Il 16 settembre 2018, a Cetona, si è svolto il funerale di Guido Ceronetti. Nel corteo funebre si contano 31 persone. Alla testa, gli attori del Teatro dei Sensibili. Al centro persone a me sconosciute. Probabilmente, amici e abitanti del paese che da decenni ospitava il più grande moralista italiano del secondo Novecento. In coda, si distingue chiaramente Roberto Calasso e, davvero ultima, Fleur Jeaggy che, visibilmente provata, si sorregge a una più giovane donna. Desolante l’assenza di tutta la cultura italiana e delle istituzioni. Questo corteo è l’emblema di una nazione in cui gli isolati, gli insubordinati, i controcorrente, gli imperdonabili, vengono in fondo disprezzati e ignorati. Il funerale di Ceronetti è il funerale di una nazione.
***
Avevo preso queste lugubri note pochi giorni dopo il funerale di Ceronetti, dopo averne visto le immagini nel video di Radio Radicale (unica testimone dei media). Mi trovavo, allora, in Portogallo, dove ho vissuto per lunghi anni e dove ancora oggi mi ritiro, appena posso. La prospettiva, data dalla distanza, rendeva ancora più eclatante lo spettacolo miserabile di una nazione che seppelliva, nel disinteresse generale, uno dei propri principali intellettuali. Certo, vi furono degli articoli sui giornali e, probabilmente, qualche servizio televisivo. Forse, ora non ricordo, sulle piattaforme social vi fu qualche orripilante “ciao Guido”, “bon voyage”, “r.i.p.”, “se ne va l’ultimo dei…” o l’immancabile “la terra ti sia lieve”. Ma, praticamente, nessuno si sentì in dovere di recarsi al funerale, mostrando, in questo modo, se ce ne fosse stato bisogno, l’abisso che separava la cultura italiana da Ceronetti, dal suo senso della terra, dalla sua malinconica tenerezza, dal suo attaccamento silenzioso ai corpi, alla materialità del senso.
Ceronetti appena morto e già dimenticato, Ceronetti ridotto a un coccodrillo di giornale. Lo si apprezzava perché marginale. Al margine doveva restare e, possibilmente, anche morirci. Non credo che l’esiguità del corteo funebre gli sia dispiaciuta – meglio circondato da chi davvero gli voleva bene e da chi realmente lo apprezzava, che non circondato da pagliacci di ogni risma – ma l’immagine di quel funerale strazia il cuore.
A quattro anni abbondanti di distanza, la situazione della cultura nazionalpecoreccia non è certo migliorata. Come sempre, assistiamo al baraccone degli intellettuali di regime, allo spettacolo dei servi del potere, dei seguaci dell’ultima moda, del conformismo conformista e anticonformista, tutti insieme sempre pronti a leccare di qua e di là, a umiliarsi, autocensurarsi, ridere e commuoversi a comando pur di ottenere qualcosa. Ma quel che più inorridisce è la pletora di starlette e bellimbusti che riducono il lavoro sulla parola e sui pensieri a un esercizio narcisistico, teso al consenso e al conseguente successo economico-sociale. Persone che non credono in niente, al di là delle regole del profitto o dei buoni sentimenti del senso comune, sentimenti che stanno lì proprio per impedire ogni reale e radicale esercizio di pensiero, di parola, di vita. Le fotografie dei nuovi autori, delle nuove “voci autorevoli”, i loro “profili” rendono davvero difficoltoso cogliere la differenza tra questi e i vari influencer del nulla. Sono immediatamente, nemmeno specularmente, complementari: nulla reificato.
Guardando questo spettacolo orrendo, questa riduzione della parola a idolo del nulla, senza alcuna consapevolezza tragica del nulla che ci attraversa, mi viene da ridere. Una crisi quasi isterica di riso: lo strazio che si somatizza in ilarità. Forse, è questa la sola via di scampo. O, forse, la risata finale è solo un modo per eludere la tragicità del momento, che è poi forse la tragicità dell’umano, da quando l’umanità esiste. Ma è certo che in una scrittura ironica e caustica o in un sorriso amaro, come sono stati quelli di Ceronetti, è contenuta molta verità, molta più che nei sorrisi di plastica, e nelle parole leggere ed edificanti, oggi in circolazione.
Je riz en pleurs, scriveva il sofferente Ceronetti a Quinzio, citando Villon. Solo dentro a questa antinomia, alla lacerante oscillazione tra il sentimento tragico e la terribile risata di un dio assente, si trova forse l’antidoto per resistere, seppur marginali, all’immondo. Con buona pace della nazione, placidamente sprofondata nell’incretinimento generale.