S’intitola Beauty, programmatica, l’opera-manifesto realizzata nel 1993 da un ventiseienne Olafur Eliasson. In una sala in penombra lo spettatore fende una nebbiolina artificiale che un faretto produce illuminando una lieve pioggia d’acqua: a seconda del tempo che impieghiamo ad attraversarla intravedremo o meno, attorno a noi, un arcobaleno. Non l’immagine proiettata di un arcobaleno: bensì un, microscopico e personale ma autentico, arcobaleno. Il cielo in una stanza, insomma. Materialmente prima che concettualmente, lo spettatore – ma si dirà meglio, allora, l’utente – si fa in questo modo coautore dell’opera. Resterà questo – sino ai fasti odierni, servoassistiti da uno stuolo di architetti, ingegneri e illuminotecnici da far invidia a uno studio di Hollywood o alla NASA, ma in un contesto ambientale assicurato come sostenibile – il punto d’onore di Eliasson: non produrre uno “spettacolo” (l’immagine del cielo, per esempio, da sempre cavallo di battaglia dei pittori: da Masolino a Magritte passando per Turner) bensì un’esperienza: un modello tridimensionale che, come una scultura, si può contemplare da tutti i lati e, più di una scultura, si può attraversare. Dopo aver “visto” (se appunto il termine è appropriato) Beauty, ci si deterge l’acqua dalla fronte: con un sorriso impossibile da reprimere.
La fama mondiale arrisa a Eliasson con The Weather Project, l’installazione del 2003 alla Tate Modern di Londra, si deve proprio a questa sua impareggiabile capacità di far entrare lo spettatore nell’opera: in quel caso nella luce e nel tepore di un sole in miniatura sospeso nello spazio, immenso sì ma delimitato, della Turbine Hall. In questo modo l’artista danese di origine islandese reinterpreta in modo geniale la tradizione dell’arte relazionale e immersiva: facendosi benigno demiurgo di un “tempo” che lo spettatore può vivere, almeno per il “tempo” che passa nello spazio allestito dall’artista, come vive il “tempo” che trova al suo esterno. Non è un caso che il titolo della grande mostra di Palazzo Strozzi sia lasciato in italiano: perché tempo, nella nostra lingua, rende tanto il senso dell’inglese time quanto quello di weather (ci si ricorda del grande linguista Émile Benveniste, che riconduceva l’etimo di tempus a temperare e tepor). Per il tempo che accorderemo a questa esperienza saremo partecipi di un tempo diverso, artificiale e diciamo sperimentale (nel senso galileiano del termine), ma effettivo: in quella che l’artista definisce «incorporazione dell’idea».
Si capisce quanto possa essere fondamentale, allora, lo spazio in cui questa esperienza si svolge. Si dice sempre site-specific ma con Eliasson il site, semplicemente, è parte dell’opera. Nel bel catalogo edito da Marsilio Arte s’intrecciano la voce dell’artista, che ci introduce nel suo laboratorio concettuale ritagliando una messe di citazioni dalla sua biblioteca di riferimento (primo citato il recentemente scomparso Bruno Latour) e riepilogando la sua storia in un visual essay, e quella dotta e cattivante del curatore della mostra, nonché direttore del museo che la ospita, Arturo Galansino: il quale fa notare come i paraphernalia dell’artista – in alcuni casi deliberatamente, in altri per una non meno eloquente eterogenesi dei fini – riprendano tecniche e dispositivi della storia dell’arte; in particolare di quell’Umanesimo rinascimentale di cui Palazzo Strozzi, per Galansino, è «edificio simbolo».

Il caso più impressionante è quello di Firefly double-polyhedron sphere experiment del 2020, un lampadario rotante in cui due poliedri ruotano con rimi diversi l’uno all’interno dell’altro, riflettendo nell’ambiente luci iridescenti che producono “lucciole” baluginanti attorno a chi contempla l’opera: uno dei due poliedri riproduce la struttura complessa di uno dei «solidi platonici» che Leonardo aveva disegnato per illustrare il trattato De divina proportione di Luca Pacioli (1496). Il «rombicubottaedro», a ben ventisei facce, è riprodotto – in una versione ancora più vicina a quella che splende oggi a Palazzo Strozzi – nel celebre e misterioso ritratto del frate scienziato con un suo allievo conservato a Capodimonte (e a lungo attribuito a Jacopo de’ Barbari, mentre oggi c’è chi si spinge a ipotizzarne una paternità direttamente leonardesca…). Nella stessa sala figurano altri marchingegni definiti «caleidoscopi», che all’occhio di chi osserva restituiscono forme e colori ogni volta differenti: e «caleidorami» chiama Eliasson le sue “macchine” più recenti, esposte in parallelo nell’altra sua mostra italiana alla Manica Lunga del Castello di Rivoli (Orizzonti tremanti, a cura di Marcella Beccaria, fino al 26 marzo).

Nel caleidoscopio, invenzione ottocentesca, è l’utente a conferire movimento, colore e forma ai frammenti di specchio contenuti al suo interno; nella sua semplicità, è una macchina che trasforma lo spazio manipolando e moltiplicando la luce. Così fanno le macchine di Eliasson con lo spazio per antonomasia severo (il Manganelli di Salons lo definirebbe un’«architettura tirannica») del Palazzo quattrocentesco: del quale sovvertono l’ossessione ortogonale con forme curvilinee e cangianti (come quello di Under the weather, la grande ellisse marezzata di effetti moiré che accoglie il visitatore nel cortile d’ingresso), oppure con le fantasmagorie che qui pallidamente ho tentato di descrivere: da quelle più lambiccate a quelle, semplicissime ma non meno ammalianti, dei filtri colorati che sulle pareti proiettano un teatro d’ombre con le luci esterne che attraversano i vetri delle antiche finestre del palazzo.

All’inizio del catalogo Eliasson definisce la mostra «una coreografia», e poi ricorda come da ragazzo, a Copenaghen, «praticasse la street dance», un genere opposto al balletto classico: se in questo la cornice della scena è codificato e rigido, in strada ogni ballerino reinventa invece lo spazio in cui si muove, modificandone di volta in volta forma ed estensione: «da allora, l’idea di rappresentare attivamente lo spazio per mezzo del corpo, di creare lo spazio e renderlo percepibile, è sempre stata cruciale per me». Allora ho capito quale dev’essere, consapevole o meno, il vero modello delle macchine luminose di Eliasson: le luci rotanti e stroboscopiche che negli anni Ottanta della sua (e mia) adolescenza si stagliavano nel cielo delle discoteche: spazi chiusi ma reinventati, a ogni disco, dai corpi che li riempivano. Era stato Leonardo il primo, il più grande dei deejay.
Olafur Eliasson. Nel tuo tempo
a cura di Arturo Galansino
Firenze, Palazzo Strozzi
fino al 22 gennaio 2023
Una versione più breve di questo articolo è uscita sul numero di novembre del «Giornale dell’Arte»
In copertina: Olafur Eliasson, Beauty, 1993, installation view: Moderna Museet, Stockholm 2015, photo: Anders Sune Berg © 1993 Olafur Eliasson, Courtesy Studio Olafur Eliasson