La fotografia italiana nello sguardo di Teju Cole

17/11/2022

«Sono nato in Michigan, a Kalamazoo, tra Detroit e Chicago, e cresciuto nel Massachusetts. I miei genitori sono emigrati dalla Nigeria, dove ho vissuto diversi anni, per poi tornare negli Stati Uniti».

Teju Cole, classe 1975, è una delle menti più brillanti dell’America di oggi e tra le coscienze critiche più lucide di questo nostro fragile e contraddittorio Occidente. Scrittore, storico dell’arte e fotografo, con il suo primo romanzo “Città aperta”, pubblicato da Einaudi nel 2013, ha vinto il PEN/Hemingway Award; per anni è stato il critico di fotografia del “New York Times Magazine”. La fotografia è la sua vera passione, insieme alla storia dell’arte, soprattutto italiana, che ha studiato alla Columbia University, dove si è laureato.

Proprio la fotografia è stata l’occasione del nostro incontro, in una giornata torrida d’estate a Bergamo, al Monastero di Astino, dove è ancora in corso (per tutto dicembre) la mostra Realismo infinito di Giovanni Chiaramonte, per il quale Teju Cole ha scritto un magnifico testo per il catalogo, edito da Electa, che ho curato.

In molte interviste e saggi ha manifestato il suo profondo interesse per la fotografia italiana, in particolare per alcuni autori che hanno fatto parte di “Viaggio in Italia”, il seminale progetto collettivo del 1984 ideato da Luigi Ghirri, che ha rivoluzionato il modo di rappresentare il nostro Paese.

Una volta si è anche definito «un fotografo italiano nato e cresciuto nel Massachussets». E in effetti nelle sue immagini si rintracciano molti riferimenti agli autori della cosiddetta “nuova fotografia di paesaggio”.

«La fotografia – spiega Teju Cole – è un fatto tecnico più della pittura o della scrittura e non ha una nazionalità e quindi in termini strettamente tecnici mi sento un fotografo nigeriano perché i miei genitori sono nigeriani, ho il passaporto americano, ma cosa ti dice esattamente di me il fatto che io sia un fotografo nigeriano? Il mio è un lavoro che dialoga molto con l’Italia e con i fotografi italiani, è un riconoscere che ci sono persone e artisti con cui si è instaurato un dialogo».

Qui di seguito la nostra conversazione.

Quando è nato il tuo interesse per la fotografia italiana?

Nel 2011, in un momento non facile per me. Ho avuto un problema importante all’occhio che mi rendeva difficile la visione. Questa vulnerabilità mi ha fatto rallentare molto quello che stavo facendo come fotografo; tutto si è fatto più calmo, paziente, rallentato. Ho cominciato a guardare autori che facevano cose diverse dalle mie, prima Robert Adams, poi Eggleston, quindi Luigi Ghirri che è stata come la conferma di alcune idee che avevo già. Solo a metà del 2014 ho avuto la possibilità di vedere una mostra di Ghirri. Quando osservi le sue immagini non puoi non esserne influenzato, non è solo qualcosa di riuscito, ma qualcosa che ha un’influenza su di te. Viene da chiedersi: cosa sta facendo? Non è solo una fotografia riuscita. Parte dell’attrazione è la semplicità, ma come fa a essere così semplice e insieme potente? Da qui ho iniziato a interessarmi e appassionarmi alla fotografia italiana: Gabriele Basilico, Giovanni Chiaramonte e poi Guido Guidi, autori molto lontani dal fotogiornalismo.

Teju Cole, Fernweh, 2020

Nel parlare di questi autori hai spesso evocato la grande pittura italiana, soprattutto del Rinascimento…

È stato come l’inizio di un viaggio per cui la fotografia non è un prendere qualcosa, ma collaborare con qualcosa. In questi termini il dialogo della fotografia italiana con la pittura mi pare fondamentale, soprattutto per quanto riguarda gli autori che ho nominato prima. Ho cercato di collegare le opere di questi fotografi soprattutto con la pittura del ‘400, che conoscevo già prima, ma che non avevo mai messo in connessione con la fotografia. Decisivo è stato il mio soggiorno in Italia: nel 2013 ho passato un mese in Toscana, ho visto Piero della Francesca, Beato Angelico, Fra Lippi, Guido Reni; davanti alle loro opere vive ho iniziato a comprendere l’atmosfera che guidava questi maestri. Anche attraverso i loro dipinti, i loro affreschi, il mio viaggio di giovane fotografo si è evoluto.

Nel saggio che hai dedicato a Ghirri hai messo a confronto il suo lavoro con la poesia di Elizabeth Bishop. Hai scritto che le loro opere ti parlano con voce davvero simile: «Entrambi hanno il dono di lavorare sulla miniatura senza essere mai banali». Spiegaci meglio…

Le opere più intriganti evocano immancabilmente delle analogie. Bishop e Ghirri trasmettono entrambi una sorta di partecipazione affettuosa alla vita degli oggetti, al modo in cui le piccole cose che ci circondano vibrano di sapere, come se per tutto il tempo avessero preso appunti sul comportamento degli esseri umani. Quando leggo la poesia 12 O’Clock News, per esempio, in cui gli oggetti sparpagliati sulla scrivania – la lampada a collo d’oca, il foglio scritto a macchina, le buste, la boccetta d’inchiostro – diventano sostituti di un paesaggio mitico, non posso non pensare alle nature morte di vasi, barattoli e libri che Ghirri ha fotografato nello studio del pittore Giorgio Morandi.

«Immagini calme e misteriose», le hai definite…

E anche ironiche… È proprio attraverso lo sguardo ironico che Ghirri analizza il divario tra il mondo e un’immagine del mondo, penso in particolare alle fotografie di murales, miniature, cartoline.

A questo proposito quando i giovani fotografi vedono Ghirri e dicono che lo vogliono imitare, una delle cose apparentemente più facili da imitare è l’ironia del suo sguardo, ma in realtà non lo è. Anche i suoi imitatori più di successo alla fine devono risolversi da soli i problemi artistici. Le immagini di Ghirri trasmettono la sensazione che in ogni fotografia sia necessario guardare al di là delle apparenze, ma è una sensazione che rimane irrisolta. Tutto questo rende il suo stile inimitabile.

Guido Guidi, Fiume Savio Cesena, 2007

Guido Guidi è un altro fotografo del quale spesso hai parlato e scritto. Cosa ti colpisce del suo lavoro artistico?

Il tempo. Nelle fotografie di Guidi questa dimensione diventa una fonte di narrazione. Mi affascina nella sua pratica l’uso degli intervalli per costruire una serie. Penso in particolare alle immagini realizzate nel 2007 quando fotografò il fiume Savio, che attraversa la sua città natale, Cesena. Nell’immagine il fiume è piatto e fangoso e sembra passare sotto un ponte, di cui vediamo una parte di muro di mattoni. È una giornata di sole, e alcune parti del fiume e del ponte sono in piena luce, altre in ombra. L’ombra del fiume sull’acqua è ad angolo, quindi la parte illuminata sembra la punta di una freccia. Ma c’è una seconda fotografia, più o meno della stessa scena, con una tavolozza di colori piuttosto simile, solo che la sezione in luce è molto più ampia. E poi si scopre che c’è anche una terza foto. La scena è la stessa, ma la punta della feccia è molto più grande. Ne deduciamo che le tre foto siano state scattate in un unico pomeriggio, mentre il sole si muoveva sulla superficie di questo tratto anonimo del fiume Savio. C’è qualcosa di meraviglioso nella serenità di questo movimento, o forse nell’amorevole pazienza del fotografo. Guidi è strutturalmente scrupoloso, le sue immagini esprimono una fede visuale.

Giovanni Chiaramonte, Piacenza, 1986

Un altro autore italiano che stimi molto è Giovanni Chiaramonte, anche lui come Ghirri e Guidi tra i protagonisti di “Viaggio in Italia”. Nel testo che hai scritto per il libro della mostra “Realismo infinito” hai parlato soprattutto della sua luce e dell’idea della prospettiva, paragonandolo ai pittori rinascimentali. Cosa ami del lavoro di Chiaramonte?

Non voglio essere troppo semplice o stereotipico su questa cosa, ma questo clic fra la fotografia e la pittura italiana nel suo lavoro lo vedo proprio bene. Si può sentire l’organizzazione della tensione all’interno dell’immagine, quest’idea dell’equilibrio è assolutamente e tipicamente italiana. Così come la tradizione di separare queste due abilità: il disegno e il colore. Senza essere pittorialista Chiaramonte realizza delle fotografie perché possano sembrare dei dipinti, ma questo esercizio del caso è informato dall’organizzazione della pittura, lo troviamo anche in molte immagini del libro Realismo infinito. Non si tratta di un “momento decisivo”, piuttosto di una sensibilità geometrica che orienta lo sguardo.

In copertina: Luigi Ghirri, Atelier Morandi, 1989 © Eredi Ghirri

Corrado Benigni

è nato nel 1975 a Bergamo, dove vive. Ha pubblicato i libri di poesia: “Tempo riflesso” (Interlinea 2018, Premio Europa in versi) e “Tribunale della mente” (Interlinea 2012). Nel 2010 la sua silloge “Giustizia” è stata inclusa nel Decimo Quaderno italiano di poesia contemporanea, edito da Marcos y Marcos. Sue poesie sono tradotte in inglese, spagnolo, greco. Suoi testi sono apparsi su numerose riviste specializzate italiane ed estere. Con la raccolta “Là fuori” (Valigie Rosse) ha vinto il Premio Ciampi 2020. Ha curato per gli editori Silvana Editoriale, Humboldt Books e Mack diverse pubblicazioni su fotografi italiani contemporanei, tra i quali Luigi Ghirri, Mario Giacomelli, Nino Migliori, Olivo Barbieri e Guido Guidi.

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