Tra il settembre e l’ottobre del 1970 Pier Paolo Pasolini sta lavorando al Decameron. Per realizzarlo si è costruito, avventurosamente, una geografia di paesaggi medievali superstiti: un po’ li ha strappati al nonsense che sta diventando sotto i suoi occhi il corpo dell’Italia, fagocitata pezzo per pezzo dalle speculazioni; gli altri invece li ha cercati altrove, in quel medioevo orizzontale che ancora resiste lungo il mediterraneo, verso oriente. Il 18 ottobre Pasolini è a Sana’a, la capitale dello Yemen. È una domenica mattina, il film è finito. Stanno per ripartire, e lui è esausto. Ma gli avanza pellicola, e soprattutto gli è rimasto addosso un sentimento febbrile che lo costringe “perentoriamente”, dice, a girare. È così che realizza Le mura di Sana’a, un documentario “in forma di appello all’UNESCO”: nato quasi per caso, sarà uno dei suoi interventi poetici più famosi a difesa del paesaggio.
Che cosa c’è di così prezioso a Sana’a? Per Pasolini, tutto. Perché Sana’a, spiega, è una “città-forma”: “una Venezia nel deserto e nella polvere”, bella come Urbino, Amsterdam o Praga. Il documentario ce la mostra nello splendore dei suoi edifici di terracotta e calce, ricami in bianco e ocra che paiono fondere – lì, su quel terreno arido – gotico fiorito e barocco piemontese. Sana’a però sembra avere i giorni contati. Dopo anni di guerre, complice una classe dirigente affamata e “ingenua”, la città è entrata nell’orbita della modernità. Ora ci sono russi e cinesi; ma poco importa, dice Pasolini, di chi sia l’egemonia: il risultato è lo stesso, uno “sviluppo” calato dall’alto sotto forma di strade che collegano deserti, infrastrutture sovradimensionate, poveri beni di consumo. I governanti locali “fanno la rivoluzione” così, distruggendo le tracce di un passato di cui si vergognano, a cominciare dalla cinta muraria: antica, magnifica. “L’irrealtà dilaga attraverso la speculazione edilizia del neocapitalismo”, grida il regista, mentre si rivolge all’UNESCO con un appello che ha la potenza retorica di una preghiera e di un’orazione politica. Sei volte pronuncia la frase “Ci rivolgiamo all’UNESCO”, parlando per Sana’a o in nome del popolo yemenita. L’ultima invocazione però ha lo slancio di un campo lunghissimo: “Ci rivolgiamo all’UNESCO in nome della scandalosa forza rivoluzionaria del passato”.
Non è la prima volta che Pasolini parla per un paesaggio. Si può dire che lo stia facendo sin dall’inizio della sua vita di intellettuale: da quando, studente bolognese, è tornato nel Friuli di sua madre per fare il poeta a Casarsa, calandosi in una lingua, il friulano, che è per lui tutt’uno con quella terra, sospesa tra mondo contadino e Resistenza, e con i corpi di una gioventù perfetta e dialettale che lo innamora. E ha continuato a farlo a Roma, nei primi anni ’50. Nelle borgate colleziona esperienze e lessico insieme ai fratelli Citti, scrive Le ceneri di Gramsci e i romanzi romani, comincia a lavorare nel cinema, e intanto, conosce la città. Ma qui vede qualcosa di nuovo: Roma cambia volto sotto i suoi occhi, si perde sotto il cemento e gli “scoppi testardi della benna”, come scrive in una delle sue poesie più struggenti, Il pianto della scavatrice, che verso la fine recita: “piange ciò che muta anche per farsi migliore. / La luce del futuro non cessa un solo istante di ferirci”. A ferire davvero, però, non è la luce del futuro ma le speculazioni del presente, che cancellano da nord a sud tutta l’Italia preindustriale, quell’Italia che lui chiama “bella e umana”.
Pasolini non è il solo a notarlo. Già dal 1949, sulle pagine del “Mondo”, Antonio Cederna sta denunciando la vandalizzazione dei centri storici e del patrimonio archeologico, e nel 1955 per sostenere queste battaglie è nata Italia Nostra. Dalla fine di quello stesso anno, poi, un reportage leggendario sull’“Espresso” (s’intitola Capitale corrotta = Nazione infetta) hasvelato i retroscena del boom immobiliare a Roma. Intanto Italo Calvino scrive La speculazione edilizia, ritratto ironico e spietato di una Liguria che si prepara per quella che negli anni ’70 qualcuno chiamerà “rapallizzazione”.

Sono anni critici e di grande fermento. Però tra tutte le voci che si levano quella di Pasolini risuona più densa, insieme politica e mistica. Per lui il rischio che si cela nella perdita del paesaggio non è soltanto una perdita estetica (e non sarebbe poco), ma è la perdita della capacità poetica della realtà. Lo osserva intorno a sé in Italia, dove vede sparire il senso del mondo contadino e ridursi i luoghi storici a frammenti senza contesto, come parole straniere in una lingua incomprensibile. E lo osserva nei suoi viaggi fuori dall’Italia: in Palestina, in India, in Africa, e in Medio Oriente, dove appunto trova Sana’a. Di importante nel paesaggio, prima dell’onda spappolante della società dei consumi, c’è il fatto che esprime un tessuto narrativo sublime e popolare insieme. Per capirlo basta leggere un’intervista del 1968 in cui dichiara che Venezia va difesa con tutti i mezzi: “sarei anche teoricamente capace di ammazzare pur di difenderla”, dice, quasi sorpreso di sé. E aggiunge che con la stessa energia bisogna proteggere un casale di contadini, un antico muretto. Perché con Venezia, con i muretti e con Sana’a, se ne va la realtà: una realtà umana, capace di parlare a tutti e di raccordare le storie. È come se perduto il paesaggio se ne andasse per sempre la capacità di chi è lasciato fuori dal flusso della “modernità” di recuperare il suo posto nella realtà. È per questo che il paesaggio è un valore universale: è la stessa universalità dell’opera d’arte, ma più democratica, perché gli artefici non sono individui, bensì collettivi, distribuiti nel flusso della storia e del tempo, a costruire parti di un disegno comune, perché bene comune. Questa democrazia del paesaggio viene erosa dalle speculazioni, vere forze antidemocratiche che negano la stessa idea di bene comune. E lo stesso vale anche per l’ambiente, come scrive nell’Articolo delle lucciole del 1975, in cui denuncia la classe politica corrotta che ha portato l’Italia al “disastro economico, ecologico, urbanistico, antropologico”.
Pasolini ci lascia un’eredità unica, non sempre facile. Più che mai evidenti, però, sono i riverberi del suo messaggio “ecologico”, dove per “ecologia” s’intendono la compresenza di vita, natura e cultura, e insieme le questioni di giustizia, fatte di corpi umani e non umani trafitti dalle dinamiche di politica e potere: penso a Salò e a Petrolio. Forse allora non gli dispiacerebbe leggere il nuovo art. 9 della Costituzione, riscritto per accogliere, in un’unica cornice culturale, il paesaggio, l’ambiente, gli ecosistemi, la biodiversità. Fatto sta che Pasolini ha avuto la capacità di sentire insieme la singolarità e l’universalità di tutte queste istanze, di inquadrarle in una dimensione politica, e di esigere un quadro normativo per la protezione di queste realtà minacciate. Non stupisce perciò che abbia individuato nell’UNESCO (che gli dedica un convegno a Bologna a metà novembre 2022, insieme all’Università) un interlocutore nella sua battaglia: colpisce però che lo abbia fatto ancora prima che si costituisse una lista del Patrimonio Mondiale.
Nel tempo, molti dei suoi paesaggi sono diventati siti UNESCO: l’ultimo sono i portici di Bologna, che lo videro studente. Dal 2018, anche l’arte dei muretti a secco è patrimonio dell’umanità. E poi c’è Sana’a. La città vecchia è protetta dal 1986 e l’Italia è stata capofila della ricostruzione. Nel 1988 una delegazione per metà “pasoliniana” (c’erano Laura Betti ed Enzo Siciliano) e per metà governativa (c’era Romano Prodi, allora presidente dell’IRI), donò al direttore del progetto di restauro Abdulrahman Al-Haddad Le mura di Sana’a, con sottotitoli in arabo. Durante la cerimonia, Al-Haddad dichiarò: “Dobbiamo tutto a Pasolini”. “È uno dei miei sogni, occuparmi di salvare Sana’a ed altre città, i loro centri storici: per questo sogno mi batterò”, aveva detto il poeta. La battaglia non è finita, e in Yemen è ancora più tragica, perché dal 2015 c’è ancora guerra. Però, anche grazie a Pasolini, Sana’a non è invisibile. Grazie a Pasolini, il mondo sa: sa che Sana’a è ogni paesaggio. Quel paesaggio che, sotto le ruspe o le bombe, continua ostinato a tenerci con sé, a raccontarci chi siamo.
Una versione ridotta di questo articolo, con il titolo Il paesaggio. Lucciole, dove siete?, è apparsa il 26 febbraio scorso su «Robinson», supplemento culturale della «Repubblica», in un numero interamente dedicato a Pasolini.
In copertina: una scena del Decameron (1971)