Vasta e Fazel, gli occhi del ciclone

22/11/2022

Dov’è la cosa perduta quando il lacaniano Nome del Padre – avatar del Simbolico, del Linguaggio – ci ha strappati dall’identificazione completa con chi nutriva le nostre fantasie? È nella luce, perduta nell’abbacinante indeterminatezza dell’accecamento per sovraesposizione.

È una luce interscambiabile, modulare: come le luci artificiose, eppure verosimilissime, dei rendering che il protagonista del testo di Un’autobiografia della luce vede sul computer dell’amica Chiara. La luce di Istanbul, in un preciso momento dell’anno si materializza sullo schermo: parimenti accade per Praga, Berlino, Kinshasa. Sono dappertutto i fotoni di ciò che è andato perduto, che si è dissolto ma ha, al tempo stesso, condotto il soggetto a «lignificarsi». Sono nei film: in Cassavetes, Bresson, Tobe Hopper.

Cos’è Palermo. Un’autobiografia della luce, il recente libro di Giorgio Vasta (testi) e Ramak Fazel (fotografie), edito con la consueta eleganza da Humboldt Books? È una creatura che nasce dall’incrocio di due corredi genetici: per metà libro testuale (Un’autobiografia nella luce), per altra metà libro fotografico (City of Phantoms). Parole e immagini hanno una cronologia interna (e di composizione) differente, peraltro separate da un netto salto di bianco. La luce, alla fine, pare aver traforato – in un chiarore allucinatorio – il pensiero: quello che viene dopo non potrà che contenere la miniatura di quell’abbaglio crescente, l’impressione retinica dell’ultima immagine vista e visitata. L’esplosione della propria incarnazione.

Scrive Georges Didi-Huberman in Immagini malgrado tutto: «Una semplice immagine: inadeguata ma necessaria, inesatta eppure vera. Vera di una paradossale verità, certo. Direi addirittura che l’immagine è qui l’occhio della storia: tenace vocazione a rendere visibile. Ma essa è anche nell’occhio della storia: in una zona ben localizzata, in una fase di sospensione visiva, così come si dice dell’occhio del ciclone».

Le immagini pertengono dunque a uno spazio bianco, apparentemente neutro, nel quale riemergono presenze spettrali, attraverso meccanismi di scandaglio batigrafico; un inconscio ottico come lo definisce Benjamin nella Piccola storia della fotografia; un luogo che è, al tempo stesso, erratico – «non avevamo alternative: penetrati ormai entrambi nella famigerata vita adulta, e avendo iniziato a precipitare verso non si sa bene cosa, noi non potevamo che andare a zonzo, parlare a vanvera, passare il tempo nella vulnerabilità del senso: Noi dobbiamo vanverare, aveva detto, noi dobbiamo zonzare» – ma anche presente, posizionato, come «l’occhio del ciclone», al centro del quale si apre una epoché epistemologica, ma dall’innegabile fisicità, sottoposta a una tensione insopportabile. La sospensione, l’interruzione, la disconnessione, lo s-montaggio prima del montaggio: in tutte queste operazioni si nasconde il significato intrinsecamente politico del guardare una immagine.

Di fatto Palermo è fin dal titolo una ‘presa di posizione’ – geografica, spaziale, esplorativa ed esistenziale: «il fatto che Palermo fosse sempre a pezzi era sì frustrante ma allo stesso tempo gli sembrava una rivelazione: questo continuo eccedersi e disperdersi riguardava non solo una specifica città ma l’umano, o almeno l’umano per come lui lo sperimentava in quel momento della sua vita […] all’ingresso della cosiddetta età adulta, Absolutely Everything [i due flâneur hanno appena giocato linguisticamente sul precedente volume che hanno realizzato sempre per Humboldt Books e che aveva come oggetto il nulla dei deserti americani, dal titolo appunto Absolutely Nothing] avrebbe aggiornato quel discorso chiarendoci che la vita adulta è davvero un tempo smisurato e disperso, una materia talmente minuta da non lasciarsi mai nominare con precisione ma sempre e solo per approssimazioni». Palermo non si può ricomporre entro una visione unitaria, il che è proprio quello che sembra suggerire la forma ‘scomposta’ del libro d’artista che leggiamo.

È una luce che si dissipa, anzi, che si dissemina; una luce erratica, che riflettendosi sulle superfici permette di farsi guardare da chi guarda. Ciò che guardo mi ri-guarda: il linguaggio (che è anche il Linguaggio naturalmente) si rivolta contro il suo artefice. La prosa di Giorgio Vasta, la sua esattezza sotto stress, lucida di un metallo però teratomorfo, si contorce sulla graticola: la lingua si dissolve nell’incipit, ma non porta una liberazione bensì una «lignificazione». È un’altra la luce che deve apparire: la luce della cosa perduta, la luce del Reale. Palermo è un atto di fondazione: non di una città o di una comunità, ma di un Soggetto. Si costituisce il Soggetto, cerca la propria carne originaria, la polpa senza la quale, lui esoscheletro sghembo, «remoto», è sclerotizzato, irrigidito: un ambulante della terra del consumo («consumare l’inconsumabile»: questo è il paradigma ossimorico che muove le peregrinazioni del narratore), carne da cannone nell’immenso squadrone degli zombi di Romero. Palermo è una performance sull’incarnazione che, forse, appare per un istante nel finale, ma subito si dissolve nella lattescenza spettrale dei Phantoms fazeliani. Loro sì, soggetti palermitani (ma siamo sicuri di poter affermare con assoluta certezza che quegli scatti siano originali di Palermo?) avvolti in una perpetua aria di sogno estremo, un occhio di bue che ne illumina crudamente, ma anche in maniera mistica, le pose rotte e pazze, ma anche vitali o scostanti (molti i ritratti di gente che offre le spalle al fotografo), senza per questo giungere ad alcuna epifania, anzi, semmai facendo il percorso al contrario.

Palermo è un’opera palindromica alla ricerca dei padri per questi due narratori che si trovano nella stagione per poterlo essere, padri, ma che sono o si sentono padri-senza-figli. Laddove il testo sembra arrivare a un punto fermo, forse nello spazio anestetizzato al centro della bufera, ecco che le immagini susseguenti ne conservano l’ultima traccia sabbiosa tra le mani ma non possono far niente per riprenderlo: ricomincia l’inseguimento. Il narratore in cerca di «origine» di Un’autobiografia nella luce, alla fine, acquisisce l’occhio (più che il punto di vista) materico della storia e nella storia: il solo occhio disponibile perché lui possa testimoniare di essere esistito. La cosa perduta a cause delle lacerazioni del Linguaggio, la sorveglianza perpetua del “consumo” («consumare l’inconsumabile», ancora) si ritrova vestendo la guaina dermica di chi è stato artefice e testimone della nostra presenza: quest’atto estremo di cannibalismo oculare permette, lui solo, di verificare il freudiano riconoscimento, ciò che dà patente di esistenza. I’ll be your mirror dice la vecchia canzone; il narratore non potrebbe essere più eloquente di così: «io sono stato guardato: non sapevo nulla e sono esistito in uno sguardo che a sua volta di sé e del mondo non sapeva nulla, e questa, mi dicevo, era l’origine alla quale sempre ritornavo senza riuscire mai davvero a ritornare: quella cosa che esisteva nel punto più remoto del mio sguardo: una luce minuscola interna al dentro, anteriore al prima: una luce nel cuore della luce: l’immaginazione dove la vita che non è stata trema: perché esiste solo ciò che manca, e la luce per me è dove la vita manca».

Ma l’agnizione è destinata a durare poco: il nastro si riavvolge, la luce inghiotte tutto. È il tempo del bianco che agghiaccia, poi arrivano i brillamenti fantasmatici dell’occhio di Fazel, la Palermo di carni pendule e arrabattate, di volti agguantati dalle spire del flash, nella datità di fondo di una vita che è premoderna, che vive prima e dopo il dolore e la sua cognizione, ma non per questo appare una vita esuberante e potenzialmente rivoluzionaria: al contrario, è una vita in sospensione, di aure e nuances rivoluzionarie, semmai, ma sempre rivolta al sedimento d’immaginario che abita in fondo al nostro cristallino. Le certificazioni d’esistenza sono, in questo enigmatico e orfico libro, miodesopsie.

Giorgio Vasta, Ramak Fazel
Palermo. Un’autobiografia nella luce
Humboldt Books, 2022
pp. 140, € 24

Filippo Polenchi

è nato e cresciuto a Firenze. Lavora, ha famiglia, legge, scrive. Descrive, osserva. Suoi articoli sono apparsi su “Alfabeta2”, “L’indice dei libri del mese”, "Le parole e le cose", “La balena bianca”. Suoi racconti sono apparsi su “Nazione indiana”, “Collettiva”.

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