In memoria di Bruce Chatwin
Attraversare le cose, comporsi, far sì che negli elementi naturali restino anche se per un attimo le nostre tracce, le impronte del nostro passaggio. Far sì che qualcosa degli elementi naturali resti in noi, anch’essi per un attimo, decifrarne i resti, le sensazioni. Avere dentro di noi e fuori di noi quanto sosta, di quegli attraversamenti. Aggiungere al nostro vissuto una parola in più, un gesto più cosciente della sua nudità, qualcosa che disegni la magnifica ricomposizione di tutto ciò, la riformulazione di questo vissuto sparpagliato che è il rivolo nei sentimenti che ci legano alla materia e all’alfabeto delle mani che intrecciano la vita fuori e dentro di noi.
Attraversare è percepirsi in questo marasma in cui ci tocca assolutamente scaraventarci, per porgere ai giorni che vengono quello che forse può essere una vocazione. Quella che inizialmente è una spossata nebulosa dell’accadere in “accadutoci”. Voler portarsi più vicino all’infinito della conoscenza e alla sua costante incompletezza. Cercando di penetrare nella legittimità d’essere qualcosa e sentirsi vestiti con la stoffa fatta per una coscienza naturale. Sentirsi non differenti dalla sostanza di cui è fatta la semplicità di una ciotola.

Il volo di un uccello si stempera nel volo, scompare e si confonde con il fondo. Così dovrebbe un lavoro, confondersi e scomparire. Ed è proprio con la sua scomparsa che appare la composizione della sua forma in un itinerario visivo; ha la disinvoltura di prenderci con la mano degli occhi e lanciarci nel vuoto di ciò che non sappiamo. Ammirandoci dopo in ciò che scopriamo di sapere. E nasce il lavoro senza sapere del lavoro. Nel calamaio della luce ci sono colori di pietra, ne esce fuori il mosaico.
Avvicinarci all’arcano suono di questa antica disciplina è accarezzare i volti barbuti di profeti impastati nella pietrosità delle ere. Come si può credere di sminuzzare queste rocce senza avere dentro di sé il linguaggio fresco che sboccia sotto il palato dei bambini, le mani dei bambini non “articizzano” l’arte, così il mosaico ritorna dall’avvenire. Abbiamo dimenticato i vecchi mosaici, a ragione, ma non abbiamo dimenticato il mosaicista, l’uomo, la sua famiglia, la sua tavola – alla quale ora siamo seduti noi. Qualsiasi artigiano con la sua esperienza potrebbe solo realizzare un manufatto con il risultato voluto. Le pietre del nostro differente mosaico avevano bisogno di ben altro, non le mani di un artigiano con le affannate intenzioni di un artista.
Ho incontrato il mosaicista Abderrazak Belgacem ai bordi del deserto; riflettendoci, dove poteva il mosaico vestirsi di nuovo di stupore se non nel Nord Africa, nel nostro caso nel Cap Africa, in Tunisia.
Ho incontrato il poeta Moncef Ghachem nella sua casa a Sidi Bou Said e poi insieme siamo andati a Mahdia, sua città natale. A Mahdia c’è il più bel cimitero del Mediterraneo, lapidi che si confondono col mare, mare che si confonde con le lapidi. Non ho mai visto viva la morte come a Mahdia. In quel cimitero ho sentito che la morte ha un cuore che palpita, è chiaro che a Mahdia la morte vive nel paesaggio di un’altra vita. Lì in Africa, distanti dall’insensata e nefasta piaga del successo dei mezzi. Stare lungo una strada dove il lavoro lo si vede a piedi nudi, muove e accorda il telaio per tessere uno ad uno i fili che compongono le righe di altri orizzonti.

La Tunisia e la Sicilia hanno già nel passato mischiato la clessidra delle possibilità del vivere insieme. La Tunisia ha accolto migliaia e migliaia di siciliani; in Tunisia si parlava anche l’italiano, così il primo grande poeta tunisino della modernità è stato Mario Scalesi, di origini siciliane e maltesi. Morto in manicomio a Palermo e gettato in una fossa comune, Scalesi scriveva in francese. La singolarità è vivere da estranei strizzando la polpa delle proprie ossa in quel che ci è possibile tradurre da questa alterità preziosissima.
Sono uscito di casa nell’alba tutta ancora buia. Dal parco vicino potevo ascoltare insieme ai miei passi il canto dei merli, “demain quand je serai merle”, scrive Moncef Ghachem in una sua poesia. Di sabato sono partito da Parigi verso Tunisi. La domenica, insieme a Jocelyne, un autista ci ha guidati verso sud, in direzione di El-Jem, a due ore da Tunisi. A El-Jem abita Abderrazak Belgacem, il miglior mosaicista tunisino, che guadagna la vita con la sua verità. Con le mani Abder insegna alle pietre come far parlare l’anima del mosaico. Scopre la vita nascosta nella pietra portando alla luce i colori che palpitano nel cuore di essa. Apre la pietra con le sue mani svegliandone l’anima addormentata da millenni. Ogni suo taglio di pietra si trasforma in luminosità per il linguaggio. Abder distende con le sue mani tessere di colori, alfabeti per lo sguardo. La pietra delle altitudini tunisine scende tra le mani di Abder e si fa lavoro.
Le mani del mosaicista nel nostro progetto hanno trovato l’immensa figura di una poesia del poeta Moncef Ghachem per far parlare l’anima dentro a un nuovo mosaico. Progetto realizzato grazie alla Fondazione Rambourg, dopo un’accurata ricerca antropologica sui savoir-faire di Tunisia, ora anch’essi in pericolo di estinzione.
Abder mi ha insegnato a riconoscere un buon melograno da uno non buono. Ogni mattina, prima del lavoro, insieme facciamo una visita al mercato di El-Jem. Cos’è il mercato di El-Jem? È la natura che, dopo aver fatto sudare l’uomo con il lavoro della terra, del lavoro sul mare, si fa pane, si fa frutta, si fa pesce, si fa carne. Il mercato di El-Jem è la tenda che emana il profumo del sudore di un lavoro fatto con le mani. Collinette di melograni; Abder mi fa segno di portare all’orecchio il melograno come si porta una conchiglia: a una leggera pressione il frutto suona, si sente come uno scricchiolio di un corpo appena svegliato nel suo distendersi nel mattino, il suono secco e sveglio indica la qualità del frutto. Tornando al laboratorio apriamo i melograni, sui chicchi cospargiamo essenza di fiori di arancio preparata da sua moglie. Chissà se l’eternità ha una forma… in quell’istante per me l’eternità ha la forma di un chicco di melograno cosparso d’essenza di fiori d’arancio.

A El-Jem ci aspettavano Moncef, Michelle sua moglie, e Abder. La domenica del due marzo duemilaventi era dedicata all’incontro di noi tutti con le pietre colorate di Abder e al camminare dentro la poesia di Moncef. Dopo aver preso un caffè insieme e visitato il laboratorio di Abder, con i registri dei primi tentativi di lavoro e la sorpresa che nasceva nel nostro sguardo, lo stupore che ci regalavano le prime righe di mosaico, eccoci in direzione di Salakta.
La poesia è un luogo, la poesia va letta con i piedi percorrendola nella sua geologia di nascita. Il poeta tunisino Moncef Ghachem è nato a Mahdia, lavorando come pescatore da ragazzo tra Mahdia e Salakta. Molte reti sono state gettate nella baia di Salakta da Moncef, si pescavano muggini insieme all’alba. La traduzione musiva di una sua poesia ha dato vita allo stare al fianco nel luogo di nascita della sua poesia, respirare insieme allo sguardo delle parole venute alla luce da questa topografia; guardare la risacca del mare, e condividere con Moncef il dialogo che tutti noi abbiamo intrecciato con lui il due marzo duemilaventi, ha lo stesso valore di una scoperta archeologica. Si porta alla vita della luce ogni parola in modo preciso, respirando l’aria stessa della parola, si spolvera la cecità delle parole dandole il suono della nostra voce condivisa, dando alle nostre dita lo sguardo nuovo della parola. Questo è il compito di un nuovo mosaico, ma forse questo vale per tutto ciò che si ama.

Arrivati a Salakta, una linea di lungomare di origini fenice, ci siamo messi come ci si mette di fronte ad un altare, abbiamo trovato una capanna di ristoro con delle panche per sederci, mangiando senza pretese quello che c’era a disposizione. La poesia scelta con l’accordo di Moncef per la traduzione musiva è Étincelle, “Scintilla”. Sostavamo nella poesia, nelle scintille di parole che partivano in quel momento tra Moncef e il mare che avevamo di fronte. Valori differenti, codici desueti, essere dentro le sensazioni, al loro pulsare… non conoscerne i cammini… eppure andarci incontro… stupirsi.
Lavorare è scivolare nelle corde vocali della voce delle cose, insinuarsi nella loro forma senza fare resistenza, uscendone trasformati dalla composizione che ci capita di far accadere. Salakta, una rete che tira il filo d’orizzonte verso riva donandoci la sua sabbia. La forza del poeta e del mosaicista messi insieme.

Dopo la frugalità del pasto ci siamo diretti verso Madhia; ero molto emozionato, ero dentro agli istanti della giornata assolata. Vedo il poeta che con la matita della sua voce disegna i contorni della costa mentre ci avviciniamo alla sua città. C’è una poesia di Moncef che ha per titolo Place du Caire, ci siamo seduti tutti noi in quella poesia. Place du Caire è la piazza della parte storica della città, abbiamo preso un thè e ascoltato la geografia delle parole del poeta, a bordo del loro suono abbiamo scoperto la sua città. Molte erano le persone che stringevano la mano al poeta riconoscendolo, Moncef parlava a ognuno di loro col meraviglioso suono della lingua araba. Un paese suona attraverso le parole del poeta, stringendo la mano a un poeta si riversa nel palmo della sua mano il nostro nome, quella stretta di mano dà vita alla memoria della vita. Michelle e Moncef hanno aperto la loro casa, una casa appartenuta a più generazioni di pescatori della famiglia di Moncef. Una casa che prima non aveva terrazzo, è stato costruito da Moncef, la casa era cieca, il mare non si poteva vedere, eppure il mare è sotto casa… L’interno conserva strumenti da pesca, le scale sono alberi di una nave, portano verso l’azzurro del cielo.

Sul terrazzo ero accanto a Moncef, guardavo le sue mani sul muretto, cercavo di sentire tutto ciò intensamente con i miei occhi e allo stesso tempo attraverso le sue poesie. Così si frantuma il mare e il timbro della nostra voce, il suono delle nostre lingue di paesi differenti, si mescolano in un mosaico. Lontano si sentono i canti di un matrimonio, voci di donne che raggiungono le nostre voci insieme alle onde del mare. Colori, canti, vita… non si ferma niente. Le mani di Abder raccolgono i frantumi di quel mare, componendo in pietra colorata tunisina la poesia di Moncef. Eccola:
Étincelle
quand je me suis abandonné à l’île des paupières
visiteur de dune et de margelles
j’ai mis le temps dans une bouteille
où l’eau se mêle à l’étincelle
qui donne à l’homme
l’occasion d’être une légende
ou le feu
d’une légende

La strada del rientro mi portava a El-Jem, come nei giorni di lavoro. Non so se chiamarla strada sia il modo più preciso, non so… ho visto che ai bordi la strada è costeggiata da donne e uomini che si spostano a piedi, escono dai loro villaggi invisibili e per interminabili chilometri vanno da una lontananza all’altra; si vedono gruppi di bambini che raggiungono le loro scuole, intorno ci sono solo cardi, olivi sparsi e spogli, qualche pecora magrissima attraversa campi aridi… Il lavoro nel laboratorio di Abder era scandito dalla voce registrata dei muezzin che dall’alto dei minareti invitano alle cinque preghiere del giorno. Nessuna superfice e nessuna profondità, solo togliere la scorza a quello che ci viene incontro e ci chiede di essere ricomposto; fare senza saperlo fare. Ho messo le mani accanto alle mani musulmane di Abder per sommergere lo sguardo di nuovo dentro a itinerari musivi, uscirne sbalordito ascoltando gli altri, diventando amico delle pietre.

Lungo questa strada africana, “futuro del mondo”, il generoso sorriso dei bambini che incrociavo, quel sorriso così umano, è ora intriso nelle pietre dei ritratti composti insieme a Abder. La pietra africana ha l’età dei bambini e un’antica saggezza. Su questa strada ho visto il futuro che aspettava tranquillamente il suo gemello da un altro mondo, quello di fronte. Occorrono spaccapietre… per ri-conoscere daccapo.
agosto-settembre 2022
Ringrazio la Fondazione Rambourg. Jocelyne Imbert, Memia Taktak, Moncef Ghachem, Abderrazak Belgacem. La poesia Étincelle, di Moncef Ghachem, è tratta dalla raccolta Cap Africa, 1989 – edizioni L’Harmattan, Parigi.