È in corso, fino all’11 gennaio, la mostra Kronenberg-Nonas presso la Galleria Z2o Sara Zanin di Roma, in collaborazione con P420, Bologna. Pubblichiamo qui di seguito il testo critico di Riccardo Venturi che l’accompagna.
To restore silence is the role of objects
Samuel Beckett, Molloy[1]
I.
La mostra che state visitando riprende, nel titolo, i nomi dei due artisti legati graficamente (ma non solo) da un trait d’union: Kronenberg-Nonas. Lo spazio della galleria, all’interno del quale ci muoviamo senza alcun percorso prestabilito, tiene assieme quattro sculture in legno e una in ferro di Richard Nonas e sette sculture di Giovanni Kronenberg in diversi materiali.
Kronenberg incontra Nonas molto presto nel suo iter artistico, nel 2003, quando è ancora studente all’Accademia di Belle arti di Brera. L’occasione è una residenza di due mesi alla Fondazione Ratti dove Nonas, al lago di Como, preferisce le discariche del Comune, alla ricerca di lastroni di pietra in disuso. La cura con cui li sceglie colpisce il giovane artista, perché a prima vista sembrano tutti equivalenti. Con questi cordoli di marciapiede Nonas realizzerà Mappa mundi.
L’incontro è prematuro e solo nel tempo e col tempo Kronenberg ne coglierà l’importanza, complice una mostra della collezione di Panza di Biumo a Trento. Più che le forme, di Nonas ad attrarlo è l’attitudine verso le opere, quel modo non didascalico di approcciare la scultura, lontanissimo dall’attuale mediazione che sembra volerci mettere al riparo dal suo incontro, dall’incomprensione che è parte essenziale dell’esperienza estetica, miglior sintomo della sua vivificante complessità.
È chiaro che non si tratta di rispondere alle sculture di Nonas, che non formulano alcuna domanda e non necessitano di essere completate come se si trattasse di opere processuali o (lo scrivo con una certa esitazione) partecipative. Al riguardo Nonas è cristallino (al punto da lasciarlo in inglese): “I distrust sculpture that emphasizes process, duration, or growth. I trust sculpture whose making, and being, is finished immediately”, un testo che così comincia e, quasi a suggellarlo, così finisce: “I trust sculpture that does not grow, but simply appears – shuddering, like a knife stabbed into wood”[2]. Una scultura che appare come un coltello conficcato nel legno. Si tratterà allora di corrispondere alle sue sculture, di sentire la loro presenza, di sintonizzarsi col luogo a bassa densità che creano – “Sculpture is the place where place is only barely possible”[3]. Nessuna modalità prestabilita, nessuna esclusa, il che non semplifica il compito.
Come praticare quella soglia tra un oggetto e un manufatto? Come intervenire senza che l’oggetto si risolva in un artefatto ma tenendolo in sospensione? Come imparare a dosare il grado di alterazione di un objet trouvé? Perché un objet trouvé è anche un objet perdu, che ha perso ovvero qualsiasi funzionalità ma persino il motivo, spesso inconscio, che ha guidato la mano dell’artista che un giorno l’ha raccolto e così salvato. Oggetti “non consumati dallo sguardo”[4], dice Kronenberg.

Per avvicinarsi alla sua pratica, basta scorrere la lista di alcuni materiali utilizzati: agata, ametista, argento 925 inciso a mano, blocco di agata, cemento, cenere lignea, cioccolato fondente, corno d’alce, costola di mammut fossile, cristallo di rocca, di ametista e di zolfo, dorso di gallo, elastici di gomma, ferro, foglia secca o foglia d’oro 22 carati, formaggio Mimolette, fossili, granuli d’argento, grasso di foca, ingranaggio di frantoio, lava solidificata, legno, legume secco, malachite, manichino in legno, mascella di mammut fossile, miele di melata di bosco, olio d’oliva, pelli, pelliccia di muflone islandese, perla nera barocca, piede di legno, pigmento cobalto in polvere, porcellana, profumo sintetico, registratore portatile, riccio di castagna, rosa del deserto, sapone di Marsiglia, sodalite brasiliana, spugna di mare grezza, stella marina, torchi da frantoio, tronco fossile, turchese iraniano, uovo di struzzo, vertebra di balena, vetro, vinile, zanna di un narvalo, zucchero di canna. Le ordino alfabeticamente per non rivelare gli accoppiamenti tentati dall’artista e lasciare al lettore la curiosità di scoprirli e d’immaginare possibili innesti.
Perché Kronenberg lascia gli oggetti accumularsi a studio o a casa finché uno erompe e balza fuori dall’anonimato, dal brusio di fondo del reale: “riguardo un oggetto, provo a metterlo a contatto visivo e tattile con altre ‘sapidità’, vedo se restituisce un minimo di ambiguità e, in quel caso, provo allora a lavorarci, a dedicargli più tempo”[5].

Tra le sculture in mostra, tutte Senza titolo, quella costituita da parti di guscio di tartaruga mostra bene il modo di lavorare di Giovanni Kronenberg: il guscio di un carapace – modello naturale dell’architettura – diventa, nelle sue intenzioni, “quasi una forma sgraziata, prossima ad una piccola architettura brutalista”. I gusci sono delicatamente appoggiati uno sull’altro come un castello di carte, un assemblaggio sollevato da terra che rende la scultura instabile ma assieme dinamica.

Un’altra scultura è segnata da una doppia assenza anatomica: da un parte c’è un’armatura del Settecento cava all’interno, dall’altra un corpo umano di cui non resta altro che la spalla. Adagiata sul pavimento su un cuscino morbido, appare ancora più distante dalla sua originaria funzione bellica. L’artista lo considera come “un oggetto celibe, tronco, antinarrativo, puramente formale”. Che in questo modo il fantasma del corpo che secoli fa l’abitava sia stato del tutto scacciato? Sempre sul pavimento è adagiata una testa di legno dell’Ottocento, utilizzata per la prova dei copricapi, cui viene aggiunta dall’artista una terminazione in sodalite brasiliana.

Ecco che la corrispondenza tra i due scultori opera sul piano delle materie scelte, il ferro e il legno, ma anche la pietra, cui Nonas ha spesso fatto ricorso nei suoi interventi all’aperto. Altre sculture sono disseminate nel percorso della mostra, come la scultura in foglia secca e alcune venature in colore oro e quella in septaria grezza, una pietra calcarea, con un filo di alluminio anodizzato che la avvolge. A completare l’esposizione è un disegno a matite colorate e fondo in foglia di rame di piccole dimensioni e dalla forma indefinita; slegato dalle sculture, sembra tuttavia riprenderne alcune soluzioni formali.

II.
“Non sono più un antropologo”: è questo l’incipit di uno dei testi più personali di Richard Nonas (1936-2021)[6]. Siamo lontani tuttavia dal registro del journal intime reso pubblico ai lettori, che vengono così informati del fatto seguente: che un antropologo ha abbandonato il suo mestiere per farsi scultore, che un laureato in antropologia non intende esercitare il lavoro per cui è stato formato perché la sua vera passione sono le arti visive. Nessuna “riconversione professionale”, secondo il linguaggio neo-liberale che così camuffa e nobilita il lavoro precario. Di casi simili ne abbiamo tanti, una nutrita schiera di cui Alberto Burri che rinuncia alla medicina per dedicarsi alla pittura è giusto il primo a venirmi in mente.
Ma con la sua testimonianza Richard Nonas ci conduce altrove: non ha abbandonato l’antropologia per diventare scultore ma, più sottilmente, farà scultura da antropologo. Un caso intrigante e, credo, unico: tenere insieme antropologia e scultura, testare la prima nella seconda, usare la prima come reagente della seconda. Cosa mai può apportare un background antropologico alla materia scultorea? Cosa traghetterà esattamente Nonas dell’antropologia nel medium scultoreo?

“L’antropologia mi ha fatto il dono del dubbio permanente. Ma la scultura mi ha obbligato a usarlo”, prosegue Nonas. Sarà il tratto che distingue la sua opera: non iscriverla in una genealogia storico-artistica, non posizionarla rispetto alla scultura minimalista o post-minimalista ma mandarla in orbita con l’antropologia. Ma a quale antropologia fa riferimento Nonas? Non alla disciplina accademica che ha studiato all’Università di Columbia (il caso meno interessante, perlomeno per chi non è antropologo di professione) e nemmeno al lavoro sul campo che la distingue nel panorama delle scienze umane, archeologia esclusa. Un lavoro sul campo che, per inciso, può ricordare diverse forme contemporanee di arte sociale ma più difficilmente la scultura, la cui natura sedentaria è stata appena scalfita.
Il fare antropologico di Nonas si esplicita invece in un solo gesto, in una sola azione: dubitare – ma socraticamente: “Mi riferisco al dubbio nei confronti di ogni cosa, persino dell’antropologia”, al punto che la sua è una “antropologia del dubbio” – ed è questa a essere trasposta nel fare scultura.
Cosa accade quando si porta il dubbio nella scultura, quando si fa della pratica del dubbio la materia stessa della scultura? Che si fa confusa, ambigua, “resistente alle limitazioni del linguaggio e della spiegazione”. Nonas si rende così conto di praticare una sorta di “antropologia invertita”: “l’uomo che vede visto nel suo vedere, l’uomo che dubita messo in dubbio nel suo dubitare, l’uomo che conosce conosciuto attraverso l’impossibilità del compito che lui stesso (pur con l’approvazione ufficiale della cultura) si è dato”.
L’antropologo-che-si-fa-scultore, l’antropologo en sculpteur, non si accontenta di partire lontano, ai margini della civiltà occidentale, rimettendo in causa alcuni assunti della sua cultura di provenienza. L’antropologia ha la capacità di spalancare la nostra visione ristretta della realtà, i suoi confini, la stessa sostanza su cui poggia. Praticando il dubbio, la (ex-)disciplina di Nonas finisce per somigliare a una sorta di auto-analisi in cui l’interrogazione più profonda è rivolta verso se stessi – in questo senso è invertita.
Ecco, l’opera di Nonas è un modo di comprendere se e in che termini la scultura può affrontare il compito altissimo di un’antropologia invertita.

Non sorprenderà che la mostra in cui il suo testo è tradotto per la prima volta in italiano, No-Water-In, è considerata dall’artista come “un’istantanea di fallimenti a ripetizione; di funi gettatema non necessariamente afferrate. È un’istantanea del come i ponti crollano e del perché vengono ricostruiti per tornare ancora a crollare”. Una storia in cui costruzione e distruzione sono l’uno il risvolto dell’altro: quello che è temibile in architettura si fa modus operandi in scultura.
Ora, quella accennata da Nonas in questa pagina (le citazioni finora riportate si tengono in una sola pagina, a riprova della densità della sua scrittura) non è una poetica né tantomeno un programma: non indica ad altri scultori come procedere. Se è prescrittiva lo è solo verso se stesso, costringendolo a un rigore di cui la sua opera complessiva è la testimonianza visibile. Non ci sono allievi di Richard Nonas perché mancano qualsiasi scuola, catechismo o decalogo. Inutile applicare alla lettera quanto scritto sulla scultura d’après (più che après) l’antropologia. A lui si addicono in finale le parole del poeta francese René Char (Feuillets d’Hypnos, 1946): “la nostra eredità non è preceduta da alcun testamento”.
Chi vorrà intraprendere il percorso di Nonas dovrà anzitutto affrontare il suo dubbio – “uno squillante, pervasivo, corroborante, positivo dubbio come continua giustificazione della vita” – e tradurlo plasticamente.
Nonas, non dimentichiamolo, opera in un contesto storico che ha fatto scendere la scultura dal piedistallo, che ha rimesso in discussione l’eredità di uno dei medium più radicati nella nostra civiltà artistica. Con una sorta di scioglilingua, Carl Andre diceva “A thing is a hole in a thing it is not”, un passo ricordato da Robert Smithson secondo il quale, a partire dalla seconda metà degli anni sessanta, “strade asfaltate, buche, fossi, ammassi, cumuli, sentieri, canali, strade, terrazze e così via, tutto aveva un potenziale estetico”.

Ma il problema che Nonas pone alla scultura non è di ordine storico, come se la scultura dovesse risolvere problemi meramente scultorei; un’eredità modernista che resta insoddisfacente. Se la risposta non è nella storia della scultura dove si troverà? Nel fare scultura o nel fare scultoreo. I dubbi andranno affrontati e potranno essere sciolti solo facendo arte, non percorrendone la genealogia.
Commentando la frase dal Molloy di Samuel Beckett che fa da incipit alle mie riflessioni – “To restore silence is the role of objects” – Nonas confessa di non essere tanto colpito dal silenzio, come potremmo pensare basandoci sui suoi passi fin qui ricordati, ma dal verbo “restore” o ripristinare: “il sentore di una storia antica ma ininterrotta che si agita all’interno di un oggetto, qualsiasi oggetto: l’idea che gli oggetti portino con sé un passato astratto quanto specifico”[7]; “Ma non è mai l’oggetto in sé a essere importante per me. Gli oggetti che mi trattengono mi confondono, oscillando tra ciò che sono e ciò che possono effettivamente realizzare”[8].
Lo confondono in quanto generatori di dubbio, in quanto anziché stare al loro posto si animano, mettendo in fibrillazione il rapporto tra scultura e oggetto, rischiando così di mandare in aria l’impresa artistica. Nonas è scultore-antropologo anche per la sua capacità di sentire gli oggetti, difficile a esprimere a parole ma lampante quando incontriamo le sue opere dal vivo: “objects could communicate emotion directly without a story or narrative”[9]. È facile intuire se questo sentire è presente: basta verificare se gli oggetti in questione creano o meno un luogo. “A Place. Where none” è un’altra frase di Beckett citata da Nonas, “che significa, credo, non un luogo virtuale, ma un luogo reale appena sfiorato dal senso umano”[10].

III.
Le sculture di Nonas e Kronenberg sono ora esposte nello stesso spazio. Sta a noi muoverci da una all’altra, noi corpi viventi presi a misurare la nostra separazione da un mondo non-umano – “L’arte è il nostro riconoscimento del margine tra l’essere e l’essere umano” (Nonas)[11]. Non indugiamo in somiglianze e differenze, perché non c’è alcuna logica maestro-allievo o copia-originale, nessuna filiazione storico-artistica. Affrontiamo invece la sfida silenziosa che ci è posta, memori del fatto che “To restore silence is the role of objects”. Osservando le sculture di Nonas e Kronenberg, sta a noi trovare un modo di praticare il dubbio o, proseguendo – e ribaltando – il ragionamento di Nonas, non essere semplici spettatori ma farci antropologi.

[1] In R. Nonas, Get Out Stay Away Come Back. Writings about sculpture, and making sculpture, Dijon, Les presses du réel, 1995, p. 181.
[2] R. Nonas, Get Out Stay Away Come Back, p. 188.
[3] R. Nonas, Get Out Stay Away Come Back, p. 160.
[4] In A. Rabottini (a cura di), Giovanni Kronenberg, Milano, Mousse Publishing, 2020, p. 55.
[5] Id., p. 56.
[6] R. Nonas, No-Water-In, P420 Arte Contemporanea, Bologna, 2011, pp. 52-63.
[7] R. Nonas, Get Out Stay Away Come Back, p. 181.
[8] J. Beckenstein, Telling It Slant. A Conversation with Richard Nonas, in “Sculpture”, November 2017, p. 33.
[9] Ibid.
[10] Ibid.
[11] R. Nonas, Get Out Stay Away Come Back, p. 158.
In copertina: Giovanni Kronenberg, Senza Titolo, 2020, forma in legno di fine ‘800 per cappelli e sodalite brasiliana, cm 35 x 19 x 18. Tutte le foto sono di Giorgio Benni, courtesy z2o Sara Zanin, Roma & P420, Bologna