La rivoluzione “copernicana” dell’arte contemporanea

16/11/2022

De gustibus non est disputandum, dice un’antica saggezza. Ma sui gusti, intesi come giudizi estetici, si è sempre discusso animatamente; anche quando, a dispetto del grande impegno teorico riversato da Kant nella sua terza critica, l’estetica moderna ha cominciato a mettere da parte il “gusto” e il “bello”. Anzi è proprio nell’arte contemporanea che le controversie sembrano essersi moltiplicate e inasprite a dismisura. Nonostante l’allargamento dei confini che le avanguardie di inizio Novecento hanno introdotto nella nostra cultura, che ha ormai fagocitato anche quelle lontane rivoluzioni espressive, oggi più che mai sembra essersi aperto un baratro incolmabile: da una parte, l’idea di arte incorporata nel senso comune (e difesa a spada tratta anche da non pochi esperti); dall’altra, quella, radicalmente diversa dalla prima, incorporata in opere e artisti che negli ultimi sessant’anni il mondo dell’arte ha acclamato e continua ad acclamare.

Nelle discussioni su questi argomenti le persone sembrano avere dizionari diversi anche se usano la stessa lingua; e sembrano vedere, dell’arte, due facce opposte e inconciliabili come le facce della famosa figura ambigua papero-coniglio. Qui infatti non si tratta più di questioni di gusto, cioè di applicare una scala di valori compresa tra due poli (bello vs brutto), ma di una questione categoriale (arte vs non-arte). L’arte contemporanea sembra sempre esposta al rischio di non essere percepita come arte.

Una spiegazione convincente di questa tensione concettuale è stata proposta alcuni anni fa dalla sociologa dell’arte francese Nathalie Heinich in un libro controverso e molto stimolante, oggi meritoriamente tradotto in italiano da Johan & Levi: Il paradigma dell’arte contemporanea. Struttura di una rivoluzione artistica. Con una sintesi un po’ tranchant, la sua tesi principale si potrebbe formulare così: l’arte contemporanea sta a quella che l’ha preceduta come il sistema copernicano sta al sistema tolemaico. Ovvero: ciò che le distingue è un cambiamento di paradigma, nel senso teorizzato in ambito scientifico dallo storico e filosofo della scienza Thomas S. Kuhn.[1]

Kuhn ha mostrato che la storia della scienza non è la lenta e continua costruzione di un unico  edificio che viene ampliato e ristrutturato progressivamente: via via si elimina qualcosa, si modifica qualcos’altro, si aggiunge qualcosa di nuovo. È invece, in un certo senso, un lento alternarsi di  cantieri del tutto diversi: dopo aver lavorato a lungo nell’ampliamento e ristrutturazione di un grande edificio, un gruppo di costruttori più intraprendenti e inventivi scopre un modo per risolvere un difficile problema strutturale (la tenuta di una volta o di un pilastro) in modo talmente innovativo da costringere a rimetter mano a tutto il progetto; l’alternativa è così efficace che in breve tempo tutti o quasi decidono di abbandonare il precedente edificio e si apre un nuovo cantiere; al quale lavorano di concerto fino a quando un gruppo di costruttori più intraprendenti e inventivi… E così via.

Fuor di metafora, la scienza evolve alternando fasi “normali” – in cui la comunità scientifica condivide un medesimo paradigma e lavora per risolvere le “anomalie”, cioè gli attriti tra il paradigma stesso e la realtà – e fasi “rivoluzionarie”, in cui un gruppo di ricercatori scopre un’anomalia irriducibile a cui si può trovare una soluzione più semplice e definitiva buttando via il vecchio paradigma e lavorando su uno nuovo, che è incompatibile con il precedente perché cambia tutto, anche se in modi non formulabili in modo esplicito. Il paradigma, per Kuhn, è un concetto complesso, che si riferisce sia alla «costellazione di credenze, valori, tecniche» condivise dal gruppo e poi da tutti quelli che vi si aggregano, sia alla soluzione di un problema che diventa un modello implicito per altri problemi. Non si basa su leggi o regole (un progetto dettagliato, nel nostro esempio), ma su una conoscenza tacita fatta di casi esemplari, metafore privilegiate e, in definitiva, una visione del mondo incompatibile con la precedente (la terra gira attorno al sole, e non viceversa).

È questo il punto cruciale, nell’idea di Heinich: verso la metà del Novecento l’arte ha subito una  rivoluzione “copernicana” ed è diventata, in gran parte, un mondo culturale del tutto alieno rispetto a quello dell’arte, pur rivoluzionaria, di Picasso, Matisse, Kandinsky, Mondrian o Pollock. L’effetto papero-coniglio dell’arte contemporanea è dovuto dunque al sovrapporsi di due modi antitetici di considerare l’arte, coi quali conviviamo da oltre mezzo secolo senza rendercene conto. “Moderno” e “contemporaneo” non vanno perciò intesi in senso cronologico, ma come due veri e propri paradigmi, che hanno rivoluzionato i mondi artistici precedenti.

La prima rottura si verifica con gli impressionisti: sono loro a introdurre il paradigma moderno, che conserva lo stesso medium del paradigma classico (pittura o scultura) ma punta a esprimere non tanto la bellezza, quanto l’interiorità unica dell’artista, ponendo la sua originalità al di sopra delle regole accademiche imposte rigidamente dalle giurie dei Salons. Il libro è però tutto incentrato sugli effetti della rivoluzione successiva, quella che ha messo in crisi il paradigma moderno e che domina tutt’ora il mondo dell’arte.

Si potrebbe obiettare che questa tesi semplifica fin troppo la grande complessità ed eterogeneità di vicende storico-culturali, concezioni estetiche e percorsi individuali che caratterizzano l’arte del Novecento; e che si affida troppo all’analogia con la teoria kuhniana.

Tuttavia Heinich osserva che questo è proprio ciò che si deve fare per «mettere a fuoco i grandi paradigmi dell’arte» (e quindi verificare l’analogia): «occorre studiare in un’ottica a lungo termine la storia sociale, l’economia e la sociologia dell’arte», ma anche «l’economia, il diritto, le istituzioni, i valori e le modalità di circolazione e di fruizione delle opere». Infatti, «il tratto costitutivo di un “paradigma”» è proprio quello di inglobare tutti questi aspetti della cultura in cui si afferma e non solo la dimensione storico-artistica ed estetica.[2]

Insomma, se si vuole capire la diversità radicale dell’arte contemporanea e la sua sconvolgente «ridefinizione dei valori artistici», bisogna diventare antropologi sul campo e descrivere tutti gli attori in scena – compresi quegli attori sui generis che sono le opere – adottando «un altro sguardo»: non più  «quello frontale sulle opere, ma lo sguardo laterale, a luce radente, capace di svelarci il mondo in cui esse vivono e a cui danno vita».

Per questa descrizione, che vuole essere materialistica, pragmatica e contestualizzata, Heinich adotta tre scelte teoriche anomale per la storia o la critica d’arte: le opere vanno analizzate nel loro insieme per mettere in luce «la grammatica che struttura la creazione artistica in un momento dato»; vanno considerate nel modo in cui si differenziano rispetto al passato e non in base alle influenze e alle continuità; non vanno interpretate e valutate, ma osservate e descritte dal punto di vista delle loro proprietà in quanto oggetti, dei loro effetti pragmatici e del loro contesto.

Questa modalità da osservatore sul campo del mondo dell’arte emerge in modo evidente nel libro, che coniuga brillantemente analisi teorica e leggibilità, ed è costellato di aneddoti, citazioni e brevi resoconti in presa diretta, spesso riportati come glosse separate dal testo principale. Non è un caso: «l’aneddoto fa luce sull’eccezione», è un «caso sintomatico di una deviazione rispetto alla norma, di qualcosa che, negandola, contribuisce a metterla in luce».

Il lavoro di Heinich è una descrizione ampia e argomentata del modo in cui  funziona l’arte d’oggi e della sua «incompatibilità» rispetto ai modi che la nostra cultura ha conosciuto in precedenza – e che sono tuttora ritenuti gli unici legittimi da molti. Ecco, condensate in poche righe, alcune delle caratteristiche principali del paradigma contemporaneo (che nel libro sono ben più articolate e arricchite dagli esempi degli artisti più trasgressivi, tra i quali spicca, non a caso, Maurizio Cattelan).

Maurizio Cattelan, A perfect day, 1999

L’opera al di là dell’oggetto. Il risultato del lavoro di un artista contemporaneo non è più un semplice oggetto, l’opera deborda dalla sua componente percepibile: si smaterializza in sensazioni ed esperienze; si ibrida e si fonde col contesto, come nelle installazioni; si fa effimera come nelle performance; si fa documento e istruzioni-per-l’uso; diventa allografica come una partitura o un testo letterario; si concettualizza in idee e progetti, dove l’oggetto diventa letteralmente un pre-testo, cioè una fonte continua di discorsi-interpretazioni.

Il ruolo dei discorsi è infatti fondamentale, al punto che si può dire che l’opera diventa «racconto» e suscita un vero e proprio «accanimento ermeneutico». Il suo valore dipende soprattutto dalla capacità di implicare o generare discorsi, interpretazioni, storie; e questa aura interpretativa, strettamente legata all’aura dell’artista, è alla base anche del suo valore economico.

La trasgressione dei limiti dell’arte (o meglio la loro esperienza, come propone Heinich per metterci dal punto di vista degli attori). Limiti di tutti i tipi: estetici, etici, giuridici. L’arte contemporanea mette sempre in gioco la nozione stessa di arte e le sue antiche idee di bellezza, elevazione spirituale, emozione estetica; si spinge ai limiti del visibile, dell’espressivo, del soggettivo, del creativo; adotta il caso, l’aleatorio, l’arbitrario; forza i limiti del museo o lo contesta violentemente; sfida l’idea di autenticità; sfoggia ironia, assenza di serietà, a volte anche interesse e cinismo.

L’esasperazione del regime di singolarità. Benché si affermi già nel moderno come «sistema implicito di valutazione che privilegia per principio tutto ciò che è innovativo, fuori dal comune», nel paradigma contemporaneo il regime di singolarità viene esasperato al punto di “andare fuori giri”, di portare cioè l’artista a produrre coscientemente la propria singolarità, la quale perciò non è più un effetto relativo alla ricezione dell’artista, ma diventa un principio di produzione del suo lavoro: «l’artista contemporaneo è diventato il  proprio punto di riferimento: è allo stesso tempo il creatore e la creazione»; e le opere diventano «strumenti di circolazione» degli artisti.

La diversificazione dei materiali e il declino della pittura, medium principe dell’arte classica e moderna. L’arte contemporanea è una grande liberazione dalla specificità del medium: qualunque materia può diventare arte; ovvero Si fa con tutto, come recita il titolo del libro di Angela Vettese (che può esser letto in parallelo a quello di Heinich: una diversa “grammatica” del contemporaneo, concentrata sulle tecniche e le loro implicazioni estetiche)[3].

Nel libro sono poi analizzati molti altri aspetti interessanti, di carattere più “sistemico”, come il ruolo decisivo delle mediazioni, le differenti condizioni per il successo, i nuovi modi di esporre e collezionare, i problemi della conservazione e del restauro, la globalizzazione, il “presentismo” e il “giovanilismo”.

Damien Hirst, The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, 1991

Il pregio dell”analisi strutturale di Heinich sta nella panoramica efficace e puntuale di quel mondo “esotico” che costituisce il paradigma dominante dell’arte odierna. Tuttavia, l’analogia con il paradigma kuhniano va presa cum grano salis: ci sono differenze importanti tra i paradigmi artistici e quelli scientifici. Innanzitutto nell’arte, come riconosce la stessa Heinich, paradigmi diversi possono convivere a lungo perché la “comunità” dell’arte è molto più ampia, diversificata e meno compatta di quella della scienza. A ciò va aggiunto che i paradigmi artistici non sono così dogmaticamente esclusivi e impermeabili come quelli scientifici, né tanto meno delineano un progresso irreversibile (perciò anche il paragone fatto sopra con Tolomeo e Copernico va preso con un po’ di sale). La scienza di fatto abbandona i vecchi paradigmi, mentre è evidente che nell’arte il moderno ha continuato a convivere col contemporaneo e gode ancora di buona salute. A rigore, sarebbe più corretto parlare di aspetti paradigmatici emergenti oppure dominanti in un certo contesto storico.

Inoltre, anche se la studiosa francese rivendica un’applicazione attenta della teoria di Kuhn, a mio avviso, proprio nel caso del paradigma contemporaneo lascia in ombra uno degli ingredienti fondamentali dell’analisi kunhiana: l’apparizione dell’anomalia e la nuova soluzione proposta da un gruppo di innovatori.[4] Al suo posto c’è una descrizione strutturale del paradigma già affermato (ovvero nella sua fase “normale”).

Marcel Duchamp, Fountain in “The Blind Man”, 1917 (ph. Alfred Stiglitz)

Eppure, se si accetta l’analogia con le rivoluzioni scientifiche, si può avanzare un’ipotesi plausibile sulla prima, cruciale anomalia, benché tra la sua apparizione e il formarsi di un gruppo che adotta il nuovo paradigma passi un tempo eccezionalmente lungo. Questo iniziale punto di “catastrofe” tra moderno e contemporaneo è il caso Fountain, ideato da Duchamp quando, nel 1917, costringe il comitato della Society of Independents a rifiutare il suo orinatoio, e subito dopo ne rivendica la legittimità artistica in quanto «thought» incarnato in un oggetto qualunque (readymade).[5] È la drammatica scoperta dell’inutilizzabilità dei criteri estetici per decidere cos’è un’opera d’arte in un regime di “singolarità” in cui vige la libertà assoluta dell’artista rispetto a qualunque canone e qualunque limite, libertà che può arrivare a ridurre l’opera a una scelta e a un’idea.

Com’è noto, l’anomalia duchampiana rimane quasi inosservata per molto tempo, per scelta dello stesso autore che si dichiarava “artista spretato”. Non porta perciò a coagulare attorno a sé una comunità di adepti al nuovo paradigma, né tanto meno innesca trasformazioni significative nel mondo dell’arte. Quel gesto rimarrà quiescente, come una spora aliena, per oltre trent’anni, fino a quando l’aura di Duchamp comincerà a emergere e irradiarsi, grazie soprattutto a John Cage e ai giovani artisti che gravitano attorno a lui, come Bob Rauschenberg, Jasper Johns, Allan Kaprow e gli artisti Fluxus. È lì, in quella nuova generazione, che la spora comincerà a germinare e il paradigma si espanderà e arriverà a dominare la scena artistica nei modi più disparati, a cominciare dall’esplosione della Pop Art, del Minimalismo e dell’arte concettuale.

Joseph Beuys, Come spiegare la pittura a una lepre morta, 1965

Ho accennato all’aura di Duchamp perché, in realtà, è nel complesso della sua opera e della sua personalità che sono rintracciabili gran parte degli aspetti del paradigma contemporaneo, che potrebbe perciò essere chiamato “post-duchampiano”: la vera anomalia, in fondo, è lo stesso Duchamp, il grande “anartista”. Del resto, l’idea di un’opera e di un artista come nucleo del paradigma è in linea con un’osservazione di Kuhn che riguarda proprio la storia dell’arte. Nelle ultime pagine del Poscritto, aggiunto al suo libro nel 1969, Kuhn suggerisce che la nozione di paradigma, inteso nel senso di «risultato concreto» ed «esemplare» (a suo dire il senso «più profondo»), potrebbe servire per studiare le singole opere come «modellate le une sulle altre anziché prodotte in conformità con alcuni canoni astratti di stile». E nel Comment, dello stesso anno, precisa che dovrebbero essere le opere «non gli stili, a servire da paradigmi». Credo che un’analisi delle opere, o meglio ancora, degli artisti come paradigmi sia un altro modo, molto proficuo, di applicare all’arte la nozione resa famosa dal grande storico della scienza.[6]

Dato il suo approccio trasversale e strutturale, Natalie Heinich non si sofferma sui singoli artisti e si limita a riconoscere in Duchamp «il grande maestro dell’arte contemporanea», citandolo molto spesso.[7] Quello che davvero conta per la sua analisi non è la genesi del paradigma, ma l’onnipervasività e l’incompatibilità con gli altri paradigmi. Da esse deriva una conseguenza illuminante per le controversie sull’arte: per passare da un paradigma all’altro ci vuole, come dice Kuhn, una «svolta gestaltica» cioè una «conversione», il che comporta l’adozione di valori diversi. La studiosa francese si limita ad osservare come sono definiti e costruiti questi valori all’interno dell’arte contemporanea. Avendo scelto il punto di vista dell’osservatore neutrale, evita giudizi e interpretazioni: ci mostra soltanto come funziona l’arte “contemporanea” e ci fa capire la radicalità delle trasformazioni che hanno investito il mondo dell’arte.

Non sorprende, allora, che la sua descrizione del paradigma induca a proiettarvi connotazioni negative o positive: viste dai “moderni”, le trasformazioni sembrano degenerazioni di un’arte che non può più definirsi tale; viste dai “contemporanei”, eccitanti innovazioni che aprono la ricerca artistica a una libertà totale. È un effetto del salto di paradigma: dal suo interno, ogni punto di vista è legittimo, ma incompatibile con l’altro.[8]

Tuttavia, mi pare che le caratteristiche che l’approccio socio-antropologico di Heinich mette in luce inducano più facilmente a una visione negativa; tanto che il libro può esser letto come una raccolta delle bizzarrie dell’arte contemporanea, in grado di deliziare anche i suoi più tenaci detrattori. E questo potrebbe spiegare i malintesi a cui il libro è andato incontro e di cui parla l’autrice nella nuova prefazione.

Nel suo complesso il nuovo paradigma sembra infatti spostare il peso e l’interesse dell’arte fuori dall’oggetto artistico, su quello che, dal punto di vista dei paradigmi dominanti in precedenza (e ancora profondamente radicati nella nostra cultura), è “a margine”, cioè in senso lato “cornice” o meglio “framing”: i discorsi, i contesti, i meccanismi di spettacolarizzazione e di costruzione dell’aura dell’artista. E tutto ciò può essere letto come una conferma dell’idea che l’arte contemporanea sia il prodotto di un raffinato packaging dell’aura, costruito da un sistema di relazioni sociali, poteri e discorsi; cioè da quel mondo dei Mercanti d’aura descritto da Dal Lago e Giordano,[9] al quale contribuiscono gli stessi artisti, diventati costruttori della propria aura.

La stessa Heinich, a dispetto del suo sguardo neutrale, sembra a volte evidenziare questi aspetti negativi del paradigma, in particolare quando descrive «il ruolo dei discorsi» e parla di «accanimento ermeneutico»: «è un’espressione forte: eppure non sembra esagerata per descrivere la sistematicità e l’insistenza di questa ricerca di significato e la tendenza altrettanto sistematica ad attribuirlo all’oggetto interpretato, più che al lavoro dell’interprete».

In realtà, significato e interpretazione sono nozioni centrali per le opere del paradigma contemporaneo e non possono essere ridotte alla costruzione dell’aura come cornice-packaging. Per evitare lo sbilanciamento “apocalittico” dell’analisi di Heinich, può essere utile un modo alternativo di vedere il nucleo del paradigma che fa capo al concettualismo duchampiano. Riprendendo in modo non ortodosso la famosa definizione di Arthur Danto, potremmo dire che l’opera d’arte è contemporanea quando il suo valore va cercato soprattutto nel significato incarnato; dove “significato” va inteso come interpretazione in senso molto lato, cioè come quell’«atmosfera di teoria e storia dell’arte» (Artworld, come lo chiama Danto) in cui rientra l’artista, la sua vita, la sua ouvre, il contesto storico-sociale-culturale, oltre alle interpretazioni e agli effetti prodotti dall’opera. Quanto al termine “incarnato”, esso indica che il significato è inseparabile dal corpo significante (oggetto, evento, testo) che è sempre necessariamente presente, anche se nelle modalità più inopinate. A rigore non c’è mai una «smaterializzazione», neanche nella “galleria vuota” di Yves Klein o nelle “situazioni costruite” di Tino Sehgal. Lo stesso orinatoio di Duchamp, anche se scomparso, anche se considerato come un «new thought», non è solo un gesto ideale, ma è “incarnato” in qualcosa di fisico e percepibile: nella fotografia di Stiglitz che Duchamp fece stampare nella rivista The Blind Man, oltre che nelle varie copie di Fountain realizzate negli anni Sessanta e nelle loro infinte riproduzioni. Nessuna opera  può essere ridotta a una pura idea, per il semplice motivo che l’idea, se vuole essere arte, deve farsi segno. In questo senso un oggetto, un evento, un testo c’è sempre; ma non basta guardarlo: bisogna anche pensarlo, considerarne le relazioni col contesto e con la personalità dell’artista, con le altre sue opere, col suo Artworld. Bisogna cioè ricostruire la sua aura, che si fonde con l’aura dell’artista.[10] Tutto questo può essere visto come ipertrofia del racconto o del discorso, e analizzato sociologicamente; ma non è una realtà «eminentemente» sociologica: è, in misura altrettanto importante, una realtà “ermeneutica”, che va studiata con occhio critico e filosofico.

E se è vero che «l’operazione ermeneutica, cioè l’attribuzione di un significato da interpretare o decodificare, è indissociabile da un atto normativo, cioè l’attribuzione di un valore»,  allora il compito della critica non è attribuire un significato qualunque esso sia, quanto ricostruire l’Artworld dell’opera, ovvero la sua aura “autentica”, quella che illumina la potenza (cognitiva ed emotiva) della metafora contenuta in essa. In questo modo aiuta lo sguardo a farsi pensiero (oltre che emozione). Che è in fondo ciò a cui tende anche la migliore arte contemporanea.

Nathalie Heinich
Il paradigma dell’arte contemporanea
Johan & Levi, 2022
pp. 272, € 27

In copertina: Marcel Duchamp playing chess with Eve Babitz, 1963, photo ©Julian Wasser


[1] Thomas S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolution(1962), trad. it. Einaudi, Torino 1969.

[2] Questa impostazione è legittima, ma ho il sospetto che possa basarsi su un’estensione indebita del carattere “olistico” del paradigma kuhniano. Per quest’ultimo la “visione del mondo” cambia perché viene ristrutturato, al suo interno, il campo della scienza che studia il mondo: per capire che un aristotelico e un galileiano vedono il pendolo in modo diverso, non occorre studiare la sociologia, l’economia o il diritto della Grecia del IV secolo e dell’Italia del Cinquecento.

Perciò, volendo applicare l’analogia all’arte nello stesso modo, cioè all’interno della dimensione estetica, un uso più rigoroso del paradigma kuhniano è quello proposto da Caroline A. Jones in relazione al modernismo greenberghiano rivisto da Michael Fried, che elaborò le sue idee negli stessi anni e in contatto con Kuhn. Da questo punto di vista, strettamente estetico e storico-artistico, è più plausibile sostenere, come fa la Jones, che la fine del paradigma modernista non è determinata dall’imporsi di un nuovo paradigma, ma da un’epoca “post-paradigmatica”.  Caroline A. Jones, “The Artworld and Thomas Kuhn”, Critical Inquiry, Spring, 2000, Vol. 26, No. 3, pp. 488-528.

[3] Angela Vettese, Si fa con tutto. Il linguaggio dell’arte contemporanea, Laterza, 2010. Vettese nota che la drasticità dei cambiamenti mette in questione la stessa definizione di arte e sceglie di concentrarsi sul capire «come nascono e in che lingua ci parlano le singole opere». Ma proprio la difficoltà di definire questa “arte” e il fatto che le opere parlino un’altra lingua sono indizi a favore di un paradigm shift.

[4] Per il moderno, secondo Heinich l’anomalia  «potrebbe essere stata generata dal divario crescente fra i gusti di un pubblico sempre più ampio e una popolazione di artisti sempre più estesa e, all’estremo opposto, un canone accademico pietrificato, tenuto in vita da un gruppo esiguo di artisti ufficiali, perlopiù anziani». A ciò andrebbe aggiunto anche la centralizzazione statalistica dei salon e la conseguente chiusura del mercato ufficiale, che portò gli artisti più innovatici e i loro mercanti a inventare un mercato alternativo per le loro opere. Cfr. Francesco Poli, Il sistema dell’arte contemporanea, Laterza 2011.

[5] Lo fa per interposta persona, sulla rivista The Blind Man, da lui stesso ideata e fatta circolare in occasione della mostra. Ovviamente, Fountain è solo la punta – quella che sarebbe diventata più nota e quindi più influente – dell’iceberg Duchamp, che comincia a concepire la sua “anomalia” già nel 1913, quando in un appunto scrive: «Si possono fare opere che non siano d’arte?». Di lì a poco nasceranno i suoi readymade.

[6] È quello che in parte ho cercato di fare nel mio Catastrofi d’arte. Storie di opere che hanno diviso il Novecento, Johan & Levi, 2019.

[7] Duchamp è l’artista più citato nel libro (30 volte), seguito da Cattelan (29) e Yves Klein (27); a distanza seguono Hirst, Buren, Beuys, Boltanski, Rauschenberg, Warhol, Koons, Christo, Flavin, Murakami e molti altri con meno citazioni.

[8] In realtà, è innegabile che ci siano molti che riescono ad apprezzare sia opere moderne che opere contemporanee: segno che i valori del primo non sono sempre incompatibili con quello del secondo. Anche questa relativa “permeabilità” tra i due paradigmi dimostra i limiti dell’analogia tra le rivoluzioni scientifiche e quelle artistiche.

[9] Alessandro Dal Lago e Serena Giordano, Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea, il Mulino, 2006.

[10] Ho espresso più compiutamente queste idee in Catastrofi d’arte, op. cit. Per le idee di Arthur  Danto rimando ovviamente ai suoi libri, a cominciare da La trasfigurazione del Banale. Una filosofia dell’arte, Laterza, 2008.

Luigi Bonfante

è saggista e autore televisivo. Suoi saggi su arte moderna e contemporanea, televisione, cinema, musica sono apparsi su “Doppiozero", "Link Idee per la tv” e sul suo blog “Deepsurfing”. Ha pubblicato “Catastrofi d'arte”, Johan & Levi, 2019.

English
Go toTop