In vista del cinquantenario dalla morte di Ennio Flaiano, che cadrà il prossimo 20 novembre, pubblichiamo il testo che Bruno Di Marino dedica al rapporto dello scrittore con le arti visive.
Parlare di Ennio Flaiano in relazione al mondo dell’arte è impresa non facile, semplicemente perché non esiste un vero e proprio legame consolidato e continuativo tra lo scrittore e l’ambiente delle arti visive, se non qualche suo appunto, frammento di diario in cui accenna alla vita artistica o ai pittori di via Margutta. Eppure sulla rivista “Quadrivio”, il cui sottotitolo recita “grande settimanale letterario illustrato di Roma”, Flaiano nel 1935 pubblica i suoi primi articoli nella rubrica “A&B”, in forma di dialoghi, alcuni dei quali dedicati all’arte e all’architettura. In seguito, nel 1938, scriverà anche un paio di recensioni a mostre sul Rinascimento apparse su “Oggi”. Nel corso dei decenni scrive alcuni saggi di architettura (su Valadier e sull’architettura del XX secolo) e perfino sul design (La sedia del diavolo), fino a introdurre – come vedremo – l’opera completa di Paolo Uccello, in un testo davvero illuminante e, in qualche modo, autobiografico. Infine, per articolare un discorso su questo tema bisogna setacciare attentamente i suoi scritti, cercare tra gli interstizi letterari, constatando alla fine che Flaiano, tra i suoi vasti interessi culturali – dalla letteratura al teatro, al cinema (non solo in veste di autore ma anche di critico) – non è stato affatto esente dall’amore per l’arte. Del resto lo scrittore ha fatto dell’indecisione (così come dell’insuccesso) una bandiera morale ed estetica di cui menare vanto. “Sono stato tentato anche dalla pittura, dal teatro e dall’architettura, insomma non ho mai avuto le idee chiare sulla mia vocazione”, confessava nel 1957 a “L’Espresso”. In un’altra intervista, invece, dichiarava apertamente: “La pittura […] sarebbe stata uno svago enorme per me; ho tentato anche di farla, con effetti disastrosi”.

Nel 1927, bocciato all’esame di ragioneria, si iscrive al liceo artistico, mentre subito dopo frequenta la facoltà di Architettura, ma senza laurearsi. Già nel 1928, tuttavia, collabora in veste di aiuto scenografo a due spettacoli della Compagnia degli Indipendenti dei Bragaglia: L’amore morì anzi non esiste ovvero l’uccisione della donna fatale, un “dramma per marionette” di Giuseppe Amar e Ingranaggio di Francis Edward Faragoh. Come molti altri suoi amici – a cominciare da Federico Fellini che incrocia nel palazzo dove avevano sede sia “Il Mondo” sia il “Marc’Aurelio” – Flaiano disegnava saltuariamente, anche se questi suoi schizzi sono una sorta di divertissement senza ambizione e senza uno stile predefinito. Troviamo alcuni disegni a china in quaderni di appunti, oppure prove di copertina (per libri mai pubblicati) con una grafica piuttosto raffinata. Un suo autoritratto con cagnolino ai suoi piedi e una surrealistica nube da cui emergono alcuni occhi doveva servire da illustrazione per il Diario notturno;un acquerello datato 1965 e intitolato Donnina che attraversa l’Atlantico è stato invece utilizzato come copertina di Storie inedite per film mai fatti (Frassinelli), uno dei tanti libri usciti postumi. Un altro suo disegno (di cui non si conosce la data, pubblicato come copertina del Progetto Proust) ritrae una donna di profilo che annusa un fiore: il titolo è decisamente flaianesco, L’indecisione, ma lo stile ricorda molto Jean Cocteau.
Flaiano aveva conosciuto Cocteau in uno dei suoi viaggi a Parigi nell’aprile del 1950, come ricorda in Diario degli errori; lo andò a trovare nella sua casa sotto i portici del Palais Royal,in compagnia di Marcello Pagliero, amico e regista per il quale scrisse alcuni film, tra cui Roma città libera e Vergine moderna. Ecco la descrizione di quell’incontro: “Cocteau, per noi, riprende daccapo il racconto che stava facendo di un film surrealista e pornografico. Descrive le scene con molta grazia, salta in piedi sul letto, tiene alla nostra approvazione. Cerco a chi somiglia. Ha un sopraddente che dà al suo sorriso una grazia infantile. A chi somiglia? Forse a un compagno di scuola. Ora guardo le pareti. Su una parete c’è un piano di lavorazione del film Orfeo con una fotografia del David di Michelangelo: la testa è stata sostituita con quella dell’attore Jean Marais. Come nei sogni, la porta si apre ed ecco appare Jean Marais in persona, che siede sul letto”. Flaiano aggiunge poi che della conversazione con lo scrittore e artista francese non ricorda nulla perché troppo impegnato a osservargli le suole delle scarpe. Sei anni dopo, nella primavera del ’56, sarà Alberto Arbasino (che per Flaiano aveva grande ammirazione) a visitare questo piccolo appartamento, lasciandoci una ben più ampia descrizione dell’incontro.
Leggendo alcuni pezzi di Flaiano pubblicati sulle riviste, capita di imbattersi in sublimi paradossi in cui la cronaca (oggi ormai Storia) si mescola con l’estetica. Per esempio il 30 luglio 1944 su “Risorgimento Liberale”, a proposito dell’attentato a Hitler ordito da alcuni ufficiali “invidiosi” (a detta dello stesso Führer), Flaiano osserva: “È chiaro che non potendo invidiare in Hitler lo stratega e il politico, quegli ufficiali invidiano ora l’artista”, riferendosi alla gioventù del dittatore rifiutato all’Accademia di Belle Arti di Vienna: “Ne dobbiamo anche concludere che la rivoluzione che si prepara in Germania sarà eminentemente pittorica. Le disordinate forze dell’espressionismo batteranno le statali formazioni del neoclassicismo?”.
In un suo accurato studio su Flaiano e le arti visive, Luigi Paolo Finizio sottolinea come la stessa scrittura dell’autore, frammentaria, fatta di impressioni, composta da “riquadri visivi ed episodici”, sia stata influenzata fortemente dalla sua cultura pittorica, arrivando ad equipararla in alcuni casi al collage cubista. E così – suggerisce sempre il saggista – anche la sua produzione teatrale, basti pensare a La guerra spiegata ai poveri o a La conversazione continuamente interrotta. “Il visivo”, scrive Finizio, “si fa sempre avanti nella sua scrittura, tra diarismo e riporto grafico scorre il filo conduttore che segue l’agire della grafia manuale come mostrano certi suoi disegni a pennarello pervenutici.”

Aldo Palazzeschi, Goffredo Petrassi, Mirko, Carlo Levi, Pericle Fazzini, Afro, Renzo Vespignani, Libero de Libero, Sandro Penna, Lea Padovani, Orson Welles, Mario Mafai, Ennio Flajano, Vitaliano Brancati e Orfeo Tamburi al Caffè Greco di via Condotti, 1948, foto di Irvin Penn.
Pittori al caffè
Ma il rapporto tra Flaiano e il contesto artistico si esplicita innanzitutto per le frequentazioni con alcuni pittori fin dagli anni ’30 e ’40: soprattutto Orfeo Tamburi, Amerigo Bartoli e Mino Maccari. Con Tamburi Flaiano divide l’alloggio di Viale delle Milizie per due anni, dal 1928 al 1930. Lo scrittore diventa così, spesso e volentieri, il soggetto di piccoli ritratti: ci restano due disegni di Tamburi del 1932 dove compare senza baffi. Altri ritratti e caricature sono quelle eseguite da Maccari, Mezio, Bartoli, Tothl, Fellini e altri. Tra parentesi Flaiano intratteneva anche amicizie internazionali, per esempio con il geniale grafico americano Saul Steinberg. In Diario notturno, Flaiano riporta un aneddoto che riguarda Filippo De Pisis:
Una sera del ’43, da De Pisis con alcuni amici (Arduini, Tamburi, Gazzera; e ci siamo anche io e Santangelo). De Pisis parla della sua pittura, senza darle importanza, come un signore delle sue terre. Arduini scherzando fa allora il conto dei quadri che De Pisis ha dipinto in trent’anni: “mettiamo due quadri al giorno, settecento l’anno, in tutto circa ventimila quadri!”. “Ah, no”, risponde De Pisis, “ho dipinto faticosamente un quadro all’anno”. Poco dopo Santangelo uscendo: “È una risposta molto bella, però avrebbe dovuto attribuirla un pochino anche a Morandi”.
Artisti, letterati e cineasti, come ben sappiamo, nella Roma ante e post-guerra si ritrovavano quotidianamente nei caffè e nei ristoranti, luoghi di fertile convivialità che sfociava anche in scambi professionali. Il caffè , il caffè Aragno, poi quelli di via Veneto e, a partire dalla fine degli anni ’50, Rosati a Piazza del Popolo. Basterebbe ricostruire la storia di questi caffè romani per tratteggiare anche le esistenze intrecciate di queste figure che hanno scritto una pagina importante nella vita culturale di questo paese.
Nella celebre foto scattata da Irving Penn nel 1948 al Caffè Greco, Flaiano è ritratto insieme a poeti, scrittori ma soprattutto pittori, abituali avventori di quel locale: oltre al citato Tamburi, Mario Mafai, Afro e Mirko Basaldella, Carlo Levi, Renzo Vespignani, Pericle Fazzini. È la rappresentazione plastica di un milieu generazionale in grado di raccontarci molto più di qualsiasi testo scritto.
Ha scritto Age a questo proposito:
Tutti noi sceneggiatori lavoravamo nei caffè, i nostri luoghi di scrittura erano i caffè. […] Nel ’45, ’46, ’47 c’era il problema dei mezzi di trasporto e poi la maggioranza delle case non erano riscaldate […] vivevamo in coabitazione con parenti o amici. Così era molto più accogliente una saletta del Caffè Greco, di Aragno […] ecco questi erano i locali dove facevamo base per lavorare […] attorno a un tavolo di marmo dove veniva appoggiata una consumazione che centellinavamo per non spendere troppo, sono nati un mucchio di film.
Nel 1954 Flaiano scrive il soggetto per un cortometraggio diretto da Romolo Marcellini, per il quale aveva già lavorato: il titolo è Appuntamento a Piazza di Spagna. Il film descrive una giornata nella famosa piazza romana e vi compaiono fugacemente, tra gli altri, artisti come Renato Guttuso (cliente insieme a Bruno Barilli della sala da té Babingtons) e l’immancabile amico dello scrittore Tamburi, che ritrae appunto la scalinata di Trinità dei Monti, mentre la Voice over recita: “I pittori amano la piazza al mattino, quando l’aria settecentesca sembra rivivere nelle vecchie pietre”. Maggior spazio viene invece dato a de Chirico, che abita con la moglie Isa al civico 31: “Pictor Optimus, de Chirico vive tra i suoi quadri, ormai raggiunto dalla fama”, dice sempre lo speaker, mentre subito dopo il pittore sale sul tetto del palazzo per ritrarre anche lui la chiesa di Trinità dei Monti. Si tratta di un documento abbastanza raro con de Chirico a lavoro, anche se per pochi secondi.

Artisti sullo schermo
Sicuramente l’interesse per l’arte in Flaiano traspare in alcuni film da lui scritti. Per esempio è lecito pensare che la sequenza de La dolce vita in cui Marcello e Steiner (personaggio nato da un’intuizione dell’altro sceneggiatore del film, Tullio Pinelli) commentano una natura morta di Morandi, sia stata concepita da Flaiano, il quale amava e citava spesso nei suoi testi il pittore bolognese. Difficile semmai pensare che sia all’origine di una certa sensibilità visiva che Antonioni ha rappresentato ne La notte: in questo film – sceneggiato da Flaiano e Guerra – vi sono alcune immagini, pittoriche-architettoniche, come il vagabondare di Livia dal centro alla periferia di Milano, che richiamano esperienze avanguardistiche contemporanee, ma sarebbe forzato affermare che vi sia lo zampino dello scrittore in quelle sequenze dove traspare lo spirito spaziale-figurativo che è proprio del regista. Esattamente come l’iconografia felliniana resta di Fellini e, casomai, degli scenografi che lo hanno supportato. In un altro film del regista riminese, Il bidone, uno dei truffatori è in realtà un pittore, soprannominato Picasso, che bidona cinicamente la povera gente ma ha un animo gentile e cerca di piazzare il solito falso De Pisis, tra gli artisti più contraffatti del periodo e, come abbiamo visto, estremamente prolifico.

Ma scorrendo la filmografia di Flaiano (circa 70 film di cui è stato soggettista e/o sceneggiatore o ai quali ha comunque contribuito), vi sono sicuramente numerosi riferimenti all’arte e agli artisti. Difficile dire, nella maggior parte dei casi, se sia farina del suo sacco, dal momento che la cultura e la sensibilità artistica è un patrimonio condiviso. Più facile individuare il suo tocco in quei soggetti la cui paternità è individuale: per esempio nel primo soggetto da lui scritto su misura per Totò, lo scrittore fa incontrare il personaggio del questurino, interpretato dal comico partenopeo, con uno scultore che gli trasmetterà la passione per questa forma artistica, consentendogli di evadere dalla sua triste esistenza verso il regno della bellezza. Il soggetto, modificato perché a Monicelli nella sua prima versione non piacque, diventerà uno dei film italiani maggiormente massacrati dalla censura con il titolo di Totò e Carolina. E il pittore Giovan Battista Villari detto il “Caparra” interpretato da Gassman In Fantasmi a Roma di Pietrangeli? Sia il soggetto che la sceneggiatura sono di Flaiano (oltre che di Maccari, Scola, Amidei e Pietrangeli stesso). Certo, questo riuscito personaggio dell’artista-fantasma – “minore” rispetto ai suoi colleghi coevi – che si offende non poco quando il suo affresco viene riconosciuto da un critico prezzolato come opera nientemeno che del Caravaggio, è una delle figure più riuscite del film, irriverente, scurrile, bohémien e pronto a sbeffeggiare il mondo dei connoisseurship.
L’arte diventa un tema centrale in altri due film sceneggiati da Flaiano e tratti da due grandi autori della letteratura del ’900: Thomas Mann e Marcel Proust. Del primo adatta per lo schermo il racconto Tonio Kröger, storia di formazione che ha come protagonista un giovane dell’alta borghesia che, pur destinato al mondo degli affari, è attratto dall’ambiente artistico. La Recherche, invece, resta solo sulla carta e non diventerà mai un film, ma è inutile dire che l’universo dello scrittore francese è intriso di riferimenti alla pittura del suo tempo e, tra i protagonisti della sua monumentale opera, spicca la figura di Bergotte che, nelle pagine de La Prisonnière, muore di infarto davanti alla Veduta di Delft di Vermeer. Lo stesso Proust aveva avuto una forte crisi d’asma nel 1921 mentre guardava una mostra al Jeu de Paume.
E, a proposito di Vermeer, in Diario degli errori Flaiano racconta di una sua trasferta olandese nel 1958, durante la quale visita il museo Mauritius e ammira una bellissima veduta di Delft di Vermeer (la stessa cui si riferisce Proust?), definendolo “il vero maestro di Van Gogh”. Ne compra la riproduzione per ricordo “ma è meno di niente”. Altri artisti che vede in quell’occasione sono Rembrandt e van Hooch.
Storia di un colore: il blu di Prussia
Tre anni prima, nel 1955, aveva appuntato alcune impressioni di un viaggio in Spagna, poi pubblicate nel Diario notturno. Tra di esse annota la visita al museo provinciale di Siviglia che si trova in un convento settecentesco. A parte i grandi della pittura spagnola del ’600 come Valdes, Zurabaran, Murillo, Roelas ed Herrera, Flaiano è interessato alla produzione di fine ’800, ma anche alla pittura “minore” che, come scrive, “sono il sale di ogni raccolta, perché ci mostrano l’aspetto di un secolo attraverso la cattiva pittura di tutti i giorni”. C’è un che di crepuscolare in questa frase, un po’ come la sincera ammirazione che Gozzano nutre per le “buone cose di pessimo gusto”. Ma lo scrittore specifica meglio subito dopo: “Niente mi rattrista di più della raccolta scelta e ordinata dello studioso che vuole dimostrare soltanto la sua tesi. I quadri preferisco vederli nell’ordine di acquisto, che è il migliore. La buona pittura viene esaltata dalla compagnia di quella più modesta, la quale a sua volta serve a metterci a nostro agio”. Dunque, sembra dire, l’arte dei grandi maestri talmente smisurata e potente da creare nell’osservatore un senso di disagio, a differenza dei pittori di mestiere che, invece, ci riconducono a una dimensione più normale, semplicemente alla nostra realtà quotidiana.
In questi foglietti di Spagna (così è chiamata la sezione del libro), compare anche un riferimento al blu di Prussia, colore che Flaiano erge a protagonista di un’immaginaria biografia. Già nel 1938 lo scrittore aveva pubblicato sulla citata rivista “Quadrivio” un articolo intitolato Contributo ad una biografia del Blu di Prussia; in seguito l’idea viene ripresa ma è solo dopo la morte che, all’interno del testo La pietra turchina, vengono ritrovati questi frammenti biografici (e pubblicati nel 1974 con il titolo Autobiografia del Blu di Prussia). In queste pagine è espresso al meglio il sentimento di Flaiano per l’arte e il suo amore per la pittura e il colore. Il blu è trattato come una persona in carne e ossa e definito “il teorico autodidatta”. I suoi pensieri, che non formano davvero un tutto unitario ma semmai un germe di possibile narrazione, come al solito “interrotta” (secondo la calzante definizione che ne ha dato Anna Longoni), iniziano con queste parole: “Se in un quadro i cattivi umori del pittore, le sue torbide malinconie, i suoi errori, le sue sfrenate ambizioni condensano e s’esprimono, state certi che là, in quel punto, troverete la mia ombra, l’ombra del blu”. Più avanti Flaiano fa alcune considerazioni sull’innovazione tecnica del colore in tubetti, che si afferma nella prima metà del XIX secolo e che ha, tra le sue conseguenze, quella di uccidere “l’accademia, l’ornato, il professionale”. Ed è con la comparsa del colore industriale, dunque, che il blu di Prussia diventa famoso. Lo scrittore elenca soprattutto ciò che dal blu di Prussia viene detestato, ovvero i mistici, la xilografia, l’acquerello, le donne. Il blu di Prussia, che ha frequentato le scuole serali ed è fratello del blu d’oltremare, è “velenoso, sordido, intelligente e pieno di rancori sociali”; inoltre, scrive sempre Flaiano: “Nel Blu di Prussia vedi la dissoluzione morale e intellettuale, non soltanto la dissoluzione organica, la quale è sufficientemente bene espressa, per esempio, dal verde e dal giallo”.
Nella postfazione al volumetto edito da Adelphi, Longoni osserva come nell’articolo del 1938 viene disegnata l’intera parabola del colore: dall’infanzia difficile all’effimero successo (“è scelto dai nuovi pittori che lo preferiscono al troppo romantico e aristocratico nero; intrattabile e non amato dalle pittrici, diventa il colore del patetico, della sofferenza, del lutto, del suicidio”), fino al suo cadere in disgrazia perché noioso. Mentre nella versione pubblicata postuma, scrive sempre la studiosa, il carattere del colore “è più composito, e ai difetti di intreccia qualche qualità: la difesa del debole, l’odio per tutto ciò che si ammanta abusivamente di fasto, la fedeltà nelle amicizie, la capacità di comprendere gli uomini”.
Ma le riflessioni su questo colore tanto prediletto, servono a Flaiano, ancora una volta, a contestare la tendenza realista nell’arte, per esempio quando scrive: “Il realismo mette tragici limiti a ogni finzione e, per conto suo, non raggiunge mai i propri limiti”. E altrove scrive: “La ridicola corsa dell’artista dietro la realtà, che a sua volta insegue la moda, che insegue solo se stessa”. In fondo come sceneggiatore aveva sempre rifuggito il Neorealismo che imperava nel cinema italiano, ricercando sempre un lato paradossale, surreale e magico della realtà: senza questa sua attitudine non sarebbe maturato il suo sodalizio con Fellini, uno di quei registi che forse più di altri esprime il suo netto allontanamento dallo stile dominante, cui pure aveva inizialmente seguito coadiuvando l’amico Rossellini.
Contro il pubblico e il sistema dell’arte
Nel racconto L’ispirazione del mattino (incluso in Autobiografia del Blu di Prussia, ma che costituirà uno dei quadri della sua pièce Conversazione continuamente interrotta), Flaiano fa compiere alcune riflessioni sul dovere degli intellettuali e degli artisti al personaggio dello scrittore che dialoga con il giornalista Tavolino. Per primo l’artista ha l’immane compito di “proporsi la verità delle cose, dei fenomeni, delle leggi che agitano la massa e se stesso”, tuttavia non può essere servo della massa, ma neppure abbandonarla; di conseguenza “la massa lo stringe da presso, come tigre affamata, chiedendo sempre cibo, romanzi, racconti, quadri, sinfonie, balletti. Ed è una massa che mangia di tutto”. L’artista diventa così vittima di questo pubblico insaziabile che lo spinge a denudarsi, a prendere parte per l’una o l’altra massa di cretini. All’intellettuale (e all’artista) si aprono dunque due strade: o quella del successo, cioè di un’arte facile e comprensibile, o quella opposta della ricerca, dell’avanguardia, “della illeggibilità”. Ma, aggiunge il personaggio, la massa finisce per trasformare in un musical anche Joyce.
Dunque non c’è via di uscita. Del resto uno degli aforismi più celebri di Flaiano è proprio quello che recita: “il peggio che può capitare ad un genio è di essere compreso”. Anche in Diario notturno si fa cenno a questo tema, con un sarcasmo ancora maggiore: “E, come se non bastasse, il pubblico volgare diventa sempre più esigente con se stesso, vuol capire tutto e vi riesce. Non ride più dell’arte d’avanguardia, come faceva una volta, perché il Cinema promette di spiegargliela, con le biografie, come un fenomeno romantico e nelle vetrine dei grandi magazzini l’avanguardia è di casa.” L’idiosincrasia verso i gusti “facili” della massa viene esplicitata dallo scrittore in un frammento del suo Diario degli errori quando scrive: “Il cinema è un’industria, o almeno tutti vorrebbero che lo fosse, dimenticando che le poche opere belle del cinema italiano, quelle che hanno fatto parlare dell’esistenza di un cinema italiano, sono state fatte contro l’industria, contro i produttori, e soprattutto contro il pubblico”. Dunque per Flaiano l’unico modo per fare davvero arte è rifuggire dalle aspettative, non offrire agli spettatori cinematografici così come ai fruitori dell’arte ciò che si attendono, bensì stupirli, spiazzarli, confonderli. Possiamo inquadrare in tale contesto anche l’aforisma dedicato al pittore ufficiale del Partito Comunista: “C’è qualcosa che non va in Guttuso, piace troppo ai datori di lavoro”. Nel senso che il vero artista non può essere compiacente e servizievole verso la committenza, sia essa l’establishment politico o il pubblico di massa. In vari testi Flaiano porta il suo discorso sull’intero sistema dell’arte, con vena ovviamente sarcastica e polemica. Per esempio nel suo Taccuino notturno pubblicato sul “Corriere della Sera” il 28 settembre 1972, qualche settimana prima di morire, scrive: “Prendete una tela, laceratela, lavatela, mettetela ad asciugare in una galleria insieme a un cane. Un critico vi spiegherà perché lo avete fatto, e che cosa avete fatto”. È un passo indicativo che sottolinea come spesso, nell’arte contemporanea, l’artista non è consapevole del senso della sua opera, affidandosi al critico che deve inventarsi di sana pianta il significato dell’opera sostituendosi all’artista. Un concetto questo, riportato anche nel racconto Melampus, con altre parole: “Mi conforta quello che succede nelle arti della visione, dove la critica è diventata più interessante e più difficile dell’arte stessa, e dove una certa arte esiste perché realizzata dalla critica”.
In un altro lungo frammento di diario, poi riportato anche in Frasario essenziale per passare inosservati in società, Flaiano abbozza con grande sintesi e lucidità il contesto artistico romano:
L’arte è oggi molto cambiata, ognuno se la può fare in casa propria. Mino Maccari dice: “Non comprate quadri astratti, fateveli da voi’’. Le capitali dell’arte si sono via via spostate: Parigi, Berlino, Londra, Monaco, oggi New York. L’arte segue il denaro. Il sogno del pittore che vive a Roma è di controllare la sua ispirazione non tra le rovine del Foro, ma a New York. Il Foro va bene per i turisti, per son et lumière. E la pittura è un’attività che non sfugge al rapido mutamento delle mode. I pittori pullulano. I più quotati si nascondono nelle loro ville, gli altri che sono legione, seguono piuttosto regole di comportamento. Danno l’impressione di correre su un tapis roulant, timorosi di restare indietro, affaticandosi nelle trovate più iconoclastiche. Le gallerie abbondano, il mercato prospera su pochi nomi, il resto è paccottiglia. Tipo la fiera annuale di Via Margutta, dilettantesca, basata sulla vanità e la faciloneria degli espositori. Quanti sono i pittori? A Parigi gli iscritti al sindacato soltanto sono trentamila. Un piccolo esercito. Possiamo farci un’idea di quanti ce ne sono a Roma ogni volta che l’assessore al traffico chiude una piazza alla circolazione delle automobili: immediatamente questa piazza si riempie di pittori. Bisogna scegliere tra il parcheggio delle macchine e quello dei pittori. Francamente, i pittori sono preferibili perché inquinano meno l’atmosfera e fanno meno rumore. Ma ci sarebbe da ribattere che le automobili non dipingono e non suonano la chitarra.
Vent’anni dopo la posa collettiva del Caffè Greco, c’è un’altra fotografia “epocale” che ritrae Flaiano nel 1968 mentre osserva dallo spioncino La spia ottica di Giosetta Fioroni (in piedi accanto a lui), allestita durante Il teatro delle mostre, kermesse ideata da Plinio De Martiis nella sua galleria La Tartaruga. Fioroni – compagna di Goffredo Parise amico e collega di Flaiano – era anch’essa frequentatrice del Caffè Rosati, dunque la visita dello scrittore poteva anche essere “di cortesia” o di amicizia; non risultano suoi commenti su questa installazione-performance in cui l’attrice Giuliana Calandra passa la giornata in una stanza ammobiliata (ricostruita dall’artista dentro la galleria) osservata dai visitatori mentre compie banali azioni quotidiane. Ma, invece, due anni prima, aveva recensito la rappresentazione L’isola di Fabio Mauri, uno degli artisti più innovativi dell’epoca, cui molte opere performative sono di carattere politico-antropologico. Insomma Flaiano non era certo un conservatore o un “parvenu” nel mondo dell’arte che, tra gli anni ’60 e ’70 vede, grazie all’incalzare delle neoavanguardie, un decisivo mutamento e rinnovamento del panorama. Eppure, tre anni dopo, nell’incipit della sua introduzione al catalogo generale delle opere di Paolo Uccello, sembra mettere in caricatura la celebre installazione di Jannis Kounellis dei cavalli, realizzata nel 1969 alla galleria L’Attico di Sargentini, quando scrive:
Alla mostra di questo genio trovai che l’unica opera esposta era una coppia di cavalli da tiro presi a nolo. Nel silenzio mondano due camerieri giravano coi loro vassoi tra gli invitati impassibili. Uno dei cavalli lordò il pavimento. L’artista prese allora a dipingerlo di celeste. “Ah, no” pensai “non si può copiare così sfacciatamente Paolo Uccello. Ma nessuno sorrideva. La regola del gioco impone l’elegante accettazione di ogni idea; e non è più un mistero che oggi il cretino è pieno di idee.
Ora, sebbene radicale, l’operazione di Kounellis rientrava pienamente in una serie di azioni che stavano portando l’arte al di là di un suo ambito circoscritto verso la performance, il teatro e i media. Flaiano, che da anni viaggiava negli Stati Uniti e conosceva quella realtà artistico-culturale, per quanto legato – affettivamente e generazionalmente – a un altro contesto storico, non poteva non comprenderla e apprezzarla. Del resto in campo teatrale ammirava e difendeva le sperimentazioni di Carmelo Bene. Forse Flaiano si riferiva all’opera di un altro artista, oppure – più plausibilmente – aveva lavorato di immaginazione creando una variante sull’azione dell’artista greco (ma romano di adozione), combinandola con qualche altro suo ricordo. Resta interessante quel riferimento “alla regola”, perfettamente in linea con la convinzione dello scrittore che, laddove l’arte si adegua alle mode del momento e diventa conformista, è degna di essere oggetto di satira. Come osserva anche Finizio, Flaiano è contraddittorio: da un lato sembra avversare alcune correnti della seconda metà del XX secolo come l’informale materico (incluso Burri) o anche la pop-art, dall’altro non smette comunque di seguire eventi e mostre in Italia e all’estero: lo attestano anche i numerosi cataloghi di artisti contemporanei che si trovavano nel suo studio (e che ora sono custoditi a Lugano nella biblioteca cantonale).
L’artista, già prima della stagione neoavanguardistica, per Flaiano non è più quello bohémien di un tempo, ma è una sorta di impiegato che esegue i suoi lavori su committenza rapido e con i tempi ben scanditi. In uno degli epigrammi raccolti ne La valigia delle indie, ecco il sintetico ritratto di questa nuova tipologia di creativo:
Oggi il pittore è un tale che si alza alle otto
E alle nove ha finito il quadro pei premi Marzotto;
Alle dieci spedisce il bozzetto per gli Idrocarburi,
Alle undici rilegge l’articolo di Lionello Venturi,
A mezzodì regola l’orologio col cannone;
Poi caca, compra il giornale e va a colazione.
Sempre ne La valigia delle indie, in una brevissima sezione intitolata Confessioni romane, Flaiano fa parlare in prima persona un impiegato che ha lasciato il lavoro per dedicarsi alla pittura: “Che dipingo? Dipingo… Per fortuna mi manca l’abilità, sono sincero, e detesto la felice improvvisazione che non porta alla verità. […] Il realismo è scaduto, l’astrattismo è di Stato”. Ma l’ex-impiegato divenuto artista ritiene che la pittura sia ancora un atto intimo, solitario, quasi sacro (il pittore dovrebbe meditare su una colonna come uno stilita). La conclusione, dopo essere stato a Venezia (alla Biennale, si suppone), è la seguente:
Oggi io dipingo pregando. Che è poi un modo di lavorare. Aspetto. Una volta imbroccata la mia strada, allora passerò all’esecuzione e farò la personale. Ma ora, a pensarci, mi fa quasi ribrezzo. Quel poco che ho fatto non lo espongo. Lo regalo, piuttosto. Le nostre esperienze non hanno prezzo. O sbaglio?
In dialogo con Paolo Uccello
La preziosa introduzione alle opere dell’artista quattrocentesco, commissionatagli dall’editore Rizzoli nel 1971, oltre ad essere un commento molto originale, raffinato e splendidamente scritto sulla pittura dell’autore della Battaglia di San Romano, finisce con l’essere un’acuta riflessione sull’arte in generale. Tale introduzione è stata ripubblicata in un volume illustrato (edizioni Henry Beyle) a cura e con un saggio di Anna Longoni dal titolo Per una trigonometria degli spazi invisibili, che costituisce il primo tentativo di analizzare il Flaiano critico d’arte. Il suo Paolo Uccello è più che visto immaginato: lo scrittore ci avverte subito, infatti, di non aver potuto rivedere i suoi affreschi e le sue opere poiché, di passaggio a Firenze, il Chiostro Verde di Santa Maria Novella era in restauro e gli Uffizi chiusi per riposo settimanale. Così la “visione” dell’artista parte da riproduzioni Alinari. Vera o finta che sia, questa trovata narrativa tinge di fiabesco l’approccio critico che pure Flaiano in qualche modo conserva, inventandosi un dialogo tra lui e Paolo Uccello, raccontato come un artista a noi contemporaneo. Durante questa conversazione immaginaria (proprio come il ritratto che ne fa Schwob in un suo famoso libro), Flaiano cita in ordine sparso: Mondrian, Morandi, Vermeer, Picasso, Beato Angelico, Donatello, Michelangelo, Bellini, il doganiere Rousseau, Andrea del Castagno, Vasari e Carpaccio.
Man mano che si va avanti con la lettura, appare evidente che lo scrittore abruzzese si rispecchia pienamente nel pittore toscano. In un periodo in cui si è allontanato dalla moglie e dalla figlia andando a vivere da solo in un residence, Flaiano avverte quella stessa solitudine che in Paolo Uccello era connaturata al suo metodo. Così nella conversazione fa dire all’artista: “La natura vista come gioco? L’uso del colore come metafora? La metafora, dice Aristotele, è chiamare le cose col nome di altre cose. Questo spiega la mia tendenza alla solitudine. Il Vasari ha scritto che fu la prospettiva a ridurmi a star solo e quasi selvatico, ‘senza molte pratiche’, ossia praticando poco gli amici, le settimane e i mesi in casa, senza lasciarmi vedere. E che cosa deve fare un pittore, se non questo?”.
E allora la “prospettiva”, il punto di vista, il cadrage, diventa non solo in Paolo Uccello ma in tutta la storia della pittura decisiva per cambiare il nostro rapporto con le immagini. Riprendendo un suo pensiero già riportato in Diario notturno (Flaiano era solito autocitarsi, riciclarsi e rimontare sue frasi in contesti diversi), scrive: “Vista dall’alto, una battaglia può sembrare una farsa campestre, vista dal combattente è soltanto confusione, paura e dolore. La verità è nel mezzo, ogni battaglia è un happening, con la logica ferrea che la fa mostruosa poiché si trasforma, nello stesso attimo in cui si realizza, in un continuo mobile”. E qui Flaiano coglie La battaglia di San Romano in tutta la sua natura cinetica o cinematografica, scrivendo acutamente: “restano di una battaglia alcuni flashes, non necessariamente cronologici e prospettici”. Chissà cosa avrebbe detto Flaiano se, sopravvissuto ottantaseienne avesse visto l’installazione interattiva Totale della battaglia (1996) di Studio Azzurro che prende spunto proprio dal quadro di Paolo Uccello, descritto nelle righe successive in modo davvero mirabolante. Forse non ne sarebbe stato così sorpreso, dal momento che, come nota Finizio (e a ragione), nel racconto Oh, Bombay (che insieme a Melampus è pubblicato nel volume Il gioco e il massacro) il protagonista Adamante acquista a Hong Kong un micromonitor e ne fa quasi un uso performativo e videoartistico, tanto che entra con prepotenza nella sua esistenza. Non dimentichiamo che in quegli anni Mario Schifano viveva nelle sue case circondato da televisori sempre accesi, eppure neanche Moravia – che di Schifano era grande amico – ha immaginato una situazione del genere come Flaiano nel suo racconto, definendo tra l’altro il televisore “object trouvé surrealista”. Molto probabilmente Flaiano conosceva le installazioni di Paik e le distorsioni di immagini elettroniche causate dai magneti, tanto è vero che anche nel racconto, in seguito alla rottura del piccolo monitor da sei pollici, Adamante vede le immagini alterate.
Nel passo precedente su Paolo Uccello vi è anche un riferimento all’happening, uno dei tanti che ricorre nelle recensioni e nelle narrazioni di Flaiano (inclusa Oh, Bombay). Finizio, anche per questa pratica performativa opera un parallelo con lo stile dello scrittore, quando afferma nel suo saggio che per Flaiano l’happening marca “una idea di verità, di spregiudicata e non conformista concezione espressiva nel mezzo nel suo farsi stando dentro la rappresentazione, come di fatto tende il suo modo di scrivere”.
È lo stesso Paolo Uccello, ribaltando i ruoli, a chiedere al suo intervistatore se gli piace Mondrian. Flaiano risponde di sì, e – in tutta risposta – l’artista quattrocentesco si lamenta che il pittore olandese “voleva dimostrare l’esistenza di Dio attraverso la ragione”, ma senza amare la natura. Cosa impossibile. Non dimentichiamo che Mondrian è un artista tirato in ballo diverse volte nell’opera dello scrittore: lo troviamo soprattutto nella sceneggiatura (e poi nel racconto) Melampus, mai diventato film; infatti, la protagonista Liza – come ricorda sempre Finizio – si diverte a dipingere dei quadri in stile Mondrian.
Torniamo per l’ultima volta all’introduzione. Il gioco anacronistico inventato da Flaiano in cui Paolo Uccello è artista senza tempo, coevo se non addirittura posteriore, ma mai antenato, proprio perché all’avanguardia rispetto al suo tempo (non a caso l’introduzione è intitolata Il tempo dietro il tempo), prosegue con questa illuminante dichiarazione:
Così di Paolo Uccello potranno dire: non era un melanconico geometra, ma aveva ben guardato le tele del Doganiere [Rousseau], Di Morandi e di Mondrian; il che può essermi accaduto, poiché tra i pittori di una stessa specie, solitari, apparentemente fuori della società, in una parola portati alla perdizione […], corrono identiche informazioni: sono uniti da una medesima sublime certezza. Se dovessi esemplare la natura di queste informazioni insisterei su questo: che l’arte, come del resto la santità, è un modo di tenere i piedi saldamente poggiati sulle nuvole.
Anche quest’ultima frase lo scrittore l’aveva già utilizzata diverse altre volte in contesti diversi e oggi campeggia sulla targa posta a sua memoria in via Montecristo n. 6, quella che per quasi vent’anni è stata la sua abitazione. Paolo Uccello ed Ennio Flaiano sono stati due artisti che hanno vissuto nel sogno e sono stati in grado di riprodurlo, di rappresentarlo, rifiutando la mera realtà, poiché “ogni vero artista”, afferma ancora Paolo Uccello/Flaiano, “ciascuno nella sua misura, quando dipinge fa del surrealismo, propone un ordine che non esiste in natura”. Ma è qualche passo dopo che Flaiano – rivolto a Paolo Uccello – ci regala la sua dichiarazione d’amore verso l’arte, legato alla memoria dell’opera, riferendosi ancora una volta a Proust, Vermeer e Bergotte:
Il mio giudizio non ha valore, ma devo dirvi che tra le opere di pittura che sono state per me folgorazioni, dandomi la stessa felicità che la Veduta di Delft di Vermeer dava a un personaggio di Proust (ma invece allo stesso Proust), tra queste opere conosciute in un’epoca in cui la riproduzione dell’opera d’arte non era così vasta e intensa come oggi; opere che vanno dall’Allegoria del Bellini, vista di colpo entrando in una sala degli Uffizi quando avevo vent’anni, al cippo di Demetrio nel Museo di Atene; insomma in quella galleria personale che ognuno si fa, scegliendo le opere per una subitanea e inspiegabile emozione che esse gli suscitano e che per un attimo lo fanno sentire in comunione con l’irrazionale e l’eterno, anzi con la felicità dell’irrazionale e l’eterno, c’è appunto una gentildonna dipinta da voi.
Da questa breve esplorazione appare adesso più evidente come le riflessioni sull’arte che Flaiano ci ha lasciato hanno attraversato tutta la sua esistenza e la sua opera, offrendoci alla fine un insieme forse non troppo coerente, ma sicuramente variegato e illuminante. Resta comunque il grande rammarico che lo scrittore sia morto prima di aver potuto lasciarci un volume specifico su un argomento cui aveva ancora molte cose da dire. A noi piace immaginare che, anziché morire di infarto a 62 anni in una triste clinica romana, Flaiano sia morto – proprio come Bergotte – davanti a un quadro, chissà magari proprio una veduta di Delft dipinta da Vermeer. Fumando il sigaro.
Riferimenti bibliografici
- A. Arbasino, Parigi o cara, Adelphi, Milano 1995;
- F. Faldini, G. Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti (1935-1959), Feltrinelli, Milano 1979;
- Luigi Paolo Finizio, Con i piedi sopra le nuvole. Ennio Flaiano e le arti visive, Carabba, Lanciano 2021;
- E. Flaiano, Il tempo dietro il tempo, in L’opera completa di Paolo Uccello, Rizzoli, Milano 1971;
- E. Flaiano, Taccuino notturno, “Corriere della Sera”, 28 settembre 1972;
- E. Flaiano, Storie inedite per film mai fatti, Frassinelli, Milano 1984;
- E. Flaiano, Frasario essenziale per passare inosservati in società, Bompiani, Milano 1986;
- E. Flaiano, La valigia delle indie, Bompiani, Milano 1988;
- E. Flaiano, Diario notturno, Adelphi, Milano 1994;
- E. Flaiano, Diario degli errori, Adelphi, Milano 2002;
- E. Flaiano, Autobiografia del Blu di Prussia, a cura di Anna Longoni, Adelphi, Milano 2003;
- E. Flaiano, Il gioco e il massacro, a cura di Anna Longoni, Adelphi, Milano 2014;
- E. Flaiano, L’occhiale indiscreto, a cura di Anna Longoni, Adelphi, Milano 2019;
- E. Flaiano, Il tempo dietro il tempo, a cura di Anna Longoni, Henry Beyle, Milano 2020.
In copertina: Paolo Uccello, Battaglia di San Romano (Disarcionamento di Bernardino della Carda), 1438, Galleria degli Uffizi, Firenze