Appetito per il mondo. Su Peter Handke

14/11/2022

Più si avanza negli anni e più si ha piena consapevolezza di aver colmato solo qualche lacuna nella propria ignoranza. Magra consolazione sia che, pur approssimandosi all’inverno della vita, si hanno ancora tanti mondi da scoprire. Così, nelle scorse settimane, dopo essermi fatto turbare dalla multiforme produzione cinematografica di Michael Haneke, di cui avevo visto solo qualche bellissimo film, mi è capitato di leggere un libro del 1972 del suo connazionale e quasi omonimo Peter Handke, Infelicità senza desideri. Un libro di cui avevo spesso sentito parlare, ma che mai avevo voluto affrontare per il timore di risvegliare antichi traumi, e che, invece, per tanti versi, si è rivelato potente, di rarissima precisione, terribilmente toccante e, inaspettatamente, catartico. Elaborazione di un lutto, il suicidio improvviso della madre, la scrittura di questo breve romanzo si espande in una riflessione a tutto tondo sulla figura materna, sulla condizione femminile, sull’ambivalenza dei sentimenti verso i figli. Handke, come gli accadrà anche altrove, ma forse mai più con questa forza, attraverso una prosa asciutta e senza sbavature, permette che il personale diventi universale, simbolo di una condizione che travalica il singolo per toccare ogni lettore. In fondo, questo libro raggiunge quelle vette di scrittura che trasformano un testo in un “classico”.

Il libro di Handke, ritornando alle casuali vicende biografiche dello scrivente, è una sorta di contraltare a Haneke, a film come Amour o La pianista. Haneke, col suo cinema secco e spietato, seziona, sviscera, decostruisce ogni Sé, ogni identità, per scaraventarci, tutti, nel fango in cui dimeniamo le nostre esistenze. Ci mostra la nostra povertà, le nostre bassezze, le nostre contraddizioni, la nostra miseria. Anche Handke, proprio come Haneke, osserva, descrive, crea distanza, ma il suo sforzo di attenzione è teso a ché, di fronte ai fatti della vita, alla loro apparente mancanza di senso, ognuno – lui, sua madre, il lettore – trovi un proprio luogo, uno spazio esistenziale in cui vivere, in cui continuare a vivere, riappropriandosi o, forse, appropriandosi per la prima volta di un sé, di se stesso. Sono due grandi autori, per molti aspetti opposti e complementari.

Peter Handke nel giardino della sua casa di Chaville, vicino a Parigi, dopo l’annuncio del Nobel (ph. ©François Mori)

Handke lo avevo incontrato, come scrittore, nel 1997, di ritorno da un soggiorno di diverse settimane a Sarajevo, dove mi ero recato, l’anno precedente, a guerra appena conclusa, per organizzare forme fattive di aiuto alla popolazione locale. L’esperienza di quella città, completamente distrutta e stremata da un conflitto terribile, a cui lentamente ma ineluttabilmente si sovrapponeva la comprensione di una realtà complessa, che poco aveva a che fare con la narrazione dei media di quegli anni, mi spinsero a leggere, prima, Un viaggio d’inverno e, subito dopo, Appendice estiva a un viaggio d’inverno. Riprendendoli tra le mani, riaffiora il ricordo di un’esperienza di lettura che – ben lontana dal sentimento di indignazione che impone, ancora oggi, di affiancare al nome di Handke l’aggettivo “controverso”, eufemismo per esprimere un giudizio di condanna senza appello – mostrava, al ragazzo che ero allora, la capacità di farsi carico della complessità della vita e di come compito di un intellettuale fosse proprio quello di lasciare che la scrittura si permeasse di questa complessità, senza cedere alle sirene dell’ideologia. Certo, Handke disse (non scrisse) anche qualche intollerabile stupidaggine, come lui stesso ammise, in quei giorni. Cedette alla stupidità che, anche quella, è al fondo di ognuno di noi. Cadde nel becero spirito di parte. Ma se ne scusò, a più riprese. Nei suoi libri, allo stesso tempo, continuò a cercare di ancorarsi alla realtà, alla sua morfologia contorta e instabile.

All’ombra delle sue pagine, trovai lo stesso senso di realtà che avevo incontrato per le strade di Sarajevo, nei giovani studenti a cui cercavamo, raccogliendo fondi in modo spesso disorganizzato ma profondamente empatico, di far giungere delle borse di studio. Nel fraseggio di Handke vedevo affiorare i sorrisi, macchiati di tristezza, dei bambini con i quali giocavamo a pallone tra macerie e crateri di granate – mai più viste così tante macerie, mai più visti simili straziati sorrisi. Handke parlava di realtà, senza che il suo discorso cadesse nella retorica, né in quella semplificazione politica, in senso stretto, che è certo necessaria, talvolta, ma che non aiuta a comprendere, a rendere alla vita tutta la sua meraviglia e la sua tragedia. Lo scrittore austriaco era esente da quel discorso ideologico che, da sempre, egli aveva ritenuto non dover far parte della scrittura. Non si dava – e credo non si dia nemmeno oggi -, per lui, la possibilità di una scrittura politicamente impegnata, proprio perché ogni tentativo in tal senso non porta che, da una parte, al tradimento della ricerca formale, a cui la scrittura si consacra, e, dall’altra, al compimento allucinatorio di un’azione sul mondo reale che la scrittura non può realizzare. Se l’azione efficace, ancorata al reale, è il campo della politica, il campo della letteratura è la dimensione del possibile, è l’irrealtà di un possibile e, al limite, la visione dell’impossibile.

Lessi quei libri, per parafrasare Handke, come una descrizione della mia vita. E – proprio come la madre dello scrittore e, in fondo, come chiunque creda alla letteratura, alla sua forza e alla sua inutile volontà di creare storie – leggendoli incominciai davvero a vivere.

I libri di Handke mi permisero, allora, di comprendere che la vita è il regno delle sfumature e che solo volendo le sfumature si può forse apprendere, se questo è poi davvero possibile, a vivere.  Leggendo i suoi libri mi parve di sentire risuonare una voce che non era né sua né mia ma neppure anonima; una voce che riconoscevo come se l’avessi già da sempre conosciuta pur senza averla mai incontrata. Come è giusto che sia, quei libri li dimenticai. Alzai gli occhi dalla pagina e mi tuffai nell’esistenza.

Poiché, però, nella vita, tutto torna, anche Handke e i suoi scritti, grazie alla visibilità sempre maggiore che hanno assunto negli anni, fino all’apogeo del Nobel nel 2019, sono tornati. Da qualche giorno, si unisce ai già molti volumi tradotti in italiano anche Appetito per il mondo. Saggi su letteratura, cinema e teatro, a cura e nella bella traduzione di Davide Di Maio e Gabriella Pelloni, libro che raccoglie una serie di saggi che vanno dal 1966 al 2003. Si tratta di un volume estremamente vario che mostra la capacità di Handke di affrontare campi diversi della cultura, sempre con uno stile unico, mai pedante o savant, ma semmai interessato a frequentare la soglia in cui immagine, parola, spazio scenico o filmico toccano il quotidiano esistere; lo sfiorano e lo mostrano sotto altra luce. In fondo, tutti i saggi, seppur spalmati su quasi quattro decenni, indicano una profonda vitalità intellettuale che, di volta in volta, viene declinata sulle varie arti.

Corinna Belz, Peter Handke / In the woods, might be late, 2016 (film still)

In uno dei testi che compongono il volume, Handke utilizza una formula estremamente pregnante per descrivere la vitalità del cinema odierno: “le immagini non sono agli sgoccioli”. Attraverso la lettura della sua opera saggistica, si ha l’impressione che per Handke, non solo le immagini, ma anche la letteratura, il teatro, la filosofia, le nostre società, insomma, nulla siano agli sgoccioli. In tutta la sua scrittura, tanto in quella finzionale quanto in quella saggistica, si percepisce un piglio che non saprei come altro definire se non vitalismo antinomico: Handke non è un pensatore della fine, anche se la abita fino in fondo; non è un pensatore del dato, ma del possibile che ogni dato non smette di contenere. Non si ferma mai a ciò che è, senza per questo mai dimenticare quello che brutalmente il mondo è. In ogni evento cerca ciò che apre la cosa, proprio quella cosa, alla sua dismisura, alla sua enormità. Va sempre oltre, restando ancorato al cuore della realtà. Non c’è fuga, semmai un affacciarsi sull’abisso che ogni seppur minima esistenza porta dentro di sé. Crede nella potenza e nella polisemia delle parole, delle immagini, dei pensieri. Ed esplora l’abisso per mezzo delle parole, delle immagini e dei pensieri. “Le immagini si rianimano attraverso le nuove storie mai ascoltate prima […]. E forse ciò, più che dalle storie, provie­ne da un certo sentimento vitale. Basta soltanto che questo sentimento sia sufficientemente potente da entrare in scena con la pretesa di esistere.”

Il suo è un vitalismo inquieto, privo di entusiasmi, ma colmo di attenzione verso tutto ciò che accade e che, accadendo, cade, precipitando verso il proprio nulla. C’è nella sua scrittura una fedeltà al vissuto, alla vita in ogni suo aspetto, al ritmo dei giorni, a quella che, in un libro per molti versi inattuale, Canto della durata, ha definito, per l’appunto, la durata. Durata lì intesa, e negli altri libri sempre sottintesa, come il fremito di un’esistenza che si percepisce in quanto vivente e in quanto testimonianza di un inestricabile nodo che lega i vivi ai morti, il visibile all’invisibile, le parole al muto silenzio delle cose. La scrittura – ma sicuramente anche l’arte, in tutte le sue forme – diviene così il tempo, la scansione di un tempo musicale, in cui risuona la fedeltà a una forma, a una forma di vita, a una forma che la vita dà a se stessa e che la parola, come l’immagine, trascrive, immagina, ritma. Stato di grazia attraverso il quale l’io accede alla dimensione del noi; miracoloso passaggio dalla solitudine del singolo alla estatica comprensione di un destino collettivo che ci sovrasta e ci ingloba. Esperienza epifanica in cui ogni cosa si mostra sotto altra luce, svelando un legame nascosto di tutto con tutto.

Nessuna svogliatezza anoressica nello sguardo di Handke; anzi, un appetito per il mondo, una curiosità reiterata anche e soprattutto per quei luoghi, per quei paesaggi umani e non-umani in cui nulla sembra poter risuonare. Esemplari, in questo senso, gli iconotesti contenuti nel saggio di Meltemi appena pubblicato. Anche nel deserto di acciaio e cemento della desolazione tecnoscientifica, sulla scena spettrale di città disumanizzate si apre, ancora e comunque, un vuoto che permette al sé di percepire l’eco del proprio respiro primario, originario, cosmico. Quell’afflato che, altrove, definirà come la possibilità di una nuova epica.

Peter Handke, per certi versi, accompagna la distruzione del mondo, senza ritrarsi, senza guardare indietro, senza nostalgie e con un certo coraggio. Lascia, però, che al fondo della distruzione balugini una presenza indistruttibile. Cosa sia l’indistruttibile non è dato sapere. Agli uomini non è concessa questa conoscenza; a loro, a noi, resta solamente una sorta di stupore reiterato per la vita, per il suo antinomico va e vieni; movimento senza fine anche al fondo della barbarie, tra le macerie, oltre ogni inverno, ogni crudeltà, ogni massacro, ogni disumanità celata alle radici stesse dell’umano. Tutto accade e tutto cade, ma nulla è davvero perduto. L’indistruttibile permane all’interno del cadere di tutte le cose. Forse, quel che resta, quel che indistruttibile permane e resiste, non è un sapere, ma la gioia che la vita è in sé. La forza vitale che ci trascina oltre ogni abisso, sempre più in là. Come Hölderlin ha scritto in modo definitivo, “poco sapere, ma di gioia molto / ai mortali è concesso”.

Peter Handke
Appetito per il mondo. Saggi su letteratura, cinema e teatro (1966-2003)
traduzione e cura di Davide Di Maio e Gabriella Pelloni
Meltemi 2022, 262 pp., € 20

In copertina: Peter Handke in uno scatto di Laura Stevens©

Federico Ferrari

(Milano, 1969). Insegna Filosofia dell’arte all’Accademia di Belle Arti di Brera. Tra i suoi ultimi libri: “L’insieme vuoto. Per una pragmatica dell’immagine” (Johan & Levi, 2013), “L’anarca” (Mimesis, 2014; 2a ed. Sossella, 2023), “Oscillazioni” (SE, 2016), “Il silenzio dell'arte” (Sossella, 2021) e, con Jean-Luc Nancy, “Estasi” (Sossella, 2022).

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