“Make friends, not art!”

25/11/2022

L’arte nell’epoca della sua utilità

Nel 2007 partecipai con alcuni amici al cosiddetto Grand Tour dell’arte, un viaggio che dalla Biennale di Venezia passava dalla fiera di Basilea e terminava in Germania con le tappe di Documenta 12 a Kassel e poi a Munster per la quarta edizione di Skulptur Projekcte. La sensazione finale, che condensai in uno scritto, fu quella non solo di una perdita di visibilità dovuta alla quantità di eventi, ma che l’evento stesso, inteso come performance del pubblico, fosse diventato il senso del discorso artistico, sottraendolo alle opere che ne facevano da cornice. L’arte nell’epoca delle sua invisibilità.

Tre anni dopo, in un secondo testo, cercai di proseguire la riflessione a causa di una persistente sensazione dovuta alla perdita di centralità dell’opera. Il discorso si spostò dal rapporto tra l’opera e lo spettatore a quello tra l’artista e l’opera, cercando di valutare l’esperienza dell’opera d’arte al di fuori del contesto espositivo, esclusivamente come ricaduta linguistica di un sentimento e di una visione soggettiva. La realtà dell’opera d’arte era intesa come un sentirsi parte di qualcosa che non si può conoscere fino in fondo: non una trasmissione diretta di contenuti finalizzati alla trasformazione del mondo. L’opera d’arte nell’epoca della sua irrealtà. 

Quest’anno sono tornato alla Biennale di Venezia dopo aver saltato le ultime due edizioni; poi, due mesi dopo, ho visto la Biennale di Berlino e la quindicesima edizione di Documenta. In quei giorni mi è sembrato che qualcosa si fosse radicalizzato ulteriormente. L’aspetto che mortificava l’opera d’arte attribuendole la funzione di trasferire un messaggio, lo spostamento verso la sua dimensione comunicativa a scapito di quella conoscitiva in senso ontologico, aveva trovato nell’attivismo il suo senso finale, rendendo l’incontro con l’opera d’arte un’esperienza utile, al punto che se venisse affidata la direzione della prossima Documenta a Greta Thunberg la cosa non farebbe una piega. Ma se l’arte si riduce ad indicare una possibile trasformazione del mondo come può l’essere umano continuare a sognare ad occhi aperti? O forse con l’avvento della tecnologia digitale stiamo entrando in un’epoca talmente funzionale che non ci sarà più bisogno di immaginazione? Io credo che senza illusioni l’essere umano sia perduto e che l’opera d’arte continui a rappresentare il motore di questa esperienza del mondo che si apre nel mondo.

Documenta con il suo modello espositivo presenta lo scenario di una nuova arte utile frutto della coniugazione di arte e attivismo, nella sovrapposizione di coscienza civile e responsabilità linguistica, o responsabilità civile e coscienza linguistica se preferite; durante la mia visita, tuttavia, non sono riuscito a dare a queste opere, a queste azioni, a queste discussioni, a questa volontà di trasformazione del mondo, uno statuto artistico. Dalle pitture rupestri fino ad oggi le forme dell’arte non sono in fondo cambiate di molto, per non dire che il problema è praticamente sempre lo stesso, anche se una figura umana invece di una lancia mantiene nella mano un telefono. Il mondo è invece profondamente cambiato, tanto che pensare alla rappresentazione del reale diventa sempre più difficile, perché la realtà sta diventando sempre più immateriale per effetto della virtualizzazione del mondo. Abbiamo fino ad oggi vissuto in un mondo dove i fatti della storia hanno viaggiato di pari passo con quelli del pensiero, dove l’illusione delle immagini ha fatto da compendio esistenziale alla concretezza della scienza e della tecnica. Ci sarebbe da chiedersi se un mondo in cui l’arte diventasse utile sarebbe ancora un mondo umano, dato che l’attività artistica è uno degli elementi che fa dell’uomo un organismo la cui necessità non è soltanto strettamente biologica, o produttiva, o riproduttiva. Allora può darsi che questa Documenta indichi la direzione di un’epoca senza arte, un’orizzonte di vita in cui ci sarà spazio soltanto per agire e non per compiere azioni inutili come disegnare un volto. Non ci sarà spazio per compiere questo gesto soltanto perché ci fa capire in modo diverso chi siamo e dove stiamo andando. Può darsi che stiamo entrando in un’epoca di tempo effettivo in cui non ci sarà più spazio per le cose che non si capiscono e non servono, dove magari sarà fuori luogo innamorarsi di qualcosa o di qualcuno. Può darsi che l’immaginazione diventerà un’attività inutile nell’epoca concreta e utile delle tecnologie digitali. Può darsi che nel futuro un’immagine non sarà l’esito di un’invenzione, ma un semplice duplicato del mondo da cui potrà distinguersi in virtù di una diversa cornice, del contesto in cui guardarla, del modo in cui parlarne, da tutto un sistema di significati esterni presentati per riempire il vuoto della sua presenza. Può darsi che quando gli esseri umani sempre più tecnologizzati avranno smesso di domandarsi le ragioni del loro stare al mondo, arriveranno degli artisti alieni per ricordare all’umanità come era bello il mondo quando un’immagine poteva contenere ancora l’intera vita di un uomo.

Asim Abdulaziz, 1941, video, 2021

Parte I

La Biennale di Berlino si snoda in tre spazi classici, Kunstwerke, Hamburger Bahnhof Museum e le due sedi dell’Akademie der Kunste, a cui si aggiungono il Museo della Stasi e un luogo identificato come Dekoloniale Memory Culture, che dovrebbe essere una sorta di ufficio per identificare gli effetti del colonialismo. Girovagando per questi spazi si vedono varie cose: le fotografie di Alex Prager che rappresentano folle viste dall’alto stampate in grande formato e incollate al muro, i disegni di Amal Kenaway, definiti emozionali, che illustrano disagi personali, i mosaici fotografici e i video di Ammar Bouras connessi ai test nucleari condotti nel 1962 dalla Francia nel deserto di Algeria, di cui però non si vede nulla nei suoi paesaggi nel deserto, il film di Asim Abdulaziz che esplora il senso di disorientamento e alienazione dell’esperienza del popolo yemenita (cosa che ho letto in un secondo tempo nel testo in catalogo) anche se nel video si vedono soltanto delle figure maschili scalze e a torso nudo che lavorano a maglia all’interno di un tempio Hindu abbandonato nella città di Aden, perché (come ho appreso sempre dal testo) cucire a maglia rappresentava per le donne degli Stati Uniti un modo per participare agli eventi della seconda guerra mondiale, mentre adesso, mettendo in scena questa situazione nello Yemen, l’artista vorrebbe incarnare la metafora della quotidiana esperienza della guerra.

Un momento, un momento, mi sono già perso. Rileggo il testo e mi rendo conto che risulta piuttosto difficile passare da quello che si vede a quello che l’opera dovrebbe esprimere. Ma esprimere in che senso? In questo caso dare un senso diverso al video se ci appare soltanto come un documentario un po’ surreale senza la minima traccia di tutto quel discorso sulla guerra appena descritto. Dunque il discorso metaforico, ovvero la relazione tra l’atto di cucire degli uomini scalzi e l’alienazione del popolo yemenita, non è chiaro per nulla. Quindi o leggi il testo che ti spiega il senso di quelle immagini o il video potrebbe essere qualsiasi cosa, il che potrebbe anche andare bene se il video avesse una tenuta espressiva autonoma, cioè se il suo significato emergesse esclusivamente dalle immagini e soltanto in secondo tempo quelle stesse immagine acquisissero un senso ulteriore in virtù dei contenuti ad esse associati – ma quello che accade è il contrario. Qual è la ragione per cui gran parte dell’arte degli ultimi decenni necessita puntualmente di una spiegazione per supportare la mancanza di invenzione?

Un primo aspetto di questa nuova arte impegnata mi sembra quello di aver ereditato il lato peggiore dell’arte concettuale dello scorso secolo, in cui tutto il discorso è spostato fuori dall’opera privilegiando il concetto che l’ha generata a scapito della sua presenza. Soltanto che qui il concetto invece di essere fondato su un aspetto linguistico – come nelle famosa opera One and Three Chairs di Joseph Kosuth – rimanda ad una serie di fatti che l’opera cerca di illustrare. Un secondo aspetto concerne poi la natura di questa illustrazione che in alcuni casi, come il video appena citato di Asim Abdulaziz, risulta totalmente scollegata dal concetto a cui fa riferimento; altre volte ne diventa didascalia banalizzando il concetto. Dunque, o si tratta di un atto di fede o si tratta di uno slogan. Nel caso dello slogan è evidente che per mirare ad un messaggio diretto bisogna abbassare il livello di invenzione, adottando le modalità immediate della comunicazione, quelle per cui uno striscione esibito da un gruppo di persone che protestano in fondo non è molto diverso da un cartellone pubblicitario, cambia soltanto l’ideologia a monte. Nel caso dell’illustrazione, invece, il discorso è più complicato perché un’illustrazione dovrebbe essere chiara rispetto ai contenuti da mostrare, mentre spesso accade proprio il contrario, non si riesce a risalire ai contenuti, non riesce a far capire come quegli uomini scalzi che lavorano a maglia denuncino lo sfruttamento del popolo yemenita e tutto il resto. Ma questo potrebbe anche non essere un problema, anche in un autoritratto lo spettatore non è tenuto a sapere fino a che punto l’autore fosse sofferente nel momento in cui l‘ha eseguito, l’importante è che in quell’immagine passi qualcosa della sua umanità, che quell’immagine sia la traccia di un esporsi in prima persona. Ed è proprio questo che manca a queste opere illustrative di arte impegnata, cosa che comporta automaticamente, poiché ne è la conseguenza inevitabile, un impoverimento della ricerca linguistica, per cui la traduzione dei contenuti produce una forma che non è in grado di bastare a se stessa, con l’aggravante di mancare anche di quello a cui vorrebbe fare riferimento. Si dirà che questo avviene anche per l’arte non impegnata, certo, è vero, soltanto che in quella cosiddetta impegnata appare come un espediente sistematico per occultare il disimpegno formale per la nobiltà del contenuto, tanto che quando ad un certo punto delle visita, nella grande sala al pianterreno del Kunstwerke, ho visto l’imponente quadro antifascista collettivo realizzato a più mani da Antonio Recalcati, Enrico Baj, Errò, Gianni Dova, Jean Jacques Lebel e Roberto Crippa: mi è sembrato un’oasi di espressività in un deserto di oggetti neutri, funzionali e anaffettivi, perché quest’opera non esibiva nulla delle intenzioni politiche a monte, presentandosi come un anti-slogan elaborato con una serie di figure e segni informi che evocavano qualcosa di orrorifico ma senza illustrare gli orrori del fascismo, perché la responsabilità di un artista è prima di ogni cosa linguistica. 

Jean-Jacques Lebel, Soluble Poison. Scenes from the American occupation in Baghdad. Installation views, MAMCO, Geneva, 2013

Continuiamo a girare per la Biennale. Ci sono i video di Basel Abbas e Ruanne Abou-Rahme, un duo artistico che vive tra NY e Ramallah, che mostra i filmati catturati dalle telecamere di sorveglianza dei militari israeliani, nel classico stile di appropriazione di materiale altrui decontestualizzato che ambisce a diventare originale grazie ad un diverso contesto di fruizione. C’è la Storia naturale dello stupro di Ariella Aisha Azoilay raccontata attraverso le pagine di un libro che mostra blocchetti di testo, che raccolgono testimonianze del 1945 di donne berlinesi; i blocchetti di testo sono, poi, affiancati a rettangoli neri di vario formato, che forse suggeriscono una censura delle immagini. C’è una grande installazione a pavimento costruita con trecce simili a quelle delle acconciature femminili, qui però ingigantite a formare una sorta di ragnatela, cosa che mi costringe ancora una volta a leggere il testo per capire che cosa sto vedendo, scoprendo che quell’installazione vuole essere una risposta alla diaspora delle donne di colore immigrate in Europa. Ripeto: ci sono delle trecce giganti, che simulano le acconciature femminili, sospese a qualche decina di centimetri dal pavimento a formare una ragnatela che simbolizza la diaspora delle donne di colore immigrate in Europa. A questo punto inizio a pensare che questo genere di opere che vorrebbero rappresentare un episodio doloroso, diciamo così, per semplificare, estetizzando un contenuto storico, producano l’effetto opposto. L’opera invece di prendere essere una visione individuale in grado di trasformarsi in esperienza collettiva, di restituire nella forma i contenuti a cui si riferisce generando un’immagine simbolica, scaturisce da una strumentalizzazione di quei contenuti storici attraverso l’uso di codici estetici prelevati dal sistema dell’arte, magari con la pretesa di responsabilizzare i visitatori. Ma una ragnatela di trecce femminili giganti è il frutto di un uso convenzionale e didascalico del linguaggio, cosa che l’allontana da qualsiasi possibilità rivelatoria dell’opera, da qualsiasi aspetto rivoluzionario del linguaggio come ci si dovrebbe aspettare in un ambito artistico.

La maggior parte degli artisti presenti in Biennali, infatti, sembra auspicare rivoluzioni e cambiamenti sociali, denunciare emergenze, urgenze, necessità e tutto il resto, ma l’impressione è che di tutto questo nelle opere non ci sia traccia, perché sembra manchi il coraggio di assumersi i rischio della ricerca, come quando cerchi di inventare una nuova lingua e poi questo processo ti scavalca, portandoti in direzioni sconosciute. Queste opere mi sembra si limitino alla trasmissione di contenuti in modalità accessibili, a senso unico e senza la minima traccia di ambiguità, come se gli artisti intervenissero regolarmente in seconda battuta sui fatti dell’attualità, aspettando che accada qualcosa nel mondo per poter darsi da fare per presentare il loro pezzo di giornalismo estetico in forma di installazione o altro, restituendoci senza alcuna elaborazione quello che non sono riusciti a inventare come alternativa alla realtà di quei fatti a cui fanno riferimento. Ho sempre pensato all’impegno dell’artista come alla costruzione di un mondo alternativo, non come critica di quello esistente.

Keep going, ho sentito ad un certo punto dire da un tipo alla ragazza che era con lui e che non aveva nessuna voglia di proseguire nella Biennale. Anche io avevo lo stesso sentimento della ragazza, ma alla fine abbiamo proseguito e i due tipi me li sono ritrovati in un’altra sede delle manifestazione. Keep going allora con”Walking on the roof of hell” di Birender Yadav, un cerchio sul pavimento, che ricalca quelli con le pietre di Richard Long, soltanto che questo è realizzato con i sandali dei lavoratori indiani che trasportavano mattoni nei forni di cottura, ragione per cui i piedi dei lavoratori diventavano insensibili e duri dopo alcuni anni di lavoro eccetera. Un quadro di Calida Garcia Rawles dipinto in modo fotografico (con un imbarazzante stile iperrealista tra Magritte e i calciatori del Milan dipinti sul muro della pizzeria del film di Fellini La voce della luna) che rappresenta un corpo immerso nell’acqua, soltanto che lo scopo di questo corpo acefalo visto dalla prospettiva subacquea sarebbe quello di comunicare serenità, sì, proprio così, non sto scherzando, anzi non solo serenità ma anche possibilità di pace nella guerra permanente delle persone di colore, non so se mi spiego. Keep going: le stampe fotografiche di Dana Levy delle terre occupate palestinesi accompagnate da un video in cui due persone discutono della Green Line creata alla fine della guerra arabo israeliana del 1948, i teschi ricoperti di paillettes di Dubréus Lhérisson connessi al terremoto di Haiti del 2010, L’archivio di gesti di Elske Rosenfeld che riprende filmati della caduta del muro e le tavole rotonde per un futuro democratico, il tutto accelerato in perfetto stile post-production; il collettivo Forensic Architecture che si focalizza sulle nubi tossiche nell’aria che respiriamo mostrandoci dei rendering virtuali; il lavoro di Hasan Özgür Top che connette il reclutamento dello stato islamico ad altri movimenti politici che nel passato hanno glorificato la guerra e infine l’installazione di Jean-Jacques Label, che sembra aver colpito nel segno più di tutte le altre opere: un labirinto creato con stampe fotografiche di grande dimensione appese al soffitto che mostrano gli abusi sui prigionieri di Guantanamo da parte dei militari statunitensi. 

Una volta preso atto della perdita di specificità linguistica dell’opera, che a questo punto non so più se chiamare d’arte, l’impressione è che la funzione stessa dell’arte sia diventata quella di mostrare in modo compulsivo le colpe di un Occidente cattivo e razzista, dell’Occidente colonialista, fascista, maschilista, guerrafondaio e tutto il resto, in modo che il pubblico dell’arte, i cui antenati un tempo schiavizzavano e sottomettevano e abusavano e violentavano eccetera, possa adesso lavarsi la coscienza partecipando ai contenuti drammatici che nei contesti dell’arte garantiscono l’attenzione che non trovano in quelli politici, anche se poi sembra che nessuno in realtà abbia intenzione di rinunciare al tenore di vita a cui si è abituato, che viene, però, controbilanciato dall’informazione estetizzante dell’arte impegnata così da poter essere perpetuato senza fine. Ma estetizzare il dramma nel contesto dell’arte a me sembra il modo più rapido per neutralizzarlo, generando un principio di piacere che disinnesca la potenzialità critica del linguaggio. Mi sembra che tutto questo apparato accusatorio e flagellatorio della propaganda artistica anti-Occidente sia l’aspetto più volgare di uno stile di vita politicamente corretto, in grado di misurarsi con determinati problemi soltanto quando quei problemi non hanno più alcuna possibilità di interferire con la vita reale. Sul fatto che la cultura occidentale stia vivendo un momento di decadenza non c’è dubbio, mi ero già convinto da tempo che fossimo entrati in un nuovo rococò, il cui compendio era uno stile di vita esagerato e tutto il resto, ma questo fa parte dello sviluppo di ogni civiltà. Constatato questo fatto, però, perché dobbiamo rinunciare all’immaginazione? Perché – preso atto della devastazione morale, ambientale, estetica che il sistema capitalistico continua a perpetrare – non possiamo mantenere uno spazio in cui, ogni tanto, tirare un sospiro di sollievo guardando un’immagine che possa essere altro da tutto questo? L’arte sembra rinunciare alla sua funzione critica intesa come reinvenzione del reale allineandosi ai livelli di comunicazione delle informazioni mediatiche, a quel linguaggio chiaro e diretto che sponsorizza prodotti di consumo riducendo la complessità dei dispositivi espressivi semplificati del pensiero omologante nell’offerta di immagini politicamente corrette. 

Keep going. Khandakar Ohida in Dream your museum indaga, così è scritto, il capitale, i privilegi di classe e la persistenza del colonialismo attraverso un’installazione dove ricrea la collezione di oggetti dello zio indiano, in cui praticamente c’è di tutto, da bottiglie di alcolici a vecchie videocassette a souvenir di ogni tipo come se camminassimo in un negozio di robivecchi. Il video di Lamia Joreige documenta il traffico giornaliero, i mercati e i cantieri come testimonianza della speculazione edilizia e della gentrificazione. Air conditioning di Abu Hamdan è un’immagine astratta stretta e lunga creata da un assemblaggio di dettagli presi dai software degli aerei di sorveglianza militare israeliani nel cielo del Libano. Vomit girl invece è una statuetta arancione dell’artista Mai Nguyên-Long che dovrebbe essere collegata alla guerra del Vietnam, anche se non ho capito in che modo. Il video di Marta Popivoda, realizzato con Ana Vujanović, s’intitola Moss does it better (an eco-feminist meditation) e mostra una ragazza immobile su una pietra ricoperta di muschio; ma dopo cinque minuti, dato che l’immagine non cambiava, me ne sono andato. Monologo della vagina. Ti vergogni di me? di Mayuri Chari è invece un’opera sulla difficoltà di vivere la propria sessualità nell’India patriarcale. E poi ci sono mappe, moltissime mappe delle cose più varie, sopratutto mappe che descrivono situazioni che non vanno bene e che dovrebbero suscitare la nostra indignazione per come il genere umano sta trattando il pianeta, mentre la mia indignazione è dovuta alla fattura di queste mappe, perché il livello di elaborazione è talmente azzerato, la forma talmente trasandata che potrebbero essere scambiati per dei menù con immagini di un qualsiasi fast-food metropolitano, a volte anche peggio, come quella mappa di cui ho fotografato dei particolari che mostrano scritte fatte a mano tutte storte, e poi strisce di carta incollate talmente male che alcune sono mezze staccate e solo a ripensarci adesso mi sale un’incazzatura che è meglio che non continui. Mi dico, se non hai amore per la tua opera, almeno un po’ di rispetto per gli spettatori, e che diamine!

Quello che sembra accomunare tutte queste opere di arte impegnata è una programmatica perdita di mistero in virtù di una esplicita volontà di ricezione del messaggio. Quel senso profondo dell’opera d’arte che risiede nella sua zona di oscurità, quel margine di abbandono che l’autore ha lasciato nel processo di creazione e che lo spettatore ritrova nei segni dell’immagine, sembra annullato da una nuova logica didattica, dalla messa in scena di dispositivi visivi che ancora chiamiamo opere ma dell’opera d’arte hanno oramai ben poco, e forse bisognerebbe trovare una nuova definizione, anche se queste non-opere le continuiamo a vedere nei musei e nelle gallerie. L’ambiguità della forma, la seduzione che scaturisce dalla materia, tutta una serie di qualità specifiche dell’oggetto che ci seducono anche quando non ne afferriamo il contenuto, sembrano passare in secondo piano per promuovere la trasmissione del messaggio, quel resoconto parassitato dalla storia dovuto alla mancanza di talento, come se oramai fosse fuori luogo chiedere al pubblico uno sforzo nell’atto di guardare un’immagine o un oggetto o quello che sia. Non è un caso, forse, che nel catalogo della Biennale non siano mai presenti né le misure né la tecnica, ma soltanto il titolo. Invece di lasciarsi interrogare dall’opera, lo spettatore dell’arte impegnata deve aspettarsi nel migliore dei casi una risposta chiara e diretta, come quando legge il prezzo di un prodotto, nel peggiore dare per scontato che quello che non capisce un senso lo dovrà avere visto che qualcuno ha scelto di esporlo in quel contesto. In questa logica neutra di trasmissione di contenuti prelevati dai disastri dell’umanità, io credo la tecnologia si inserisca ad agevolare la mancanza di invenzione dell’artista, costringendo spesso e volentieri la sua opera a funzionare in modo convincente in virtù di un’esigenza comunicativa, accelerando cioè il processo di riconoscimento dell’oggetto da parte del soggetto, invece di rallentarlo per consentire al soggetto quello stato di tensione che l’opera d’arte trasporta indipendentemente da quello che ci fa vedere. Il valore linguistico e conoscitivo interno all’opera sembra passare regolarmente in secondo piano scavalcato dal valore relazionale e comunicativo, dal discorso intorno all’opera che, a partire dalla sua comprensibilità, assicura un alto grado di intellegibilità. L’esperienza dell’arte invece di essere rivelatoria e dirompente si limita ad essere semplicemente comprensibile e stabilizzante. La visione delle nuova arte impegnata e utile non è più un’apertura su un mondo sconosciuto, ma la ripresentazione attualizzata di quello già esistente.   

Ngo Thành-Bac si è fotografato a testa in giù in verticale sotto una statua di Lenin. Un collage di fotografie di persone in primo piano che conversano s’intitola Exile is a hard job. Omer Fast mostra un video tra documentario e fiction in cui due poliziotti parlano di camere di sorveglianza. Prabhakar Kamble ha fatto delle sculture verticali in ferro in cui sono inseriti dei vasi di terracotta e delle figure nella parte superiore mentre la base è costituita da piedi in bronzo ricavati dal calco di quegli degli agricoltori di non so dove. La pittura è praticamente assente, l’ho già detto, ma in quanto pittore spesso mi ritorna in mente durante la visita, forse assente perché inadeguata a monte per quell’aura che ancora crea indipendentemente dall’immagine, o anche perché troppo complicata per tradurre messaggi diretti, dunque inattuale rispetto al nuovo scopo divulgativo dell’arte, anche se allo stesso tempo le case d’asta di tutto il mondo sembrano smentire questa ipotesi continuando a battere cifre da capogiro. Però, ogni tanto, qualche quadro c’è, ma quando c’è – ci saranno due o tre tele in tutto – ha sempre uno stile fotografico e accademico, per non dire da pizzeria, che è l’antitesi di uno stile espressivo e di ricerca, come nel caso del pittore di Baghdad Raed Mutar, che dipinge soggetti con mascherine, flebo, eccetra, insomma iconografia post-pandemia.

Sajjad Abbas, I can see you, 2013

Un altro iracheno, invece, Sajjad Abbas, ha messo la gigantografia di un occhio su un edificio la cui costruzione è stata interrotta e l’ha chiamato I can see you. Vabbè. In In Our Lands of Drought the Rain Forever is Made of Bullets di Simon Fattal si vedono delle mattonelle con delle scritte in arabo che testimoniano i massacri dei palestinesi dal 1948, mentre Icebox detention along the us-mexico border o Freezing deaths & abandonment across Canada o ancora Weaponizing water against water protectors di Susan Schuppli sono titoli di opere che non hanno bisogno di commenti. Il fotocollage è una delle tecniche più usate dagli artisti-attivisti. Sven Johne ne espone uno composto dalle piante medicinali presenti lungo il confine tedesco dove ha camminato con suo figlio e i suoi amici per 1400 chilometri; mentre Zuzanna Hertzberg ne ha stampato un altro su una tela che rappresenta le donne che organizzavano la resistenza femminile nei ghetti e nei campi di concentramento nazisti. Poi c’è il collettivo The School of Mutants di Dakar che con delle installazioni, che non so sinceramente descrivere, fatte di materiale d’archivio e monitor di differenti formati, s’interroga, cito alla lettera dal catalogo, sul ruolo delle università, dei progetti di scuole pubbliche e delle accademie utopiche nei processi di post-indipendenza della costruzione-nazione in Senegal e Africa occidentale, grazie ad un ricco network transnazionale che annovera Non-Aligned Movement, Afro-Asianism e Third-Worldism. Niente male come materiale per un romanzo di fantascienza. Uriel Orlow con il suo Reading Wood, che è una sorta di mobile-espositore in legno che, cito ancora alla lettera, esplora il legame tra l’espansione coloniale e le pratiche neocoloniali, si chiede: cosa accade quando la foresta diventa una libreria che serve i sistemi di conoscenza occidentali e le economie dell’estrazione? Io invece mi chiedo, ancora una volta: che cosa accade quando l’esperienza dell’arte non è più in grado di farci sognare un mondo diverso da quello che vediamo? E poi mi chiedo anche: lo squallore e il dolore del mondo, la decadenza morale, la violenza e tutto il resto non andrebbero compensate anche con qualcosa in grado di darci la forza per superare tutto questo?

Infine c’è una sezione che presenta una serie di giornali politici e pubblicazioni delle avanguardie, si va dal Giornale illustrato dei lavoratori fondato a Berlino nel 1925 a Noi. Rivista d’arte futurista, includendo anche volantini del tipo Pace per il Vietnam, copertine di riviste come La lutte de classe fondata a Parigi nel 1938 o la fanzine Rot Front pubblicata a Berlino nel 1970, insomma chi più ne ha più ne metta. Ho il sentimento che l’appropriazione di questo materiale politico vada a rafforzare la debolezza delle opere che gli stanno intorno. Però la cosa a mio avviso si aggrava nella sezione che mostra opere dell’Espressionismo tedesco, di Emil Nolde e Karl Schmidt-Rottluf, a cui si addita un’appropriazione estetica illegittima di modelli culturali dovuta alla loro frequentazione dei musei etnologici, frutto, secondo i curatori, di una distorsione colonialista di oggetti di tradizione diversa come i bronzi del Benin e altro. Così come contraltare sono esposti dei crocefissi di legno degli indigeni dell’Africa o della Papua Nuova Guinea e altri oggetti che sono stati, sempre secondo i curatori, colonizzati. Bisogna decolonializzarli, ci dice la Biennale, e non credo ci sia bisogno di commentare ulteriormente questa distorsione revisionista, questo pericolo di una censura rovesciata che confonde la costruzione di un immaginario simbolico con l’ideologia politica. Poi a proposito di crocefissi mi vengono in mente quelli dipinti nei quadri di Tammy Nguyen, un artista vietnamita che vive negli Stati Uniti, che rappresentano una Via Crucis piuttosto sorprendente per la reinvenzione iconografica del tema, dove le figure sembrano emergere da uno scenario vegetale o piuttosto dove uno scenario vegetale prende la forma di figura, o dovrei dire dove tutte le forme sono il frutto di un continuo ibridarsi tra linee di contorno e sovrapposizione di piani spaziali, cosa che mi fa sperare che l’esperienza dell’arte possa essere ancora un’esperienza visiva.

I testi di presentazione del catalogo ripetono in modo sempre più innocuo quelle formule politicamente corrette dello stare al mondo che sono oramai ovunque, nelle réclame dei prodotti eco-sostenibili o nel disegno di legge del parlamentare illuminato di turno. Il direttore della Neue Nationalgalerie Klaus Biesenbach scrive che la Biennale di Berlino ha pensato ai suoi spazi espositivi come testimoni della storia, la storia di qualcosa di più che la città, mentre la direttrice della Biennale Gabriele Horn introduce l’artista-curatore di quest’ultima edizione, Kader Attia, come un’opportunità specificatamente indirizzata a questioni di decolonizzazione, che vuol dire, citando le sue parole, restituzione di oggetti culturali e di cultura anti-coloniale della memoria. Nel suo testo ricorre di continuo al verbo “riparare”, in relazione alla colpa dell’Occidente colonialista, citando a seguire il collasso climatico, l’ascesa del fascismo e i nuovi scenari imperialisti, e chiudendo il testo con una specifica richiesta all’arte, quella di non porre solo domande, ma di cercare risposte. Ecco, io credo invece che la funzione dell’arte sia esattamente opposta, quella di dare profondità alle domande quando non si possono avere risposte. All’arte non si chiede alcuna risoluzione effettiva, soltanto la possibilità di una direzione di senso, una domanda più cosciente sull’enigma del nostro essere al mondo senza conoscerne la durata. Kader Attia invece nel suo testo intitolato Present! Still, che dà il titolo alla Biennale, parla della miopia nei confronti dei cambiamenti mondiali causati dal mito della modernità occidentale e dei suoi crimini, dalla schiavitù al colonialismo, fondati su un’idea di superiorità. Parla di colpevolezza dell’Occidente manifestata con l’esclusione delle minoranze e crimini come l’Olocausto, ragione per cui noi occidentali dobbiamo riparare, riparare, e riparare tutto quello che non è mai stato fatto ricorrendo all’arte, perché solo l’arte può opporsi all’imperialismo grazie alla sua imprevedibilità. A me sembra, però, che sia proprio l’imprevedibilità a mancare in tutte le opere che ha scelto e che si servono di parole come “fascismo”, “colonialismo”, “imperialismo” per assicurarci il senso della loro presenza che non ha nulla di nuovo. Dovremmo frenare le immagini scaturite dal sogno di un’inconscia macchina imperialista, ammonisce Attia; creare un’agenzia dell’arte contro l’agenzia del capitalismo, ma soprattutto occorre restare nel presente, conclude, e fuggire le tecnologie del capitalismo che implicano manipolazione e sorveglianza. Tutto questo, però, oltre a suonare piuttosto retorico, si fonda a mio avviso su un fraintendimento, quello che per produrre arte sia necessario restare nel presente, dimenticando che il contemporaneo non è mai il presente, ma la possibilità di una prospettiva fuori dall’attualità per presentare un mondo alternativo.

Parte II

Lumbung è il concetto curatoriale alla base di Documenta 15 e si riferisce ad una pratica di condivisione collettiva. Nello specifico, questa pratica consiste nello stivare le raccolte di riso da parte delle comunità dei villaggi indonesiani affinché possano essere utilizzate per fronteggiare un futuro incerto. A Documenta questo concetto si è trasformato nel concetto dell’ospite che diventa l’ospitato, ragione per cui il collettivo indonesiano Ruangrupa, a cui è stata affidata la curatela della manifestazione, ha finito per includere altre realtà curatoriali, a cui è stato dato il nome Artistic Team. Differenti modalità di produzione dell’arte creano differenti opere, sostengono i curatori, riferendosi alle opere d’arte come realtà che dovrebbero funzionare non più come espressioni individuali, né tanto come oggetti da essere esposti nei musei o venduti a collezionisti, ma nei contesti della vita reale. Questo è sicuramente un punto interessante e, a differenza della Biennale di Berlino, che ripete schemi espositivi convenzionali ma con proposte che si fa fatica a definire opere d’arte, qui l’invito è quello di un cambio radicale di paradigma. Si tratterebbe di pensare all’arte non come sistema di produzione ma come sistema di condivisione, non più oggetti, quindi, ma incontri. Interessante, non c’è dubbio, considerando la condizione attuale dell’opera d’arte spesso e volentieri svilita dall’assorbimento nel sistema finanziario del capitalismo mondiale, nonché la conseguente perdita del suo valore d’uso e l’identificazione con il valore di scambio. D’altronde, da diversi anni, di questo passaggio è complice la politica culturale di musei, gallerie e di tutto il resto del sistema orientati su una politica della comprensibilità dell’opera, cosa che ha determinato per forza di cose un logoramento della ricerca linguistica, mortificata dalla logica del prodotto per raggiungere un pubblico sempre più largo. Questo ha determinato uno spostamento verso l’esigenza di una moltitudine di persone che necessitano di comprendere quello che vedono e che magari non vogliono essere turbati dall’incontro con l’opera. Così il linguaggio, che costituisce l’opera, da sperimentale è diventato convenzionale allo scopo di compiacere questa implicita richiesta del pubblico, a cui non si chiede più di vivere lo scarto sulla realtà che l’opera propone nella finzione dell’immagine o altro, ma di riconoscere il suo valore attraverso un prezzo di mercato. Per questo progressivo assorbimento dell’opera d’arte nella spirale finanziaria, la proposta di Ruangrupa con Artistic Team, che include anche un’uscita da un sistema di mercato, è interessante e innovativa, ma l’impressione finale è che non siano riusciti a concretizzare questa alternativa. Mi sembra che il prezzo dovuto alla perdita dell’opera in senso tradizionale, oggetto o performance o altro, in sostanza la sostituzione dello spazio di visione con lo spazio dell’azione, abbia messo in moto una dinamica partecipativa che non è riuscita a dare risultati convincenti né termini emozionali né i termini concettuali, restando semplicemente una proposta possibile ma privata di quello che ogni atto creativo richiede: la forma.

La città di Kassel, secondo le intenzioni dei curatori, deve essere intesa come un organismo urbano e un ecosistema di iniziative locali e collettive, più che come un contesto espositivo, sulla scia di alcune pratiche curatoriali da loro già adottate a Jakarta, quando avevano trasformato alcune case domestiche in spazi espositivi. Così il team curatoriale ha dato vita alla ruruHaus, uno spazio inteso come centro di connessione cittadino, inclusivo e in dialogo con altre iniziative di tipo educativo o altro. Nel frattempo, mentre si lavorava per trovare un metodo per come mettere in piedi Documenta, il concetto iniziale di lumbung si è trasformato in gado-gado, che normalmente è un piatto della cucina indonesiana in cui c’è un po’ di tutto, mentre a Documenta è diventata una pratica che ha comportato l’aggiunta di una cinquantina di artisti alle quattordici persone del collettivo iniziale, dove in realtà la maggior parte di questi artisti erano altri collettivi. Ogni collettivo aveva a disposizione 180 mila euro per la produzione più altri 25 mila come rimborso del lavoro già svolto, poi è nata l’idea di dividere il budget tra gli artisti invitati come reddito di base mantenendo però un fondo comune. Ad un certo punto, se ho capito bene, i vari collettivi di lavoro hanno dato vita ad una serie di realtà espositive, tipo la lumbung gallery, il lunbung kios, eccetera, una serie di luoghi che servivano per capire in che modo si potessero sostenere i progetti. Poi, non so in quale momento, è saltato fuori un collettivo che si chiamava Where is the art? che ha iniziato a discutere sulle modalità in cui l’arte deve radicarsi nella vita, nelle sue pratiche sociali, attiviste ed economiche, senza limitazioni di discipline e definizioni. Da questo punto in poi, e siamo ancora nella fase progettuale della manifestazione, sempre che io abbia capito bene, la situazione deve essere un po’ sfuggita di mano, forse un po’ troppo, perché da un incontro finalizzato alla traduzione pratica di tutti questi concetti si scivolava in un altro con lo stesso scopo, e da questo ad un altro ancora in una spirale di incontri su incontri con continue, e non so fino a che punto comprensibili, evoluzioni della struttura curatoriale.

Tutte queste trasformazioni ruotavano intorno ad una costante, quella che l’arte dovesse essere radicata nella vita, e va bene, ed è anche giusto, per carità, ma a mio avviso queste radici non sono riuscite a germogliare. Così invece di commissionare nuove opere o esporre quelle già esistenti il team curatoriale ha pensato di chiedere agli artisti in che modo avrebbero voluto tradurre le loro pratiche artistiche che già portavano avanti nei loro luoghi di residenza. Così, ad esempio, il Fridericianum si è trasformato in parte in una scuola, il Fridskul, o il Rurukids, in un luogo per far convivere bambini e artisti, mentre altri spazi espositivi sono stati trasformati in luoghi di residenza per gli artisti. I sobat-sobat, sempre che io abbia capito bene, sono emersi invece in un secondo tempo come nuove figure para-curatoriali per garantire lo scambio di conoscenza tra ospiti e artisti, e per pensare insieme a loro come usare gli spazi pubblici, presentando alla fine, più che un programma espositivo vero e proprio, l’idea di un processo di apprendimento chiamato Meydan condiviso con la città. Ok. Presentare un processo di apprendimento, ok, ma non posso far altro che aggiungere che alla fine, questo processo, mi sembra sia ritornato ad essere in parte un’esposizione nel senso tradizionale, ma senza averne però le caratteristiche specifiche né tanto meno le opere da esporre. Sono stati esposti difatti oggetti di altro tipo, come se Documenta alla fine non dovesse tanto essere un’esperienza visiva, ma qualcos’altro, ovvero, cito alla lettera, il tentativo di creare degli ecosistemi basati su contesti più larghi includendo altre collettività. Il testo dei curatori in catalogo si conclude con questa frase: “Make friends not art!”. Ma poi che cosa andiamo a vedere con i nostri nuovi amici?

Dan Perjovschi, The Horizontal Newspaper Sibiu, installaton views, Sibiu, Romania, 2010-ongoing

Foundation Classé un collettivo di Berlino che propone una piattaforma educativa per facilitare l’accesso all’accademia d’arte ai migranti che sono stati discriminati eccetera. Alice Yard è un network artistico dei Caraibi che promuove residenze, interventi, mostre, musica dal vivo eccetera. Another Roadmap Africa Cluster è un network africano che mira a riformulare l’educazione dell’arte in termini di costruzione di comunità, impegno sociale eccetera. Archives des Luttes des Femmes en Algerie è un nome che si spiega da solo. Arts Collaboratory mira a stringere arte e attivismo creando scuole, stazioni radio eccetera. Asia Art Archive ritiene che l’arte non sia soltanto artefatto ma anche conoscenza eccetera. Baan Noorg Collaborative Arts and Culture ha creato una rampa per chi vuole fare skateboard decorando lo spazio intorno con tanto di monitor, neon fluorescenti eccetera. Black Quantum Futurism ha costruito una piattaforma per raccontare storie, fare concerti eccetera. Il collettivo cinese Boloho ha trasformato una caffetteria in un caffè in stile cantonese eccetera. Britto Arts Trust ha creato un bazar, una cucina familiare, un grande murale eccetera. Chang En-Man organizza gite in barca sul Fulda ma si occupa anche di cultura del cibo, nello specifico di ricette con lumache giganti e credetemi non me lo sto inventando. Chimurenga ha creato una stazione radio eccetera. Dan Perjovschi, che è un artista singolo non un collettivo, pubblica sul pavimento della piazza della KulturBahnhof il suo Giornale orizzontale che ci informa su cultura, politica, società e sport, dunque arte pubblica della migliore tradizione. Fafswag connette la cultura queer con pratiche ancestrali di racconto orale e cosmologia indigena attraverso opere di realtà aumentata, wow! Fehras Publishing House presenta una fotonovella che parla di femminismo in relazione all’Afro-Asian Solidarity Movement. Graziela Kunsch crea uno spazio nel Fridericianum dove genitori e figli possono stare insieme. Tutto qui? Si, tutto qui.

Black Quantum Futurism, Reclamation. Space-Time, installation views, Philadephia, USA, 2021

Documenta 15, sembrano voler ribadire i curatori un po’ ovunque, non si riferisce a Kassel come un luogo espositivo, ma come ecosistema, come network di contesti sociali. E va bene, è chiaro, l’abbiamo capito. L’idea però è anche quella di creare nuovi contesti dell’arte in aree industriali, magari distrutte dalla guerra, o in associazioni sociali, così la manifestazione alla fine ha preso forma in trentadue luoghi sparpagliati tra il centro, la zona intorno al fiume Fulda e l’area più a nord della città, anche se poi non tutti sono luoghi veri e propri, ma spazi di diversa identità che vanno dal museo più classico al sottopassaggio pedonale alla facciata di un negozio piuttosto che un cinema, un hotel, un ponte e vari non-luoghi in senso più o meno lato. Un’altra parola più volte rimarcata dai curatori è la “sostenibilità”, tutto deve essere sostenibile, a partire dal catalogo stampato con carta riciclata, però con l’editore Hatje Cantz, che non è proprio un piccolo editore indipendente, per arrivare al cibo offerto nei vari chioschi e chioschetti all’insegna dell’ecologico, regionale, chilometro zero e tutto il resto, ok, fino alla cooperazione per i trasporti con la Wolkswagen, il regional green energy, un attimo però… forse i curatori si sono dimenticati dello scandalo sulle auto diesel truccate per aumentare le vendite sul mercato americano? Forse. Tutto il resto della logistica generale ruota intorno alle parole “riciclabile”, “cooperativo”, “partecipativo”, tra cui la scelta di prelevare un euro da ogni biglietto acquistato per finanziare progetti sostenibili in Indonesia e nella regione di Kassel, non si capisce bene perché solo lì. Ma quello che veramente non si capisce è che cosa abbiano a che fare tutte queste ammirevoli iniziative con l’arte.

Si potrebbe rispondere che è proprio questo il punto, che l’arte non è più tutto quello che abbiamo pensato fino ad oggi, che ci troviamo di fronte ad una svolta epocale, che siamo all’inizio di una nuova era artistica, o non artistica, un’era di arte senza opere, o con altre cose che non si sa bene che cosa siano. Ma allora perché tornare in questi contesti tradizionali? Perché usare i musei, esporre immagini a muro con le cornici, insomma perché rientrare in tutta una serie di codici propri di quelle modalità di cui i curatori vogliono sbarazzarsi? Forse i tempi erano prematuri per fare un’edizione in cui non ci sarebbe stato veramente più nulla da vedere ma soltanto dei luoghi in cui la gente si sarebbe potuta incontrare discutendo dei problemi del mondo? Ma il mondo non ha bisogno anche di spazi che portino fuori dal mondo? Come si fa a vivere solo di realtà? Come si fa a vivere senza finzione? La vita non è forse una combinazione di entrambe? E dove andiamo a trovare la finzione se anche negli spazi dell’arte ci troviamo la realtà? Forse la prossima Documenta sarà un programma di sole conferenze a tema sociale o politico o che ne so io? Forse, nessuno lo sa per adesso, si sa soltanto che è necessario essere partecipativi, inclusivi e tutto il resto, come lo stile grafico del catalogo scelto, così hanno scritto, per una leggibilità più chiara, in modo che i contenuti possano arrivare a tutti. Il problema però è che senza catalogo, anzi senza il Documenta handbook, perché il catalogo avrebbe fatto troppo lusso, di tutto quello che è stato esposto non si sarebbe capito nulla, o meglio si sarebbe capito quello che si capisce quando guardiamo un banchetto di frutta e verdure al mercato che non vuole spacciarsi per un’installazione d’arte. Learning for the future, s’intitola l’ultimo paragrafo del catalogo, prima delle pagine finali con le informazioni per i visitatori e i ringraziamenti vari, che vanno prima di tutto ai partner principali, Sparkasse e Wolkswagen.

Instituto de Artivismo Hannah Arendt (INSTAR), Poetry Space Reading in Time, recital and exhibition by Omar Perez, Havana, 2020

Hamja Ashan crea dei manifesti di vari franchising di pollo fritto che in qualche modo, anche se non mi è chiaro quale, sono connessi con l’islamofobia, tanto che il titolo di un suo video è Theological Positions arounfd Fried Chicken. Ikkibawikrrr mostra un video e fotografie di luoghi devastati dalla guerra, progetti industriali eccetera. Inland si focalizza sull’economia agraria e al Museo di Storia Naturale ha costruito una sorta di wunderkammer di cui non riesco ad elencare gli oggetti, anche se qualcuno l’ho fotografato ma anche guardando le foto non riesco ad elencarli ugualmente. Instituto de Artivismo Hannah Arendt (INSTAR) si occupa generalmente di storia culturale cubana ma nel lavoro esposto fa riferimento alla figura di un poeta russo di nome Sergei Tretyakov, il quale ha vissuto in un kolhhoz nel Caucaso dove ha creato dei giornali a muro che coordinavano le attività della comunità, giornali che lui chiamava “operational factography” che poi è diventato il titolo del lavoro di INSTAR, il quale consiste in una coesistenza di progetti, ma a quel punto mi ero perso. Jimmie Durham & A Stick In The Forest By The Side of The Road non è una band, né il titolo di una pezzo New Wave, ma un collettivo che prende il nome da una frase di Durham e fa riferimento al suo ultimo lavoro non finito (forse bisognerebbe scrivere “project” ma loro scrivono “work”), quello, se ho capito bene, che intendeva riunire un gruppo di persone straniere per scambiarsi conoscenze, empatia e umore, e che a Documenta si traduce in un accumulo di varie cose, dalle pietre vulcaniche trovate in alcune sorgenti vicino Kassel ai tappeti collegati concettualmente, in un modo che mi sfugge, alle piante esotiche di Napoli eccetera. Komina Film a Rojava cura un programma di film appartenenti alla storia del cinema curdo, ovviamente con dibattiti a seguire e tutto il resto. La Intermundial Holobiente ha disegnato uno spazio per leggere e scrivere che è stato installato nel parco, ma io nel parco non l’ho trovato.

Marwa Arsanios generalmente si focalizza sulla resistenza delle donne in Siria e Colombia, ma qui mostra dei video che ritraggono paesaggi del Libano, normalissimi paesaggi come nelle foto di un comunissimo turista che gira per il Libano, che però in questo caso dovrebbero essere connessi ai concetti di autodifesa, eco-femminismo, cura, autonomia, lotta degli indigeni eccetera. Màs Arte màs Accion (MAMA) riflette sul clima e sulla deforestazione, ragione per cui ha installato in varie parti della città sgabelli di legno come luoghi di pensiero realizzati con tronchi di alberi infestati da scarafaggi, ma anche questi non li ho visti. Okk_ ha creato un centro visite per collaborare a qualcosa che non ho capito nonostante abbia letto più volte il testo che spiegava che cosa si doveva fare in questo centro, di cui mi ricordo soltanto la parola “shrine”. Projects Art Work ha creato uno spazio per la neurodiversità e l’arte-terapia, dove ci sono disegni di grande formato in progress intitolati Cosmologies of Care. Richard Bell è un pittore che dipinge, nello stile piatto e grafico di un Pop artista, proteste sociali e scenari di attivismo. Sa Sa Art Projects ha creato…beh, non è semplice dire cosa ha creato…uno spazio per ospitare rifugiati? Un ostello? Qualcosa del genere direi. Serigrafistas Queer si occupa di “collective care” e ha presentato un progetto che collega un’area rurale di Buenos Aires a Kassel eccetera. Subversive Film cura un programma di film sovversivi, piuttosto chiaro direi. The Black Archives mostra materiali relativi alla Black resistance, non fa una piega neanche questo. The Question of Funding ha creato uno spazio per attivisti residenti a Kassel con l’idea di condividere prospettive di finanziamento attraverso quella che hanno definito “etica della sopravvivenza”. Atis rezistans / Ghetto Biennale ha installato all’interno di una chiesa una mostra di sculture realizzate con materiali riciclati e poi assemblati per rappresentare delle figure, e a quanto pare ha conquistato gli animi di tutti quelli che tra il pubblico cercavano un’esposizione di opere in senso tradizionale.

Ovviamente c’è molto altro, ma questo può dare magari un’idea della manifestazione per riflettere sulla portata della proposta curatoriale, che, ripeto, sarebbe potuta anche essere interessante se avesse trovato un nuovo modo di comunicare quello che voleva comunicare, uscendo dalle cornici e dai luoghi tradizionali senza riempirli di eventi che di quelle cornici non avevano alcun bisogno, perché non si trattava di opere ma di contesti di condivisione. La ridefinizione dei contesti è sicuramente un processo non solo legittimo, ma direi necessario, in una società che si trasforma e si adatta ai rapidi mutamenti culturali della vita instagrammatica in tempo reale, ma l’opera e il contesto sono a monte due cose diverse. Allora tutte queste intenzioni, questi progetti, questi slanci collettivi, sono sicuramente il frutto di una problematizzazione del reale che si pone obiettivi sensati, processi necessari, azioni urgenti, ma si pone su un piano effettivo del discorso sulla vita. Questo piano a mio avviso non può stare insieme a quello finzionale di cui è potatrice l’opera d’arte, che è la ragione per cui una sedia per quanto possa essere bella non è una scultura, non funziona come una testa in bronzo, proprio perché alla fine deve essere utile. L’utilità di un oggetto presuppone a monte che chi lo realizza non possa prescindere dalla sua funzione finale, qualsiasi essa sia, ma la forza di un’opera d’arte sta proprio nell’includere nel processo di creazione il fatto che questa dinamica prescinda da ogni finalità, che possa darsi soltanto come espressione del senso di stare al mondo. Non credo alla realtà di un’opera d’arte che sia utile almeno quanto non trovo il senso di una sedia creata per non potercisi sedere, una sedia che diventerebbe, a quel punto, una scultura in forma di sedia. Per tale ragione l’utilità di questa arte impegnata presente a Documenta è ben diversa dall’inutilità dell’arte impegnata che l’ha preceduta.

Il problema risiede nella congiunzione tra arte e attivismo perché a mio avviso le due cose non possono andare insieme, non perché un artista non possa anche essere un attivista, anzi, ma perché le due attività appartengono a due spazialità differenti, o è l’una o è l’altro, o nessuno dei due, come in molte cose viste a Documenta, fallimentari sul piano dell’azione effettiva e povere sul piano dell’invenzione formale. Tra i tanti artisti che potrebbero far luce a riguardo mi viene in mente Emilio Vedova, diviso per un periodo tra  il suo studio, per combattere sulla tela, e la piazza, per incitare gli studenti alla rivolta. Quando Vedova viene invitato nel 1955 a Documenta ha iniziato da due anni una serie di dipinti intitolato Ciclo della protesta, che rappresenta una nuova concezione di pittura narrativa, perché pur facendo riferimento alla dimensione temporale del racconto, a delle figure che fanno qualcosa, che protestano appunto, non fa che importare quel tempo nel processo di costruzione della forma, così invece di farci vedere delle figure che protestano rappresenta la tensione di quel sentire. Il quadro di Vedova diventa quindi una narrazione interiore che trasforma una situazione reale nell’immagine soggettiva che prende forma in un accumulo di segni emozionali. L’agire di Vedova quindi in quanto artista impegnato, nel momento in cui si mette all’opera, necessita di uno scarto, quello per cui il suo groviglio di gesti lasciati sulla tela, di forme informi che stanno per una protesta, non sono altro che la spinta data da un accadimento reale al superamento di quella stessa realtà, per trovare senza alcun riferimento diretto una nuova immagine di quel modello. Nessuno meglio di Vedova chiarisce questo punto quando scrive che lui non crede negli artisti che riescono con piena sicurezza a padroneggiare i propri mezzi, gli artisti che non hanno problemi, aggiungendo poi che la responsabilità è da trovare nei mezzi con cui esprimersi e che i mezzi si trovano quanto più forti sono le cose da dire. Questo è il punto: artista impegnato vuol dire fare riferimento a certe cosa da dire, come la protesta dei lavoratori o quello che volete, e dirle mettendosi in gioco in prima persona, impegnandosi prima di ogni cosa a creare qualcosa che possa restituire uno scarto rispetto alla realtà oggettiva. Ma non vuol dire, come spesso ho visto in questa edizione di Documenta, riportare la realtà così come la vediamo per sbattercela in faccia come una denuncia nuda e cruda, limitandosi ad informarci di un certo stato delle cose, magari anche con quel minimo di elaborazione formale che spesso e volentieri funge da cornice, quell’elaborazione senza rischi ed estetizzante che all’interno di un contesto d’arte ne garantisce lo statuto di artisticità. Per essere un artista non basta fare i giornalisti, gli antropologi, i sociologi, non si tratta di analizzare l’esistente, ma di fondare quello che non esiste, di mettersi in discussione come individui e di affidare questo stato critico ad un nuovo codice espressivo, ad linguaggio diverso da quello con cui comunichiamo senza aggiungere nulla alla nostra immaginazione.

The multidisciplinary approach is situated between art and activism, ho letto in molti dei profili degli artisti invitati, ma io credo che nel mondo abbiamo bisogno sia di uomini che garantiscano diritti per una vita più civile sia di artisti che a quella stessa vita garantiscano una forma diversa da quella che già esiste, ragione per cui le azioni di Che Guevara non sono sullo stesso piano delle forme di Matisse. Arte e attivismo sono due cose che possono andare insieme quando non sono vissute insieme. Non credo si possa creare un’opera nello stesso tempo in cui si agisce per una causa specifica, perché le finalità necessitano di rimanere separate per la riuscita di entrambe. L’opera non cambia alcun assetto sociale, l’azione trasforma il mondo. La vera forza dell’opera d’arte emerge in relazione alla perdita di utilità dovuta alla sua natura finzionale, così come il suo valore si colloca oltre la questione biologica e materiale della sopravvivenza dell’essere, per investirlo esclusivamente sul piano identitario e immaginativo. L’azione utile produce arte inutile, mentre l’arte utile produce azioni inutili. L’azione è qui e ora mentre l’arte necessariamente altrove, nella riapertura del passato o nell’anticipazione del futuro. L’opera d’arte presenta il suo spazio come forma di resistenza temporale, la sua presenza è un incidente che apre uno spazio di conoscenza a lungo termine, che può iniziare ad aprire un senso anche secoli dopo la sua creazione, mentre l’azione per essere efficace deve parlare la stessa lingua della comunicazione, la stessa immediatezza da cui si distingue per un determinato contenuto. L’opera d’arte è sempre una genesi, un’apertura, la nascita di qualcosa che si aggiunge al mondo, per tale ragione la sua materia non è mai quello che già esiste, ma quello che consegue all’urgenza di essere creato. Anche l’azione ha una sua urgenza, ma non è in aggiunta al mondo, è uno strumento per trasformarlo. Con più arte non abbiamo un mondo migliore, ma lo abbiamo molto probabilmente con più attivismo e la necessità dell’una e dell’altro ha margini di successo finché gli ambiti restano separati, finché, per dirlo in termini classici, l’arte resta arte e la politica resta politica, per quanto poi entrambe nella vita siano destinate ad intrecciarsi.

In copertina: Sa Sa Art Projects, A Bangvil Popil ritual with a sculptural work by Chap Vichet, The Sadness of Loss, 2019 (particolare)

Flavio de Marco

(Lecce, 1975), pittore e scrittore, ha partecipato dal 1997 a numerose esposizioni in gallerie e musei. Tra le mostre personali degli ultimi anni ricordiamo “Vedute” presso la Collezione Maramotti di Reggio Emilia, quelle relative al progetto “Stella” (Künstlerhaus Bethanien di Berlino, Frankendael Foundation di Amsterdam e Galleria nazionale d’arte moderna di Roma), “Sui generi” (Galleria Sabauda di Torino; Galleria Estense di Modena e Palazzo Corsini di Roma) e “Figure” presso il Palazzo dei Diamanti di Ferrara. Ha collaborato con diverse riviste, quotidiani ed emittenti radiofoniche. Nel 2010 ha fondato la rivista “Rivista”, mentre nel 2013 ha pubblicato il suo primo libro “Stella” (Danilo Montanari Editore, Ravenna). Attualmente insegna “Metodologie e tecniche del contemporaneo” presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Vive e lavora a Berlino.

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