La fotografia preleva frammenti d’anima?

15/12/2022

Nel film-performance Fotodeath (1961) di Claes Oldenburg, una macchina fotografica di inizio Novecento montata su un treppiedi toglie lo stato di coscienza (e poi forse la vita) a tre persone sedute in posa su una panchina. Per due volte i soggetti perdono i sensi davanti all’obiettivo, e ogni volta colui che vuole fotografare risistema i loro corpi di nuovo per scattare un’altra istantanea. Appena il fotografo riposiziona sulla panca i corpi che hanno momentaneamente perso conoscenza si ricolloca velocemente sotto il telo nero del suo strumento tecnologico. Ma la terza volta le persone cadono in avanti, dalla seduta verso il pavimento, in modo definitivo, così che il vivente si fa natura morta. Oldenburg sembra mettere in atto una credenza animistica, ovvero l’idea che una macchina fotografica possa alterare qualcosa del reale mentre avviene lo scatto, così da rubare l’anima, la vitalità, o da far morire chi viene fotografato[i].

Claes Oldenburg, Photodeath, 1961

Ammettiamo che qualcuno – in un determinato luogo geografico del pianeta e in tempi storici ricorrenti – abbia pensato veramente che lo scatto o la ripresa video potesse essere in grado di modificare qualcosa del reale o di catturare un frammento dell’anima di una persona. Mi riferisco all’atto della cattura di uno o più istanti della vita di un individuo in un determinato luogo geografico e in uno specifico ambiente, che ha maturato un credo proprio, nel corso del tempo.  Ovviamente, in una cultura dove l’atto magico o sovrannaturale è determinante per il bene del gruppo o per la singola persona, lo scatto fotografico o la ripresa video poteva (e ancora ora potrebbe) essere considerato un gesto magico, in grado di catturare l’anima della persona o di causare un piccolo evento capace di determinare i successivi attimi del tempo storico locale.

Di fatto, sicuramente la storia testimonia che attraverso la macchina fotografica molte persone occidentali si sono arrogate il diritto di appropriarsi[ii] di una immagine del mondo, di eternare uno o più momenti appartenuti a un nativo[iii] di un determinato luogo esotico e colonizzato[iv]. Se ci spostiamo anche in direzione di possibilità ritenute sovrannaturali, oggi non siamo ancora in grado di provare se quando si entra in contatto con la realtà di un’altra persona qualcosa venga alterato, o se si possa catturare qualche energia dell’altro e farla propria, trasformandola attraverso lo sguardo di chi sta dalla parte della macchina e della ripresa. Ovviamente secondo la visione occidentale scientifica questa possibilità è ritenuta una sorta di supposizione di matrice animista, una credenza fantasiosa e poco credibile. Eppure ancora oggi, nella cultura occidentale, ci sono fotografi che considerano realistica l’ipotesi che tante persone, troppo fotografate, rischino di diventare vuote dentro[v].

Ancora nel tempo attuale molti turisti occidentali asseriscono che nelle loro scorribande in terre “esotiche” e ritenute “primitive” vi siano popoli che credono alla possibilità che si possa rubare l’anima attraverso una ripresa fotografica o video[vi]. Quanto di queste leggende è rimasto impresso nei negativi del nostro cervello o nella camera oscura del nostro inconscio occidentale?

Antoine Freitas, Autoritratto con macchina fotografica a scatola fatta a mano nel villaggio di Bena Mulumba, Congo, 1939

Una fotografia di Antoine Freitas, Autoritratto con macchina fotografica a mano a Bena Mulumba, provincia di Kasaï (1939), sembra contraddire il luogo comune che ha preso corpo in Occidente, ovvero l’idea che le persone appartenenti a tribù africane credessero che la fotografia rubi l’anima. Secondo la storica dell’arte Zoë S. Strother, l’immagine di Freitas  – la quale documenta il fotografo al lavoro, circondato da bambini e donne, che normalmente sarebbero stati tenuti lontani dagli stregoni considerati pericolosi – dimostra che il fotografo non era considerato uno stregone malvagio ruba-anime[vii].

Kurt Lubinski, Due Oiroti incuriositi da una macchina fotografica (anni Trenta), Archivio Touring Club Italiano

In una ripresa realizzata da Kurt Lubinski negli anni Trenta, nei luoghi abitati dalle tribù degli Altaici dei monti Altaj, due Oiroti[viii] sono colti mentre stanno guardando con curiosità, forse per la prima volta, la realtà attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica montata sul treppiede. La foto appartiene a una serie di lavori con cui Lubinski e la moglie Margot cercavano di comprendere come la cultura sovietica avesse influenzato le popolazioni native e impattato le loro tradizioni e la visione della vita.

Robert J. Flaherty, Nanook of the North. A Story of Life and Love in the Actual Arctic, 1922

Nanook of the North (1922) di Robert J. Flaherty è considerato uno dei primi film etnografici. Secondo il poeta e critico cinematografico Carl Sandburg – il 9 settembre 1922 pubblicò un articolo su “Chicago Daily News” – il documentario “è una storia limpida, grande e potente quanto Robinson Crusoe”, una storia “misteriosa, minacciosa e avvincente quanto The Treasure Island”. In realtà si tratta di un film costruito intorno alla figura di un eroico protagonista presentato spesso in un sorridente primo piano, dove la vita quotidiana segue la forma narrativa di un racconto più legato alla fiction e alle esigenze pratiche delle riprese cinematografiche che prevalgono sull’autenticità. Il regista statunitense riprende la realtà ma utilizza numerosi trucchi che falsano il vero. Il suo pseudo-documentario e le immagini contenute traducono solo la interpretazione occidentale della realtà vissuta dagli Inuit negli anni Venti. E questa visione dei primi decenni del Novecento è riscontrabile anche in molte fotografie che hanno per soggetto tematiche etnologiche e persone riprese da fotoreporter occidentali nelle terre ritenute “esotiche”.

Aby Warburg con un nativo Hopi, Arizona, 1896

Pare che non sia riuscito nemmeno Aby Warburg a liberarsi dalla mentalità coloniale mentre viaggiava nelle terre degli Hopi, una tribù indigena dei Pueblos statunitensi, per studiare il loro rituale del serpente. Una celebre fotografia testimonia che Warburg dà prova di una certa violenza per costringere un nativo Hopi a stare fermo e in posa accanto a lui, e così lo tiene per un braccio, perché non voleva farsi fotografare[ix]. Come la maggioranza degli antropologi di quegli anni anche lo storico delle immagini tedesco si prodigò per soddisfare la sua fame intellettuale e non ebbe remore o ripensamenti relativi all’atto di acquistare oggetti rituali degli Hopi o di prelevare i loro simboli sacri per trasferirli in altri contesti.

A prescindere dall’utilizzo del medium fotografico da parte di Warburg nei pueblos Hopi, se giudichiamo molte fotografie scattate ai nativi nel XIX secolo, dove i capi indiani appaiono in atteggiamenti fieri che non mostrano la presunta paura, non abbiamo certezza che i nativi americani temessero gli effetti sortiti dall’azione della macchina fotografica o che credessero di essere derubati della loro l’anima o qualcosa del genere. Zoë S. Strother confuta le presunte prove fornite da Richard Andree, James Napier e James G. Frazer sull’idea che molte persone nei paesi non industrializzati rifiutassero di farsi fotografare per la convinzione che avrebbe rubato loro l’anima, riferendosi a testi di Charles Sanders Peirce, Rosalind Krauss e Susan Sontag.

Per gli occidentali il mezzo fotografico ha avuto per molti anni il pregio di fissare un istante del tempo, di cogliere un frammento di realtà momentanea, di fornire un documento attendibile per chi in quel determinato momento si era distratto in altre occupazioni (per esempio nell’atto di realizzare la ripresa fotografica) o per chi, conscio che noi continuiamo a cambiare e con noi anche il nostro sguardo sulla realtà, avrebbe potuto andare a riguardare la stampa fotografica di un evento, per vedere se qualcosa gli fosse sfuggito alla lettura o alla comprensione del momento. E qui mi riferisco al confronto con l’immagine a distanza di anni o alle apparizioni dei punctum barthesiani, ovvero a quei particolari più o meno latenti che riempiono l’immagine divenendo parte preponderante o il soggetto essenziale. Se invece pensiamo alle fotografie ideate dagli artisti le questioni sono più complesse già in partenza, a prescindere dalle letture e dalle interpretazioni successive alla creazione dell’opera. Ora poi le questioni si sono complicate ulteriormente, dentro i flussi delle immagini fotografiche che vorticano nell’iconosfera e nell’infosfera, dove algoritmi sempre più sofisticati creano realtà che non appartengono alla vita reale, volti di persone non nate, ipotesi future, anime da rubare o già rubate, sogni di avatar, e molto altro che ancora non conosciamo, perché sarà reso noto solo più in là nel tempo.

Quando l’immagine (ottenuta attraverso una fotografia, videoripresa, o con altri media) sostituisce parzialmente un frammento della realtà qualcosa del reale viene messo in discussione  – siccome il tempo scorre imperterrito, il flusso degli accadimenti continua a generare nuovi istanti, in cui accadono o si creano immagini sempre leggermente diverse da quelle che si sono viste prima – o messo a confronto con un linguaggio o in rapporto con un mezzo in grado di creare un’alternativa visuale momentanea.

E se avessero ragione coloro che ancora oggi non vivono in terre industrializzate e hanno mantenuta viva una visione “primitiva” e “magica” del reale? E se i loro sciamani avessero previsto già molto tempo fa che la fotografia sarebbe diventata veramente una sorta di sortilegio? E se fosse verosimile che ora la maggioranza degli individui è intrappolata negli schermi retroilluminati di smartphone/macchine fotografiche e che tutte le immagini riflesse sono parti di noi che perdiamo, catturate da altre superfici che le imprigionano e le conducono in una antimemoria o nell’oblio?

Forse anche qualche artista occidentale aveva già presagito scenari pericolosi. Attraverso la performance Fototot I (La morte della fotografia), nel 1976 Ulay mette in crisi la presunta oggettività del fotografico e sottolinea l’effimerità della fotografia come mezzo. Rende visibile il lato illusorio delle immagini fotografiche, che a poco a poco divengono monocromi neri.  Nella Galleria De Appel di Amsterdam, una ventina di spettatori assiste alla rappresentazione della scomparsa delle immagini contenute in nove fotografie in bianco e nero, che raffigurano vari momenti in cui l’artista procede camminando su un viale alberato. A un certo punto, nella galleria oscurata si accende una lampada alogena e nell’arco di una trentina di secondi le immagini svaniscono dentro le stampe fotografiche che si sono completamente annerite. Alle pareti della galleria, Ulay aveva appeso le fotografie senza la soluzione di fissaggio, di modo che la luce potesse intervenire direttamente sulle immagini fino a farle svanire. Senza appropriazione o distruzione non si innesca una nuova possibilità creativa o una ripartenza?

Dopo qualche mese la galleria invita di nuovo gli spettatori di Fototot I. Le foto annerite sono ancora appese alle pareti. Al centro dello spazio espositivo è stato aggiunto un tavolo con una lampada e una cartella contenente fotografie. Uno degli invitati si avvicina al tavolo, accende la lampada e comincia a guardare il contenuto della cartella, ovvero gli scatti che Ulay ha realizzato per documentare la mostra precedente. Anche queste foto sono state sviluppate senza la soluzione di fissaggio, così che nel giro di poco tempo anneriscono come quelle che erano presenti nella prima parte della performance. Nella seconda fase non è l’immagine dell’artista a scomparire bensì quella degli spettatori. Così sia l’autore sia i fruitori delle mostre e delle fotografie vedono scomparire le immagini di loro stessi, in una cancellazione concettuale e post-situazionista che mette in crisi il dato attendibile del documento fotografico e le prove tangibili delle esistenze. Viene così negata la pretesa della fotografia di commemorare o addirittura di rispecchiare accuratamente il dato oggettivo del presente. In questa allegoria il medium fotografico ha rubato l’anima a qualcuno?


[i] Un esito analogo è presente anche nella trama del film La macchina ammazzacattivi (1952) di Roberto Rossellini.

[ii] “Fotografare significa infatti appropriarsi della cosa che si fotografa. Significa stabilire con il mondo una relazione particolare che dà una sensazione di conoscenza, e quindi di potere” (Susan Sontag, Sulla fotografia, Torino 1978).

[iii] Chi aveva a disposizione uno strumento tecnologico come la macchina fotografica manifestava la sua supposta posizione privilegiata, di potere, e riprendeva gli appartenenti a un gruppo “primitivo” per motivi di studio antropologico, etnologico, o per scopi personali.

[iv] Per approfondire le questioni relative al rapporto tra macchina fotografica e potere coloniale rimando a: Ariella Azoulay, The Civil Contract of Photography, New York 2008.

[v] Si veda: Roberto I. Zanini, Oliviero Toscani. Fotografare l’anima, in “Avvenire”, 21 settembre 2015: «Forse è per questo che tante persone che sono troppo fotografate rischiano di diventare vuote dentro. Tante top model, tanti uomini famosi sono vuoti».

[vi] Ho fatto un excursus in rete (gennaio 2022) e qui riporto i paesi o i popoli che secondo i turisti occidentali sono convinti ancora che la fotografia possa rubare l’anima: Etiopia, Senegal, le popolazioni berbere, India, Zanzibar, i popoli Quechua delle Ande (Perù, Bolivia, Ecuador, Cile, Colombia e Argentina), il popolo Kuna di Panama, alcune tribù di Nativi americani degli Stati Uniti e Canada, gli Zulu del Sudafrica.

[vii] Per approfondimenti si veda: Z.S. Strother, “A Photograph Steals the Soul”: The History of an Idea, 2013, in John Peffer and Elisabeth L. Cameron (eds.), Portraiture & Photography in Africa, Bloomington and Indianapolis, Indiana University Press, pp. 177-212.

[viii] Gli Oiroti appartenevano a un ceppo turco, che oggi vive nella Repubblica dell’Altaj in Russia. Stalin li accusò di essere filogiapponesi e la parola “oyrot” fu dichiarata controrivoluzionaria e bandita.

[ix] Cfr. Maurizio Cecchetti, La mostra negata. L’antropologo Warburg e la vendetta degli indiani Hopi, “Avvenire”.

In copertina: Claes Oldenburg, Photodeath, 1961

Mauro Zanchi

è critico d’arte, curatore e saggista. Dirige il museo temporaneo BACO (Base Arte Contemporanea Odierna), a Bergamo, dal 2011. Suoi saggi e testi critici sono apparsi in varie pubblicazioni edite, tra le altre, da Giunti, Silvana Editoriale, Electa, Mousse, CURA, Skinnerboox, Moretti & Vitali e Corriere della Sera. Scrive per Art e Dossier, Doppiozero e Atpdiary.

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