. Ad essi si aggiungono alcune famose, ipnotiche scritte al neon e alcune grandi installazioni, compreso il suggestivo percorso esterno fatto solo di voci, che riprende il lavoro presentato nella Turbine Hall della Tate Modern. Sono la parte più “spettacolare” (consona alle dimensioni dell’Hangar) e più idonea a offrire un’esperienza estetica a molti livelli (in linea con la sua politica culturale). E rappresentano anche gli aspetti forse più immediatamente affascinanti di questo artista che in realtà, più che affascinare, sembra voler sconcertare e disorientare il pubblico; o addirittura «colpirlo sulla nuca, di sorpresa», come dice egli stesso, «con un’intensità che non ti permette di capire se ti piace o no».[1] Le opere più importanti di Nauman non puntano al godimento “estetico”: sono elementari, scarne, a volte rudimentali; e anche quando fanno “spettacolo” nascondono trappole e inganni.

Bruce Nauman, Dream Passage with Four Corridors, 1984 (particolare) ph. Agostino Osio

Una trappola potrebbe dunque essere anche l’opera-aforisma che risponde alla domanda iniziale: il famoso neon spiraliforme con la scritta The True Artist Helps the World by Revealing Mystic Truths, realizzato nel 1967.[2] E se questa risposta fosse come la lettera rubata di Poe: messa in evidenza per meglio nasconderla? «Please/Pay attention/Please», si legge su un’altra opera grafica di Nauman di quegli anni. Ma a cosa dobbiamo stare attenti? Cosa c’è dietro una risposta apparentemente così semplice e diretta? Per scoprirlo, propongo di aggirarla, passando per altre due opere: la più nascosta e la più “noiosa”.

L’opera più nascosta

Per scovare l’opera più nascosta e meno spettacolare della mostra bisogna curiosare dietro una paretina costruita apposta per occultare una porta misteriosa. Varcata la soglia, mi trovo in un ambiente claustrofobico, un cubo bianco di due metri e mezzo di lato, male illuminato da una fioca lampadina che pende al centro del soffitto. È vuoto, ma abitato da una presenza invisibile e inquietante: una voce maschile strozzata che biascica delle parole lentamente, quasi rantolando. Dopo un po’ capisco che continua a ripetere due brevi frasi, in modi sempre diversi: Get out of my mind. Get out of this room (questo è anche il titolo dell’opera, ideata nel 1968, l’anno dopo il neon spiraliforme). Il tono è forzato in modo innaturale, a volte sofferto, a volte astioso, a volte supplicante. Sembra la voce di un fantasma psicotico che infesta quest’anomala cripta inopinatamente annessa alla cattedrale milanese dell’arte contemporanea.

Bruce Nauman, Get Out of My Mind, Get Out of This Room (particolare), 1967

Non c’è niente da vedere, nessuna traccia di amplificatori. L’unico appiglio per gli occhi è la lampadina: la fisso e per un attimo mi sembra quasi pulsare a ritmo con le parole. In realtà, la voce non ha un punto d’origine, riempie tutto lo spazio e lo trasforma in un’enorme cuffia che ingloba il mio corpo e mi fa fa sentire immerso in essa. Sono davvero dentro la testa dell’artista.

Nonostante il disagio, mi sforzo di rimanere e mi appoggio a un angolo. Le persone entrano un po’ intimorite, si guardano intorno ed escono quasi subito, forse perché non c’è niente da vedere, forse perché sentono l’imbarazzo di aver invaso uno spazio troppo intimo. In ogni caso, anche se non hanno la pazienza di ascoltare e capire la richiesta imperativa della voce, la loro reazione sembra dimostrare che lo speech act sta ottenendo il suo effetto: spinge fuori gli spettatori. Ma è questa l’intenzione dell’artista?

Se un’opera d’arte implica sempre un invito ad entrare in contatto con essa, l’ingiunzione di andarsene crea una situazione di tensione che ricorda il double bind di Gregory Bateson. Qui l’artista sembra voler proibire contemplazione e attenzione; o almeno renderle difficile e sgradevoli, facendo sentire intrusi gli spettatori. E lo fa in prima persona, anche se attraverso una performance “mediata” dalla riproduzione tecnica, che trasforma la sua voce in spazio sonoro abitabile, “scultura acustico-ambientale” slegata dalla presenza fisica dell’io e dall’istante, che diventa un perpetuo flusso circolare. Ma la fisicità della voce, l’intimità forzata dell’ascolto in uno spazio ristretto e il “tu” dell’imperativo rendono vivissima questa presenza.

Dunque, il mio essere qui e ora, dentro questa voce che si rivolge a me, è indispensabile all’opera.

E altrettanto indipensabile è la tensione che provo. L’artista mi ha teso una trappola: mi ha attirato dentro la sua opera e ora mi fa sentire un intruso penetrato illegalmente nella sua mente ansiogena. Uno scherzo grottesco, da clown che gioca con lo spettatore come il gatto col topo.

L’opera più “noiosa”

Quest’ultima immagine è stata probabilmente attivata da un’associazione che la mia memoria ha fatto con la seconda opera, che è un’altra stanza, anch’essa in penombra, allestita all’estremità opposta dell’Hangar Bicocca. Le due stanze sono agli antipodi: piccola e soprattutto acustica la prima; enorme e soprattutto visiva la seconda; l’una degli esordi, l’altra della maturità del percorso artistico di Nauman; l’una all’inizio, l’altra alla fine del percorso interno all’hangar.

Passando per un corridoio, entro nell’altissimo “cubo” che per l’occasione ha il soffitto ribassato e assomiglia a un ampio capannone buio; la luce proviene dai grandi rettangoli luminosi di diversi colori proiettati sulle pareti. È una stanza virtuale, ricostruita attraverso sette immagini, alcune sottosopra, che riproducono alcune aree dello studio attuale dell’artista, un vero capannone nel deserto del New Mexico. L’artista qui è assente e invece della sua voce si sentono, confusi e distorti, i rumori della notte dentro e fuori lo studio. I video, registrati con una camera a infrarossi e virati in colori acidi, sembrano foto perché nello studio, tra gli scarti e i materiali di lavoro, non succede niente. Ci vuole molta pazienza o fortuna per riuscire a osservare qualche piccolo evento in quasi sei ore: il volo di una falena, il passaggio furtivo di un topo, la scorribanda di un gatto. Ecco dunque l’associazione: il gatto e il topo, performer saltuari e inconsapevoli al posto dell’artista.

Bruce Nauman, Mapping the Studio II (Fat Chance John Cage), 2001 ph. Agostino Osio

L’opera è Mapping the Studio (Fat Chance John Cage), del 2001; o meglio una sua versione arricchita dalla periodica rotazione delle immagini e dei colori. Nauman ha “mappato” il suo studio scegliendo le varie porzioni riprese dalla videocamera, registrando i rari movimenti degli animali che le attraversano di notte e poi annotandoli scrupolosamente assieme ai rumori nelle schede che qui sono appese nel corridoio d’accesso: una specie di partitura del caso, che rimanda a John Cage.[3]

Sembra che ancora una volta l’artista mi abbia teso una trappola: dovrei rimanere ore qui dentro, per riuscire a vedere se il gatto prenderà il topo. Confesso che non ho resistito tanto, anche se sapevo che la noia non è un difetto per un’opera dedicata all’artista che ha scritto: «Nello Zen si dice: se qualcosa è noioso dopo due minuti, provalo per quattro. Se è ancora noioso, provalo per otto minuti o sedici o trentadue… Alla fine scoprirai che non è affatto noiosa, ma molto interessante».[4]

Tuttavia, nel tempo che sono rimasto ho avuto una piccola intuizione: ero ancora nella testa dell’artista, che fissa insonne il suo laboratorio indifferente e refrattario alla creatività, almeno in apparenza.

Dentro e fuori lo studio-mente

C’è infatti un importante fil rouge che lega le due stanze (e anche il neon, come vedremo); un filo che tocca vari temi – il rapporto tra artista e opera, vita e arte, artista e spettatore, e, più in astratto, tra dentro e fuori – tutti condensati in quello spazio prototipico che è lo studio, ovvero il luogodella “creazione”artistica; o meglio della sua potenzialità.

«Lo studio è l’immagine della potenza – la potenza di scrivere per lo scrittore, la potenza di dipingere o scolpire per il pittore o lo scultore», sostiene Giorgio Agamben. «Una forma di vita che si mantiene in relazione con una pratica poetica, quale che sia, è sempre nello studio, è sempre nel suo studio. (Suo – ma in che modo quel luogo, quella pratica le appartengono? Non è vero piuttosto il contrario – che essa è in balìa del suo studio?)».[5]

Anche Nauman è sempre in balìa del suo studio, cioè dello spazio che rappresenta il rapporto con la potenza. E queste opere sembrano voler mettere in scena proprio questa condizione.

Get Out of My Mind (ideata in un periodo in cui l’artista sentiva intensamente la pressione per la richiesta di nuove opere) è allo stesso tempo mente estroflessa e studio introflesso, l’una e l’altro fusi nella voce dell’artista che oscilla, come in una figura gestaltica, tra il vuoto fisico e quello mentale. Si potrebbe dire che è il buio della potenza che precede la creazione, la messa in scena del blocco dell’artista, resa emotivamente incandescente grazie alla voce nel vuoto.

Mapping the Studio (ideata in un momento in cui l’artista si sentiva svuotato dopo alcune opere molto impegnative) oscilla invece ironicamente tra l’occhio dell’artista fisso nel vuoto e il caos indifferente del mondo: potrebbe essere la depressione post partum, lo sguardo dell’angelo malinconico di Dürer attorniato dai suoi strumenti inerti, ma distratto, di tanto in tantissimo, dal passaggio di un topo.[6]

Nel primo entriamo in una mente-studio costruita con emozioni sonore negative. Dicendoci che è inutile cercare qui l’arte, Nauman ce ne offre un esempio che inverte fuori e dentro (lo stesso ascolto è allo stesso tempo dentro e fuori i corpo), trasforma il suono in spazio musicale (con l’iterazione e la variazione, tipicamente minimalista) e crea una grande tensione.

Nel secondo restiamo intrappolati dentro lo spazio dello studio, ma lo guardiamo da fuori, spettatori  che si ostinano a cercare “qualcosa di artistico” dove ci sono solo gli avanzi dell’arte; senza accorgerci, per il nostro tempo pressato da una continua urgenza, che è proprio in quei rifiuti e nell’attesa di qualche germe del prossimo lavoro che si nasconde l’opera.

Lo studio, per Nauman, è un’estensione della mente, che diventa opera perché trascende la biografia e si presenta come la mente estroflessa e “spazializzata” di quella figura paradossale che è l’artista secondo il paradigma post-duchampiano, abbandonato alla completa libertà da qualunque canone e da qualunque limite. Queste opere mettono in scena la mente dell’artista, rovesciata come un calzino, che diventa il luogo in cui egli affronta sempre di nuovo l’apertura alla potenza e le domande impegnative che essa comporta.

Bruce Nauman nel suo studio di San Francisco, 1966

Il “vero artista”: da solo, nello studio

Questo ci riporta alla domanda iniziale e all’opera con risposta incorporata: «il vero artista aiuta il mondo rivelando verità mistiche». Per cercare di interpretarla si potrebbe speculare sulla forma a spirale, simbolo antico e denso di associazioni filosofiche, biologiche, antroposofiche; oppure sulla scelta del neon, scrittura fatta di luce, e sulla scelta dei colori; oppure ancora evocare associazioni col labirinto.[7] Ma temo che muoversi nella nebulosa di senso che si crea quando ci si pone in modalità simbolica, in questo caso finisca solo per alzare una cortina fumogena, per quanto affascinante.

Con Nauman bisogna sempre stare in guardia: benché punti all’impatto immediato, lavora sempre sullo spiazzamento e la tensione aporetica, cioè il dilemma che rimane indecidibile. Anche questa scritta, come le due opere precedenti, è una trappola. Di certo è anch’essa legata allo studio d’artista, innanzitutto per motivi biografici. È l’opera più giovanile presente a Milano e nasce – assieme a un’altra risposta, molto diversa, alla stessa domanda – in un momento cruciale della carriera dell’artista.

I primi interessi di Nauman erano stati la musica (aveva studiato la chitarra e suonava il basso) e la matematica. Si era iscritto al corso di matematica dell’università del Wisconsin, ma poco dopo aveva deciso di diventare un artista ed era passato al corso di arte, dove aveva cominciato a dipingere. La prima svolta arriva quando, nell’autunno del 1964, si trasferisce all’Università della California, nella sede di Davis che aveva da poco avviato un nuovo corso d’arte. Agli studenti veniva assegnato uno studio ma senza alcun compito: dovevano semplicemente fare qualcosa, qualunque cosa. Nauman abbandona quasi subito la pittura (scelta difficile, ricorda, perché gli piaceva) e passa alla scultura, seppur usando materiali inediti. Realizza anodini oggetti in fibra di vetro e resina o in lattice: forme elementari, rozze e indefinibili, come pezzi di qualcos’altro, a volte vagamente biomorfici. Sembrano parodie degli oggetti minimalisti perfettamente geometrici che in quegli anni stavano conquistando le riviste d’arte. Già allora però cominciava a manifestarsi il suo eclettismo: nel 1965 usa il suo corpo come materia scultorea nella sua prima performance (una sequenze di posizioni rigidamente predeterminate in relazione al pavimento e alla parete) e comincia a realizzare i primi film.

La svolta decisiva arriva però nell’autunno del 1966. Dopo la laurea e una mostra a Los Angeles, si trasferisce, con moglie e figlio appena nato, a San Francisco, dove trova un lavoretto come docente di scultura e affitta un vecchio negozio di alimentari, che adibisce a studio. Ha ventiquattro anni, un sacco di tempo libero (insegna solo un paio d’ore la settimana) e lo studio vuoto: «Non c’era niente perché non avevo soldi per i materiali», racconta in un’intervista. «Così fui spinto a esaminare me stesso e ciò che stavo facendo».

Più che la mancanza di mezzi, però, il punto di catastrofe nella sua carriera fu l’isolamento dall’ambiente creativo della scuola e il trovarsi faccia a faccia con l’immagine della potenza dello studio vuoto: «Molte delle cose che facevo prima non avevano più senso. Fui spinto a chiedermi cosa fa un artista rimasto solo nello studio. La mia conclusione fu che, se ero un artista ed ero nello studio, qualunque cosa stessi facendo era arte». E visto che non faceva altro che camminare avanti e indietro, ecco i film con le camminate ossessive, più tardi trasformati in video, come Walking with Contrapposto, presente all’Hangar Bicocca.[8]

È una risposta quasi banale, decisamente diversa da quella scritta col neon. E che rischia di essere fraintesa: il suo camminare avanti indietro non diventa automaticamente arte solo perché viene registrato. Infatti in quell’intervista aggiunge subito: «la questione è allora come strutturare queste attività per farle diventare arte o dare loro una qualche unità e coerenza per renderle disponibili alla gente. A questo punto l’arte diventa più un’attività che un prodotto.[…] Cosa fare del quotidiano è un problema artistico». Quel pezzo di vita, dunque, diventa non arte, ma problema artistico; che va affrontato “tecnicamente”, anche quando si decide di non usare tecniche codificate come la pittura, la scultura o la musica.

Una tecnica “senza tecniche” ridotta all’essenziale era quella che aveva indicato John Cage, i cui scritti Nauman conosceva bene. Cage aveva mostrato che se la musica è dare forma al tempo, la si può fare con qualunque materiale sonoro, compreso il rumore e il silenzio; aveva composto un pezzo togliendo tutto quello che si poteva togliere e lasciando solo tre pause di durata prestabilita: finestre di silenzio da cui far entrare il brusio casuale della vita. Ecco dunque come l’arte si può fondere con la vita: ritrovando quel suo germe minimo originario che è il ritmo (del tempo e/o dello spazio).

Nauman ci arriva a modo suo. Dà forma allo spazio e al tempo usando innanzitutto quello che aveva a disposizione: lo studio come “supporto”; il proprio corpo come materiale plastico semovente e strumento ritmico (ma anche come matrice per calchi anomali e astratti); e poi materiali vari di qualunque tipo, come la farina sparsa sul pavimento e le pellicole (facilmente reperibili da quelle parti) per riprendere le sue performance minimaliste, astratte e stralunate.

Un altro “materiale” a disposizione nello studio vuoto a cui Nauman era molto interessato è il linguaggio, o meglio certi usi anomali del linguaggio: giochi di parole o espressioni idiomatiche trasposte visivamente, come il calco From Hand to Mouth, che trasforma in scultura nonsense un modo di dire molto sensato e concreto.[9]

Ma l’ispirazione più importante per il lavoro con le parole che Nauman comincia a fare in questo fase cruciale sono le Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein, che hanno al centro proprio il tema del linguaggio. Da esse prende spunto la sua prima opera testuale: A Rose Has No Teeth (lead Tree Plaque). La frase è presa da un passaggio in cui il filosofo mostra come frasi grammaticalmente corrette, comprensibili e a prima vista vere, hanno in realtà un senso sfuggente.[10]

Da Wittgenstein, però, Nauman non prende solo qualche spunto occasionale; prende piuttosto un certo modo di pensare, un «modo di mettere in questione le cose, di prendere un ragionamento e seguirlo finché scopri che ha senso o che non ce l’ha». È la ricerca dei giochi linguistici in cui si rivelano le trappole che il linguaggio tende alla filosofia: quel continuo inventare esempi con cui il filosofo mette alla prova frasi quotidiane mostrando i problemi che si creano quando si confondono i giochi. Sono queste ambiguità, queste trappole nascoste nel linguaggio, ad affascinare Nauman.

Bruce Nauman, Self-portrait as a Fountain, 1966-67

Misticismo e/o pubblicità?

L’ambiguità che dà origine al neon si manifesta ancora una volta nello studio-mente del giovane artista.[11] Mentre rimugina nella vecchia drogheria di cui aveva preso possesso, i suoi occhi incappano nella scritta che è rimasta sulla vetrina, la pubblicità di una birra, e comincia a riflettere sull’inversione esterno e interno. Vista da fuori è solo una pubblicità; vista da dentro diventa una scritta misteriosa. In quel luogo, però, non c’è più un droghiere che vende birra, ma un’artista che pensa all’arte. Ecco allora come creare una tensione visiva e concettuale allo stesso tempo: parlare del “vero artista” ma col neon della birra, giocando con l’inversione dentro/fuori e la confusione medium/messaggio. Il messaggio parla degli artisti; il medium suggerisce che è una scritta pubblicitaria appesa in vetrina: dove prima si vendevano generi alimentari ora si rivelano verità mistiche.

Ma sono verità mistiche o trucchi da imbonitore? Nauman vuole comunicarci una sua convinzione o sta giocando su un luogo comune romantico? È significativo che nelle interviste in cui ha parlato di quest’opera  abbia sempre dichiarato l’indecidibilità dell’affermazione. Alla fine del 1966, mentre ancora stava ultimando il neon, all’intervistatore che gli chiede se ci crede, Nauman risponde: «Penso che dovremmo lasciare aperta la questione». Vent’anni dopo conferma: «È vera e non vera allo stesso tempo»; ma aggiunge un aspetto significativo: «La cosa più difficile di tutto il pezzo fu per me la frase. Era una specie di test, come quando dici qualcosa a voce alta per vedere se ci credi. Una volta scritta, potevo guardare quell’affermazione […] da un lato era un’idea del tutto sciocca eppure, dall’altro, ci credevo».[12]

Se quell’opera-aforisma è un test, allora non è una risposta, ma una delle sue, personali “Ricerche filosofiche”, che non sono fatte di parole, quanto piuttosto di “pratiche poetiche” all’interno dello studio trasformato in tabula rasa della potenza creativa.

Le idee diventano azioni sulla materia, qualunque materia. In questo senso, Nauman è un artista esemplare del paradigma post-duchampiano: per lui la potenza non ha un medium di elezione, si esercita su un medium qualunque. E quando tra le materie scelte c’è il linguaggio, ciò che conta non è tanto ciò che si comunica, quanto il come. Il come scelto di Nauman è l’ambiguità irriducibile, la tensione tra quelle che egli chiama «informazioni sghembe», cioè non tanto contraddittorie, ma in un rapporto sfuggente, come due rette sghembe, né incidenti né parallele.[13]

Bruce Nauman, Walking in an exaggerated manner, 1967-68

Alla fine, dunque, rimaniamo anche noi sospesi tra dentro e fuori, tra scetticismo e misticismo. La trappola è questa: l’artista ci comunica cosa fa un vero artista e, allo stesso tempo, ci fa vedere un’opera d’arte che, come tale, non comunica niente. Quella “cosa” oscilla impercettibilmente tra una frase ben formata e apparentemente comprensibile, e una forma realizzata con neon luminosi come uno slogan pubblicitario, il cui senso ci sfugge. Forse perché è anch’essa, in qualche modo, una “verità mistica”?

Il Wittgenstein del Tractatus avrebbe detto che non si possono rivelare verità mistiche, per il semplice fatto che il mistico è indicibile; e se l’arte ha a che fare col mistico non è perché lo dice, ma perchè mostra l’indicibile «sentimento del mondo». Il Wittgenstein delle Ricerche avrebbe invece detto che sono giochi linguistici diversi: quando si esprime un’emozione o un sentimento si usa una grammatica diversa da quella che si usa quando si descrive qualcosa; e solo in questo secondo gioco si può parlare di vero o falso. Nauman, però, non vuole, come Wittgenstein, «indicare alla mosca la via di uscita dalla bottiglia». Vuole invece mettere lo spettatore dentro la bottiglia e lasciarlo ronzare in cerca di una via d’uscita.

Due anni dopo il neon di Nauman, nelle sue tesi sull’arte concettuale Sol LeWitt scriverà: «Gli artisti concettuali sono mistici piuttosto che razionalisti. Essi saltano a conclusioni che la logica non può raggiungere».[14] Nel caso di Nauman, però, non c’è alcuna conclusione. C’è solo un salto che rimane sospeso nel vuoto.

Bruce Nauman, Walking a Line, 2019

Nauman non fa mai capire a che “gioco linguistico” sta giocando. Ci intrappola nelle sue “informazioni sghembe” e in questo modo ci fa capire che la “magia” dell’opera d’arte, o almeno la magia sfuggente e introversa delle sue opere senza trucchi ed effetti speciali, è la tensione che si crea quando si rimane sospesi sul filo del dubbio, teso sopra il magma dell’interpretazione. Tensione che corrisponde alla condizione del vero artista nello studio, di fronte al vuoto della potenza. Dove l’aggettivo indica un’esigenza etica che Nauman ha sempre sentito e che consiste semplicemente nella fedeltà a questa condizione: rimanere aperto alla potenza dello studio e porsi sempre di nuovo le domande che ciò richiede.

La risposta del neon è in realtà una domanda sempre in sospeso. È la mosca che continua a ronzare, perché nell’arte non c’è una via d’uscita. Ce ne sono infinite.

BRUCE NAUMAN. Neons Corridors Rooms
A cura di Roberta Tenconi e Vicente Todolí con Andrea Lissoni, Nicholas Serota, Leontine Coelewij, Martijn van Nieuwenhuyzen e Katy Wan.
Pirelli Hangar Bicocca, Milano
fino al 26 febbraio 2023

In copertina: Bruce Nauman, The true artist helps the world revealing mysthic truths, 1967


[1] Nauman cit. in  Janet Kraynak (ed), Please Pay Attention Please: Bruce Nauman Words, MIT Press, 2005, p. 320. (Dove non altrimenti non specificato, tutte le successiva citazioni di Nauman sono prese e tradotte da quest’opera).

[2] Nel titolo completo dell’opera, alla frase è aggiunta la parentesi: (Window or Wall Sign).

[3] L’ironico sottotitolo ha una storia buffa: è la frase contenuta in un fax che l’artista aveva inviato come suo contributo a una mostra in onore del musicista e che il curatore aveva frainteso pensando fosse un rifiuto: la frase è infatti un gioco di parole che fonde l’espressione idiomatica “fat chance”, per dire “molto improbabile”, con l’importanza del caso esaltata da Cage. Cfr. Please Pay Attention Please: Bruce Nauman Words, op. cit.

[4]  John Cage, Silence, Wesleyan University Press, 1961.

[5] Giorgio Agamben, Autoritratto nello studio, Nottetempo, 2017, p. 13-4.

[6] Nauman racconta che Mapping the Studio nasce da un momento di frustrazione che improvvisamene si sblocca quando nota l’insolita invasione di topi nel suo studio. Cfr. Please Pay Attention Please, op. cit., p, 398.

[7] Stefano Bartezzaghi ha proposto il labirinto come filo conduttore dell’intera mostra di Nauman: “Nei labirinti di  Bruce Nauman”, Doppiozero. Le analogie che propone sono interessanti, soprattutto quando lavorano sulla topologia e sul carattere “oulipista” dell’opera linguistica di Nauman, già evidenziato a suo tempo da Paolo Fabbri (“Elusive signs: l’enig-mistica di Bruce Nauman” in Quaderni sull’opera d’arte contemporanea. Vol. 2: sulla 53a Biennale di Venezia, et al. / edizioni, Milano, 2011, pp. 19-30). Tuttavia, i labirinti si percorrono facendo delle scelte; invece le opere di Nauman sono soprattutto trappole: aporie che lasciano in sospeso lo spettatore, lo mettono di fronte a tensioni irrisolte e rendono impossibile le scelte.

[8] Nel video si vede l’artista che cammina lentamente avanti e indietro ancheggiando vistosamente all’interno di uno strettissimo corridoio in modo da assumere la tipica posa della scultura classica definita appunto “contrapposto”. Le pareti sono posizionate alla distanza determinata dall’escursione del movimento delle anche. Quest’opera ha dato origine al primo dei corridoi. Ad essa e alle sue recenti e spettacolari varianti era dedicata la mostra veneziata alla fondazione Pinault.

[9] Vivere “dalla mano alla bocca” significa guadagnare solo quanto basta per sfamarsi (una probabile allusione alla situazione della famiglia Nauman al tempo).

[10] «Infatti, dove mai una rosa dovrebbe avere i denti?». Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, 1967, p, 290. L’opera di Nauman è una placca di piombo da applicare a un giovane albero in attesa che la inglobi crescendo. Per l’artista la frase fa un’assunzione fuori di se stessa e quindi ha uno stretto legame con l’idea di natura. Cfr.  Please Pay Attention Please, op.cit., p. 107. E Constance M. Lewallen, A Rose Has No Teeth. Bruce Nauman in the 1960s, catalogo della mostra al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Torino, 2007.

[11] In realtà il neon è la seconda versione di questa idea. La prima, forse ispirata dalla necessità pratica di “oscurare” in parte la vetrina, è una specie di tenda a rullo, un grande foglio di poliestere rosa sul cui perimetro Nauman scrive: “The TRUE ARTIST IS AN AMAZING LUMINOUS FOUNTAIN”. L’immagine della fontana ricorre anche in una delle foto di quel periodo, intitolata Selfportrait as a Fountain, in cui si vede l’artista a torso nudo mentre sputa in getto d’acqua. Il riferimento è a Fountain di Duchamp. Cfr. Constance M. Lewallen, op. cit..

[12] Cit. in Dieter Koepplin, “Reasoned Drawings,” in Bruce Nauman: Drawings 1965-1986 (Basel: Museum für Gegenwartskunst, 1986), 73.

[13] In un suo testo del 1970, Nauman parla di «pieces of information which are in “skew” rather than clearly contradictory […]  (Skew lines never meet and are never parallel. How close seems of more interest than how far apart. How far apart = Surrealism?». Notes and Projects in Please Pay Attention Please, op.cit., p. 59.

[14] Sol LeWitt, “Sentences on Conceptual Art”, Art-Language 1969 (1): 11–13.

Luigi Bonfante

è saggista e autore televisivo. Suoi saggi su arte moderna e contemporanea, televisione, cinema, musica sono apparsi su “Doppiozero", "Link Idee per la tv” e sul suo blog “Deepsurfing”. Ha pubblicato “Catastrofi d'arte”, Johan & Levi, 2019.

English
Go toTop